Vi sono molti interrogativi e contraddizioni che emergono dal Def 2014 presentato dal Governo Renzi la scorsa settimana.
Tra le tante criticità, ci occupiamo qui di un aspetto che riguarda la fotografia del paese che il Def 2014 ci consegna, e le fonti della non-crescita che mette in campo [1].
La fotografia di un paese che fatica a crescere
Il documento programmatico da un lato fotografa una paese che faticherà assai a crescere negli anni a venire, che al 2018 non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008, e quindi si allontanerà ancor di più dall’Europa continentale che crescerà ben sopra l’1,5%, cioè la crescita media prevista per l’Eurozona. Il Def 2014 prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%, ma già allora le istituzioni internazionali prevedevano tale scenario dello 0,8%, ed oggi lo hanno abbassato allo 0,6%. Il Def 2014 quindi rivede al ribasso le stime di quattro mesi orsono, ma non quanto altri organismi internazionali fanno, ultimo la settimana scorsa il Fondo Monetario Internazionale. Il Def 2014 rivede al ribasso anche le stime per il 2015 e 2016 (1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018.
Le componenti della domanda che sosterrebbero la crescita sarebbero gli investimenti privati che viaggiano a tassi di crescita crescenti dal 2% del 2014 al quasi 4% nel 2018 e le esportazioni che si mantengono sempre sopra il 4% annuo, che pareggiano però con le importazioni per cui il saldo commerciale rimane pressoché invariato nel tempo attestandosi su una percentuale positiva dell’1,5% circa del Pil, mentre per l’Eurozona si prevede un 2,5% ed un oltre il 6% per la Germania sempre più mercantilista. I consumi delle famiglie faticano invece a tenersi vicino all’1% di crescita se non alla fine del periodo, nel 2018, mentre la spesa pubblica [1] contribuisce quasi nulla alla crescita, “azzoppata” presumiamo dalla spending review che a regime nel 2016 deve realizzare risparmi di 32 miliardi. Peraltro con un avanzo primario della finanza pubblica che per compensare la quota degli interessi (in media sul 5% del Pil) arriva appunto al 5% del Pil nel 2018, e che si mantiene sopra il 4% nel 2016-2017, sopra il 3% nel 2015, e sopra il 2,5% nel 2014, sarebbe ben strano che lo strumento keynesiano per eccellenza potesse spingere il reddito verso l’alto.
D’altronde, le regole del “rigore ad ogni costo” son ferree ed assai poco ammorbidite dai viaggi di Renzi prima in Germania e poi al Consiglio Europeo: il pareggio di bilancio strutturale viene quasi raggiunto nel 2015 (-0,1% del Pil), assicurato negli anni successivi sino al 2018, mentre per il 2014 siamo ancora sotto di oltre mezzo punto percentuale, anche perché il deficit sul Pil non diminuisce così tanto quanto raccomanda la Commissione per ridurre il debito che infatti cresce alla soglia del 135% nel 2014 per attestarsi poi al 120% nel 2018. Si intravvede così un primo rinvio del raggiungimento dell’obiettivo di medio termine imposto dal Fiscal Compact, ed anche ricordiamolo dall’articolo 81 della nostra Costituzione che impone il bilancio in pareggio (corretto dal ciclo) già per il 2014.
Un modello trainato da esportazioni e investimenti ma senza domanda interna
Sul fronte della crescita colpiscono però le dinamiche delle esportazioni e degli investimenti delle imprese. Le prime passano da un misero 0,1% di crescita del 2013, al 4% del 2014, e in modo cumulativo al +20,8% al 2018. Tuttavia, ancor maggiore è il salto per gli investimenti. Questi crescerebbero ad un tasso superiore al 2% nel 2014, sopra il 3% annuo dopo, che cumulando fa +16,2% al 2018, quando nel 2013 sono scesi del 4,7%. Una autentica accelerazione indotta dagli animal spirits che sembrano destare dal torpore i nostri imprenditori, i quali si erano assopiti negli anni della crisi facendo segnare una decrescita dei loro investimenti di oltre il 27%. Per la verità, la dinamica degli investimenti non era eccellente neppure prima della crisi, se è vero che il tasso di accumulazione non ha mai superato il 2% annuo anche negli anni floridi post nascita dell’Euro, anzi è progressivamente diminuito sino al 2008, per poi crollare a valori negativi.
A cosa attribuire questo slancio vitale dell’economia italiana export-led e investment-led in un contesto di quasi stazionarietà di consumi delle famiglie e della componente pubblica della spesa aggregata?
Le prospettive del commercio internazionale sono dipinte come favorevoli nel Def 2014, ma non certo con dinamiche analoghe a quelle degli anni pre-crisi, anche perché le nubi all’orizzonte nella crescita dei paesi emergenti ed in quelli in via di sviluppo si sono pericolosamente avvicinate portando con sé un flusso consistente di capitale finanziario verso il vecchio continente nonostante i deboli segnali della sua crescita relativa ed i forti segnali di fragilità dei suoi debiti privati e di quelli sovrani. Inoltre il cambio dell’Euro non appare favorevole, e nel medio periodo non sembrano esservi segnali di un suo deprezzamento, anzi tutt’altro, prevalgono le forze verso ulteriori apprezzamenti che penalizzano la competitività del made in Europe ed in particolare del made in Italy che tende purtroppo più di altri a competere sul prezzo dei prodotti più che sul loro contenuto tecnologico.
La competitività italiana in tale contesto dovrebbe quindi trarre le sue motivazioni da una discesa relativa dei costi e quindi dei prezzi interni, da un controllo della dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto (l’onnipresente Clup), e quindi delle sue componenti, il costo del lavoro al numeratore e la produttività al denominatore. Il Def 2014 prospetta un paese che dovrebbe anche trarre vantaggio dalle misure che il governo intende assumere ed ha già iniziato ad assumere nel 2014 ed oltre, essendo tenuto a realizzare oltre al consolidamento fiscale anche le riforme strutturali, che significa più concorrenza sui mercati, in quello del lavoro in particolare.
Flessibilità del lavoro, liberalizzazioni e semplificazioni: le fonti della crescita son tutte qui
È interessante allora porre l’attenzione anzitutto sugli effetti che tali riforme programmate dal governo producono nell’economia. Le sorprese non sembrano mancare. Gli effetti macro degli interventi appaiono risibili nel 2014: i sette interventi [3] di cui nel Def 2014 vengono studiati gli effetti quantitativi producono nel 2014 un +0,3% di crescita sul reddito, ed un +0,2% di crescita sull’occupazione. Le riforme sul mercato del lavoro e le liberalizzazioni e semplificazioni spiegano da sole tutto l’impatto sul reddito, le riforme sul lavoro tutto quello sull’occupazione, mentre gli effetti delle detrazioni Irpef sono annullate dal modo scelto per finanziarle (spending review). Gli altri interventi, compreso il pagamento dei debiti commerciali della PA e la riduzione dell’Irap, sono ad impatto nullo [4].
Per registrare effetti consistenti occorre aspettare il 2018, con un contributo degli interventi pari a ben +2,4% nella crescita del Pil (+1,3% sull’occupazione). Ma anche al 2018, sono le riforme del lavoro ed il binomio liberalizzazioni/semplificazioni che spiegano quasi ben i 3/4 di questo impatto su reddito e occupazione, lasciando un qualche spazio alle detrazioni Irpef i cui effetti non vengono annullati nel medio periodo dalla spending review. Nel medio periodo, gli effetti cumulati dal 2014 al 2018 sarebbero pari a +6,6% sul reddito e +3,3% sull’occupazione. Sul reddito rimarremmo sotto di quasi 3 punti percentuali tenendo conto che ne abbiamo persi 9 nella crisi (2008-2013). Sull’occupazione il gap negativo sarebbe minore, avendo perso nella crisi 3 punti percentuali, ma nel 2018 il tasso di occupazione è previsto al 57,4%, sotto il livello del 58,7% del 2007 (55,5% previsto per il 2014). Inoltre, la disoccupazione, quella ufficiale, non riuscirebbe a ritornare sotto la soglia “simbolica” del 10% neppure nel 2018, dal 13% prevista per il 2014, quando era invece il 6% prima della crisi, nel 2007.
Gli interventi di cui si registrano i maggiori impatti sono quindi le politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro e dei beni e quelle di semplificazione normativa, che sono riforme realizzate a “costo zero”, senza risorse aggiuntive da parte del soggetto pubblico. In particolare sul mercato del lavoro si tratta per il governo Renzi del decreto Poletti sul contratto a termine e sull’apprendistato e degli eventuali provvedimenti prospettati con il Jobs Act, che, come esplicitato nel disegno di legge di aprile, non comportano oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche anche per quegli interventi di riordino degli ammortizzatori sociali ed estensione del sussidio di disoccupazione, nonché per le politiche attive del lavoro e per quelle di contrasto alla povertà. Appaiono nulli nel breve periodo e comunque secondari nel medio periodo gli impatti degli interventi di stimolo alla domanda interna, via alleggerimenti fiscali per le famiglie, oppure alla domanda estera, via maggiore competitività di costo e prezzo per le imprese con riduzione cuneo fiscale. Interventi di sostegno della domanda pubblica non sono previsti, anzi la spending review implica effetti negativi sulle componenti della domanda aggregata. Neppure politiche industriali o di sostegno all’innovazione sono previsti, a meno che si voglia considerare le privatizzazioni come unica via di politica industriale, peraltro che frutterebbe alla finanza pubblica circa 11 miliardi nel triennio 2014-2016 che vanno a copertura della riduzione del deficit e del debito pubblico.
A questi interventi vengono comunque attribuiti effetti a dir poco sorprendenti sulla competitività del sistema produttivo italiano. Mentre la dinamica dei prezzi interni si mantiene al di sotto del target inflazionistico della BCE (1,5% contro il target 2%), facendo comunque intravvedere un contrasto forte alla concreta presenza attuale della deflazione (anche se i recenti allarmi della BCE che annuncia politiche di quantitative easing lasciano presagire una non facile contrasto alla deflazione)[5], la crescita del costo del lavoro viene contenuta sotto l’1,5% annuo e la crescita del Clup ben 1 punto percentuale al di sotto di questo livello (al 2018 il Clup cresce solo dello 0,5%). Il raggiungimento di questo obiettivo si deve alla dinamica della produttività del lavoro che appare sorprendentemente “schizzare” verso la soglia dell’1% annuo al 2018 con una progressione costante dopo un sorprendente “balzo” iniziale (+1%) nel 2014 merito in parte della caduta dell’occupazione.
Il dilemma della produttività e la flessibilità del lavoro
È davvero peculiare questo risultato della produttività del lavoro italiana, se valutata alla luce di due considerazioni. Negli anni 2014-2018 si prospetta una crescita cumulata della produttività pari a ben 4 punti percentuali, che non sarebbe certo elevata se comparata a quella ben maggiore dei principali concorrenti europei, ma certo sorprendente qualora la si raffronti con il tasso di crescita della produttività del lavoro italiana negli anni 2000-2012 che è stata pari a 0,03% annuo, per segnare uno 0% “spaccato” nel 2013. E non sembra andare meglio per la produttività totale dei fattori, lavoro e capitale assieme, che anche essa si attesta a crescita “zero” negli anni dell’euro grazie alla pessima dinamica dell’investimento e del rapporto capitale/lavoro.
Nei due grafici che seguono, è indicata l’andamento della produttività del lavoro per ora lavorata per l’Italia, i paesi dell’Eurozona ed i paesi Oecd, dal 1990 al 2015 (indice 100 nel 1990) e dal 2000 al 2015 (indice 100 nel 2000). Per gli anni 2014 e 2015 si tratta di previsioni dell’Oecd.
Tra le tante criticità, ci occupiamo qui di un aspetto che riguarda la fotografia del paese che il Def 2014 ci consegna, e le fonti della non-crescita che mette in campo [1].
La fotografia di un paese che fatica a crescere
Il documento programmatico da un lato fotografa una paese che faticherà assai a crescere negli anni a venire, che al 2018 non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008, e quindi si allontanerà ancor di più dall’Europa continentale che crescerà ben sopra l’1,5%, cioè la crescita media prevista per l’Eurozona. Il Def 2014 prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%, ma già allora le istituzioni internazionali prevedevano tale scenario dello 0,8%, ed oggi lo hanno abbassato allo 0,6%. Il Def 2014 quindi rivede al ribasso le stime di quattro mesi orsono, ma non quanto altri organismi internazionali fanno, ultimo la settimana scorsa il Fondo Monetario Internazionale. Il Def 2014 rivede al ribasso anche le stime per il 2015 e 2016 (1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018.
Le componenti della domanda che sosterrebbero la crescita sarebbero gli investimenti privati che viaggiano a tassi di crescita crescenti dal 2% del 2014 al quasi 4% nel 2018 e le esportazioni che si mantengono sempre sopra il 4% annuo, che pareggiano però con le importazioni per cui il saldo commerciale rimane pressoché invariato nel tempo attestandosi su una percentuale positiva dell’1,5% circa del Pil, mentre per l’Eurozona si prevede un 2,5% ed un oltre il 6% per la Germania sempre più mercantilista. I consumi delle famiglie faticano invece a tenersi vicino all’1% di crescita se non alla fine del periodo, nel 2018, mentre la spesa pubblica [1] contribuisce quasi nulla alla crescita, “azzoppata” presumiamo dalla spending review che a regime nel 2016 deve realizzare risparmi di 32 miliardi. Peraltro con un avanzo primario della finanza pubblica che per compensare la quota degli interessi (in media sul 5% del Pil) arriva appunto al 5% del Pil nel 2018, e che si mantiene sopra il 4% nel 2016-2017, sopra il 3% nel 2015, e sopra il 2,5% nel 2014, sarebbe ben strano che lo strumento keynesiano per eccellenza potesse spingere il reddito verso l’alto.
D’altronde, le regole del “rigore ad ogni costo” son ferree ed assai poco ammorbidite dai viaggi di Renzi prima in Germania e poi al Consiglio Europeo: il pareggio di bilancio strutturale viene quasi raggiunto nel 2015 (-0,1% del Pil), assicurato negli anni successivi sino al 2018, mentre per il 2014 siamo ancora sotto di oltre mezzo punto percentuale, anche perché il deficit sul Pil non diminuisce così tanto quanto raccomanda la Commissione per ridurre il debito che infatti cresce alla soglia del 135% nel 2014 per attestarsi poi al 120% nel 2018. Si intravvede così un primo rinvio del raggiungimento dell’obiettivo di medio termine imposto dal Fiscal Compact, ed anche ricordiamolo dall’articolo 81 della nostra Costituzione che impone il bilancio in pareggio (corretto dal ciclo) già per il 2014.
Un modello trainato da esportazioni e investimenti ma senza domanda interna
Sul fronte della crescita colpiscono però le dinamiche delle esportazioni e degli investimenti delle imprese. Le prime passano da un misero 0,1% di crescita del 2013, al 4% del 2014, e in modo cumulativo al +20,8% al 2018. Tuttavia, ancor maggiore è il salto per gli investimenti. Questi crescerebbero ad un tasso superiore al 2% nel 2014, sopra il 3% annuo dopo, che cumulando fa +16,2% al 2018, quando nel 2013 sono scesi del 4,7%. Una autentica accelerazione indotta dagli animal spirits che sembrano destare dal torpore i nostri imprenditori, i quali si erano assopiti negli anni della crisi facendo segnare una decrescita dei loro investimenti di oltre il 27%. Per la verità, la dinamica degli investimenti non era eccellente neppure prima della crisi, se è vero che il tasso di accumulazione non ha mai superato il 2% annuo anche negli anni floridi post nascita dell’Euro, anzi è progressivamente diminuito sino al 2008, per poi crollare a valori negativi.
A cosa attribuire questo slancio vitale dell’economia italiana export-led e investment-led in un contesto di quasi stazionarietà di consumi delle famiglie e della componente pubblica della spesa aggregata?
Le prospettive del commercio internazionale sono dipinte come favorevoli nel Def 2014, ma non certo con dinamiche analoghe a quelle degli anni pre-crisi, anche perché le nubi all’orizzonte nella crescita dei paesi emergenti ed in quelli in via di sviluppo si sono pericolosamente avvicinate portando con sé un flusso consistente di capitale finanziario verso il vecchio continente nonostante i deboli segnali della sua crescita relativa ed i forti segnali di fragilità dei suoi debiti privati e di quelli sovrani. Inoltre il cambio dell’Euro non appare favorevole, e nel medio periodo non sembrano esservi segnali di un suo deprezzamento, anzi tutt’altro, prevalgono le forze verso ulteriori apprezzamenti che penalizzano la competitività del made in Europe ed in particolare del made in Italy che tende purtroppo più di altri a competere sul prezzo dei prodotti più che sul loro contenuto tecnologico.
La competitività italiana in tale contesto dovrebbe quindi trarre le sue motivazioni da una discesa relativa dei costi e quindi dei prezzi interni, da un controllo della dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto (l’onnipresente Clup), e quindi delle sue componenti, il costo del lavoro al numeratore e la produttività al denominatore. Il Def 2014 prospetta un paese che dovrebbe anche trarre vantaggio dalle misure che il governo intende assumere ed ha già iniziato ad assumere nel 2014 ed oltre, essendo tenuto a realizzare oltre al consolidamento fiscale anche le riforme strutturali, che significa più concorrenza sui mercati, in quello del lavoro in particolare.
Flessibilità del lavoro, liberalizzazioni e semplificazioni: le fonti della crescita son tutte qui
È interessante allora porre l’attenzione anzitutto sugli effetti che tali riforme programmate dal governo producono nell’economia. Le sorprese non sembrano mancare. Gli effetti macro degli interventi appaiono risibili nel 2014: i sette interventi [3] di cui nel Def 2014 vengono studiati gli effetti quantitativi producono nel 2014 un +0,3% di crescita sul reddito, ed un +0,2% di crescita sull’occupazione. Le riforme sul mercato del lavoro e le liberalizzazioni e semplificazioni spiegano da sole tutto l’impatto sul reddito, le riforme sul lavoro tutto quello sull’occupazione, mentre gli effetti delle detrazioni Irpef sono annullate dal modo scelto per finanziarle (spending review). Gli altri interventi, compreso il pagamento dei debiti commerciali della PA e la riduzione dell’Irap, sono ad impatto nullo [4].
Per registrare effetti consistenti occorre aspettare il 2018, con un contributo degli interventi pari a ben +2,4% nella crescita del Pil (+1,3% sull’occupazione). Ma anche al 2018, sono le riforme del lavoro ed il binomio liberalizzazioni/semplificazioni che spiegano quasi ben i 3/4 di questo impatto su reddito e occupazione, lasciando un qualche spazio alle detrazioni Irpef i cui effetti non vengono annullati nel medio periodo dalla spending review. Nel medio periodo, gli effetti cumulati dal 2014 al 2018 sarebbero pari a +6,6% sul reddito e +3,3% sull’occupazione. Sul reddito rimarremmo sotto di quasi 3 punti percentuali tenendo conto che ne abbiamo persi 9 nella crisi (2008-2013). Sull’occupazione il gap negativo sarebbe minore, avendo perso nella crisi 3 punti percentuali, ma nel 2018 il tasso di occupazione è previsto al 57,4%, sotto il livello del 58,7% del 2007 (55,5% previsto per il 2014). Inoltre, la disoccupazione, quella ufficiale, non riuscirebbe a ritornare sotto la soglia “simbolica” del 10% neppure nel 2018, dal 13% prevista per il 2014, quando era invece il 6% prima della crisi, nel 2007.
Gli interventi di cui si registrano i maggiori impatti sono quindi le politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro e dei beni e quelle di semplificazione normativa, che sono riforme realizzate a “costo zero”, senza risorse aggiuntive da parte del soggetto pubblico. In particolare sul mercato del lavoro si tratta per il governo Renzi del decreto Poletti sul contratto a termine e sull’apprendistato e degli eventuali provvedimenti prospettati con il Jobs Act, che, come esplicitato nel disegno di legge di aprile, non comportano oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche anche per quegli interventi di riordino degli ammortizzatori sociali ed estensione del sussidio di disoccupazione, nonché per le politiche attive del lavoro e per quelle di contrasto alla povertà. Appaiono nulli nel breve periodo e comunque secondari nel medio periodo gli impatti degli interventi di stimolo alla domanda interna, via alleggerimenti fiscali per le famiglie, oppure alla domanda estera, via maggiore competitività di costo e prezzo per le imprese con riduzione cuneo fiscale. Interventi di sostegno della domanda pubblica non sono previsti, anzi la spending review implica effetti negativi sulle componenti della domanda aggregata. Neppure politiche industriali o di sostegno all’innovazione sono previsti, a meno che si voglia considerare le privatizzazioni come unica via di politica industriale, peraltro che frutterebbe alla finanza pubblica circa 11 miliardi nel triennio 2014-2016 che vanno a copertura della riduzione del deficit e del debito pubblico.
A questi interventi vengono comunque attribuiti effetti a dir poco sorprendenti sulla competitività del sistema produttivo italiano. Mentre la dinamica dei prezzi interni si mantiene al di sotto del target inflazionistico della BCE (1,5% contro il target 2%), facendo comunque intravvedere un contrasto forte alla concreta presenza attuale della deflazione (anche se i recenti allarmi della BCE che annuncia politiche di quantitative easing lasciano presagire una non facile contrasto alla deflazione)[5], la crescita del costo del lavoro viene contenuta sotto l’1,5% annuo e la crescita del Clup ben 1 punto percentuale al di sotto di questo livello (al 2018 il Clup cresce solo dello 0,5%). Il raggiungimento di questo obiettivo si deve alla dinamica della produttività del lavoro che appare sorprendentemente “schizzare” verso la soglia dell’1% annuo al 2018 con una progressione costante dopo un sorprendente “balzo” iniziale (+1%) nel 2014 merito in parte della caduta dell’occupazione.
Il dilemma della produttività e la flessibilità del lavoro
È davvero peculiare questo risultato della produttività del lavoro italiana, se valutata alla luce di due considerazioni. Negli anni 2014-2018 si prospetta una crescita cumulata della produttività pari a ben 4 punti percentuali, che non sarebbe certo elevata se comparata a quella ben maggiore dei principali concorrenti europei, ma certo sorprendente qualora la si raffronti con il tasso di crescita della produttività del lavoro italiana negli anni 2000-2012 che è stata pari a 0,03% annuo, per segnare uno 0% “spaccato” nel 2013. E non sembra andare meglio per la produttività totale dei fattori, lavoro e capitale assieme, che anche essa si attesta a crescita “zero” negli anni dell’euro grazie alla pessima dinamica dell’investimento e del rapporto capitale/lavoro.
Nei due grafici che seguono, è indicata l’andamento della produttività del lavoro per ora lavorata per l’Italia, i paesi dell’Eurozona ed i paesi Oecd, dal 1990 al 2015 (indice 100 nel 1990) e dal 2000 al 2015 (indice 100 nel 2000). Per gli anni 2014 e 2015 si tratta di previsioni dell’Oecd.
Grafi.1: Indice della produttività del lavoro per ora lavorata, Italia,
Eurozona, Paesi Oecd, 1990-2015 (indice 1990=100), per 2014 e 2015
previsioni Oecd (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD, Economic Outlook, 2013).
Grafi.2:
Indice della produttività del lavoro per ora lavorata, Italia,
Eurozona, Paesi Oecd, 2000-2015 (indice 1990=100), per 2014 e 2015
previsioni Oecd (Fonte: nostre elaborazioni su dati OECD, Economic Outlook, 2013).
Cosa mai potrà determinare tale inversione di marcia dal 2014 in poi è
per noi un mistero, se non il motto renziano “cambiare verso!”, oppure
una “non-crescita assoluta” dell’occupazione?
Non intravvediamo interventi ed impegni di risorse e neppure annunci, peraltro “a costo zero” per ora, per politiche di sostegno all’innovazione, tecnologica, organizzativa, istruzione e formazione, per le politiche industriali, di settore, filiera e quant’altro, da parte del governo, fautrici di uno balzo “produttivistico” del nostro sistema industriale. L’unica politica annunciata che vediamo all’opera per ora è quella della deregolamentazione del mercato, del lavoro in particolare con il decreto Poletti ed il Jobs Act presentato al Parlamento, il quale peraltro è stato vanificato rispetto alla “versione per titoli” dell’8 gennaio 2014 [6] proprio nella sue potenziali componenti di “politiche industriali”. La strada della deregolamentazione del mercato del lavoro appare invece del tutto in continuità con le politiche di flessibilità del lavoro che sono in auge dagli anni novanta in Italia, ad iniziare dalla legge Treu del 1997, passando per la legge Maroni del 2003, sino agli interventi e gli indirizzi targati Sacconi più recenti, per giungere alla legge Fornero del 2012 che è intervenuta sulle uscite dopo che le riforme precedenti avevano liberalizzato gli ingressi.
Tuttavia, non è solo il confronto con la dinamica della produttività negli anni dell’euro a rendere poco credibili le previsioni del Def 2014, ma sono soprattutto i fatti stilizzati che contrastano con gli effetti “salvifici” attribuiti alle politiche di deregolamentazione del lavoro. Infatti, l’introduzione di maggiore flessibilità del lavoro, via deregolamentazione e liberalizzazione del mercato, che si traduce nella riduzione delle tutele del lavoro, non si associa a maggiore occupazione, minore disoccupazione, maggiore probabilità di stabilità dei rapporti di lavoro, maggiori retribuzioni, ma neppure a maggiore produttività. Anzi, l’evidenza empirica va in direzione opposta: deregolamentazione e liberalizzazione inducono minore crescita della produttività del lavoro.
Il lavoro flessibile meno tutelato, la diffusione di relazioni contrattuali che rendono più instabili i rapporti di lavoro induce le imprese ad investire meno sulla formazione, sulla innovazione organizzativa dei luoghi di lavoro, sull’innovazione tecnologica e spinge le stesse a concorrere sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità del lavoro e del prodotto, sulla sua intensità tecnologica. La crescita delle imprese che innovano è anzi frenata dalla concorrenza sui costi esercitata delle imprese che non innovano e che utilizzano lavoro flessibile, a bassa produttività e bassa retribuzione. La deregolamentazione del lavoro introduce incentivi distorti per le imprese, che ne modificano i comportamenti e comportano un peggioramento della dinamica della produttività, anziché una sua crescita. È ciò che è avvenuto in Italia dagli anni novanta: la crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha contrastato il declino della produttività, anzi ha contribuito a determinare quella “trappola della stagnazione della produttività” nella quale siamo immersi da oltre dieci anni. [7]
È quindi impensabile che ancor maggiori dosi di flessibilità possano curare il malato. La logica distorta del medico insipiente vuole che se con una cura dai deboli e dubbi effetti positivi non si intravvede la guarigione del malato, anzi lo si vede peggiorare, invece di cambiare la diagnosi e quindi migliorare la prognosi, si somministrino dosi ancor maggiori del letale medicamento, che a dosi crescenti intossica completamente il paziente. La flessibilità rischia poi di avere effetti analoghi ad una droga, più la prendi, più ne diventi dipendente, più difficile è rinunciarvi, ed al contempo ti indebolisce fino a farti schiattare.
Inoltre, mentre a Londra il 1 aprile 2014 il Presidente del Consiglio Renzi affermava: “I dati sulla disoccupazione lo dimostrano: nel 2011 l'Uk era all'11% e l'Italia all'8,4%, ora loro sono al 7%" e noi al 12,3%: in questi anni abbiamo perso troppa strada, noi abbiamo un sistema che manca di flessibilità. In Italia abbiamo 2100 articoli nel codice del lavoro. Noi pensiamo di scendere a 50-60 articoli, traducibili anche in inglese, che assicurino tempi certi”, ad Atene nello stesso giorno il Governatore della BdI Ignazio Visco dichiarava: “Sul fronte del lavoro abbiamo osservato una flessibilità non utile, utilizzata da imprese che non hanno innovato, ora stanno innovando, ma per lungo tempo hanno rinviato riducendo il costo del lavoro sfruttando la flessibilità. Bisogna perseguire una flessibilità diversa."
Conclusioni
Oggi che si dovrebbe finalmente abbandonare la fallimentare via dell’“austerità espansiva”, vi è davvero chi progetta invece di perseguire la via della “precarietà espansiva”?
La ricetta che ci raccomanda l’Europa delle tecnocrazie, e che l’Italia fa sua con il Def 2014, è purtroppo un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”. Consolidamento fiscale e riforme strutturali vengono declinate a senso unico in termini di tagli alla spesa pubblica ed al welfare sociale, di svalutazione del lavoro, indebolimento progressivo della contrattazione collettiva, precarizzazione del lavoro, contenimento dei salari, tutti fattori che assieme deprimono la domanda interna, abbassano la crescita, riducono l’occupazione ed accrescono il debito. Tutto ciò favorisce anche le divergenze tra nazioni e le divisioni tra i popoli. Una miscela esplosiva che gioca a favore dei populismi europei, di ogni natura ed in ogni paese, e contro l’Europa stessa.
Non sarebbe il caso a questo punto di rivedere la diagnosi e quindi finalmente cambiare prognosi, rinunciando alla droga, prima che il popolo-malato si ribelli e “rottami” anche questo medico fiorentino?
Questo testo sintetizza l’intervento svolto all’incontro “Il Documento di Economia e Finanza 2014-2017. Analisi e proposte” tenuto presso la Camera dei Deputati in data 11 aprile 2014. L'autore è Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Ferrara, Dip. di Economia e Management.
Non intravvediamo interventi ed impegni di risorse e neppure annunci, peraltro “a costo zero” per ora, per politiche di sostegno all’innovazione, tecnologica, organizzativa, istruzione e formazione, per le politiche industriali, di settore, filiera e quant’altro, da parte del governo, fautrici di uno balzo “produttivistico” del nostro sistema industriale. L’unica politica annunciata che vediamo all’opera per ora è quella della deregolamentazione del mercato, del lavoro in particolare con il decreto Poletti ed il Jobs Act presentato al Parlamento, il quale peraltro è stato vanificato rispetto alla “versione per titoli” dell’8 gennaio 2014 [6] proprio nella sue potenziali componenti di “politiche industriali”. La strada della deregolamentazione del mercato del lavoro appare invece del tutto in continuità con le politiche di flessibilità del lavoro che sono in auge dagli anni novanta in Italia, ad iniziare dalla legge Treu del 1997, passando per la legge Maroni del 2003, sino agli interventi e gli indirizzi targati Sacconi più recenti, per giungere alla legge Fornero del 2012 che è intervenuta sulle uscite dopo che le riforme precedenti avevano liberalizzato gli ingressi.
Tuttavia, non è solo il confronto con la dinamica della produttività negli anni dell’euro a rendere poco credibili le previsioni del Def 2014, ma sono soprattutto i fatti stilizzati che contrastano con gli effetti “salvifici” attribuiti alle politiche di deregolamentazione del lavoro. Infatti, l’introduzione di maggiore flessibilità del lavoro, via deregolamentazione e liberalizzazione del mercato, che si traduce nella riduzione delle tutele del lavoro, non si associa a maggiore occupazione, minore disoccupazione, maggiore probabilità di stabilità dei rapporti di lavoro, maggiori retribuzioni, ma neppure a maggiore produttività. Anzi, l’evidenza empirica va in direzione opposta: deregolamentazione e liberalizzazione inducono minore crescita della produttività del lavoro.
Il lavoro flessibile meno tutelato, la diffusione di relazioni contrattuali che rendono più instabili i rapporti di lavoro induce le imprese ad investire meno sulla formazione, sulla innovazione organizzativa dei luoghi di lavoro, sull’innovazione tecnologica e spinge le stesse a concorrere sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità del lavoro e del prodotto, sulla sua intensità tecnologica. La crescita delle imprese che innovano è anzi frenata dalla concorrenza sui costi esercitata delle imprese che non innovano e che utilizzano lavoro flessibile, a bassa produttività e bassa retribuzione. La deregolamentazione del lavoro introduce incentivi distorti per le imprese, che ne modificano i comportamenti e comportano un peggioramento della dinamica della produttività, anziché una sua crescita. È ciò che è avvenuto in Italia dagli anni novanta: la crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha contrastato il declino della produttività, anzi ha contribuito a determinare quella “trappola della stagnazione della produttività” nella quale siamo immersi da oltre dieci anni. [7]
È quindi impensabile che ancor maggiori dosi di flessibilità possano curare il malato. La logica distorta del medico insipiente vuole che se con una cura dai deboli e dubbi effetti positivi non si intravvede la guarigione del malato, anzi lo si vede peggiorare, invece di cambiare la diagnosi e quindi migliorare la prognosi, si somministrino dosi ancor maggiori del letale medicamento, che a dosi crescenti intossica completamente il paziente. La flessibilità rischia poi di avere effetti analoghi ad una droga, più la prendi, più ne diventi dipendente, più difficile è rinunciarvi, ed al contempo ti indebolisce fino a farti schiattare.
Inoltre, mentre a Londra il 1 aprile 2014 il Presidente del Consiglio Renzi affermava: “I dati sulla disoccupazione lo dimostrano: nel 2011 l'Uk era all'11% e l'Italia all'8,4%, ora loro sono al 7%" e noi al 12,3%: in questi anni abbiamo perso troppa strada, noi abbiamo un sistema che manca di flessibilità. In Italia abbiamo 2100 articoli nel codice del lavoro. Noi pensiamo di scendere a 50-60 articoli, traducibili anche in inglese, che assicurino tempi certi”, ad Atene nello stesso giorno il Governatore della BdI Ignazio Visco dichiarava: “Sul fronte del lavoro abbiamo osservato una flessibilità non utile, utilizzata da imprese che non hanno innovato, ora stanno innovando, ma per lungo tempo hanno rinviato riducendo il costo del lavoro sfruttando la flessibilità. Bisogna perseguire una flessibilità diversa."
Conclusioni
Oggi che si dovrebbe finalmente abbandonare la fallimentare via dell’“austerità espansiva”, vi è davvero chi progetta invece di perseguire la via della “precarietà espansiva”?
La ricetta che ci raccomanda l’Europa delle tecnocrazie, e che l’Italia fa sua con il Def 2014, è purtroppo un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”. Consolidamento fiscale e riforme strutturali vengono declinate a senso unico in termini di tagli alla spesa pubblica ed al welfare sociale, di svalutazione del lavoro, indebolimento progressivo della contrattazione collettiva, precarizzazione del lavoro, contenimento dei salari, tutti fattori che assieme deprimono la domanda interna, abbassano la crescita, riducono l’occupazione ed accrescono il debito. Tutto ciò favorisce anche le divergenze tra nazioni e le divisioni tra i popoli. Una miscela esplosiva che gioca a favore dei populismi europei, di ogni natura ed in ogni paese, e contro l’Europa stessa.
Non sarebbe il caso a questo punto di rivedere la diagnosi e quindi finalmente cambiare prognosi, rinunciando alla droga, prima che il popolo-malato si ribelli e “rottami” anche questo medico fiorentino?
Questo testo sintetizza l’intervento svolto all’incontro “Il Documento di Economia e Finanza 2014-2017. Analisi e proposte” tenuto presso la Camera dei Deputati in data 11 aprile 2014. L'autore è Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Ferrara, Dip. di Economia e Management.
NOTE
[1] Non toccheremo quindi ad esempio il problema delle coperture degli interventi annunciati, se strutturali o una tantum, e della loro solidità, anche se questo aspetto può avere riflessi significativi sui temi che qui discutiamo.
[2] Sul ruolo della spesa pubblica nel Def 2014, si veda l’intervento critico di Stefano Fassina pubblicato su L’Huffington Post, 13 aprile 2014: http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/def-2014-la-sinistra-che-non-cambia-e-destra_b_5142210.html?utm_hp_ref=italy
[3] Essi sono: 1) aumento detrazioni Irpef (6,6 miliardi nel 2014, 10 miliardi a regime); 2) riduzioni del 10% (5%) Irap, finanziata per metà (5%) con 3) tassazione rendite finanziarie; 4) spending review (4,5 miliardi nel 2014, 17 nel 2015, 32 nel 2016 a regime); 5) pagamento debiti commerciali (13 miliardi nel 2014, oltre ai 47 già stanziati nel 2013 – rimarrebbero scoperti ancora 31 miliardi per arrivare ai 91 stimati da Banca d’Italia); 6) liberalizzazioni e semplificazioni; 7) interventi sul mercato del lavoro (dalle modifiche della riforma Fornero del 2012 al Jobs Act del governo Renzi). Si veda tab.I.1, p.67 del PNR 2014, sez.III, parte prima. Gli effetti di altri provvedimenti quali le risorse per l’edilizia scolastica (2 miliardi per il 2014, coperture incerte), riduzione del 10% del costo dell’energia per le piccole e medie imprese (coperta da una rimodulazione della bolletta energetica a costo zero per la finanza pubblica, che quindi si scaricherà sugli utenti), rifinanziamento Fondo Centrale di Garanzia per il credito alle piccole e medie imprese (670 milioni nel 2014 e 2 miliardi nel triennio, senza indicazioni di copertura), edilizia residenziale (1,3 miliardi nel 2014, con coperture incerte), privatizzazioni (0,7% del Pil, pari a circa 11,2 miliardi di entrate per la finanza pubblica), riassetto idrogeologico del territorio (1,5 miliardi nel 2014, con coperture incerte), non vengono studiati. Questi interventi erano stati annunciati nella conferenza del 12 marzo 2014, con impegni finanziari superiori a quelli ora indicati, mentre altri annunciati non trovano conferma nel Def 2014.
[4] Sugli investimenti l’effetto nel 2014 è maggiore (+0,9%), spiegato quasi totalmente dalle liberalizzazioni e semplificazioni (0,7%) ed in minor misura dai pagamenti dei debiti PA (+0,2%). Al 2018 l’effetto diviene quasi strabiliante con un +4,6%, spiegato sempre da liberalizzazioni e semplificazioni (+1,9%) e dal pagamento dei debiti PA (+1,6%), a cui si aggiunge ora l’effetto detrazioni Irpef (+1,6%) compensato in parte dall’effetto negativo spending review (-0,6%). Gli effetti di riduzione Irap rimangono risibili. È interessante notare che gli effetti detrazione Irpef risultano maggiori sugli investimenti che sui consumi (+0,8%), ad indicare forse effetti moltiplicativi keynesiani davvero accelerativi sugli animal spirits (oppure bizzarri risultati econometrici)! Sui consumi delle famiglie invece gli effetti dei provvedimenti sono modesti, +0,4% nel 2014 (interamente attribuiti alle riforme del mercato del lavoro), se non nel medio periodo al 2018 (2,1%), con più di metà dell’impatto (1,1%) che viene attribuito alle riforme sul mercato del lavoro, oltre agli effetti detrazioni Irpef di cui sopra.
[5] In presenza di bassa inflazione, o addirittura deflazione, recuperare competitività via contenimento dei prezzi alla produzione è impresa comunque impossibile, dato che i margini di recupero sono strettissimi con un’inflazione dell’Eurozona poco sopra lo 0%. Solo una discesa dei salari monetari potrebbe contentirlo.
[6] Si veda eNEWS 381 di Matteo Renzi, non più disponibile nel sito originario http://www.matteorenzi.it/enews-381-8-gennaio-2014/, ma rintracciabile qui: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-09/la-e-news-renzi-jobs-act-125157.shtml?uuid=ABizPao.
[7] Recentemente, anche il Governatore della Banca d’Italia ha avuto modo di affermare: “[…] studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività” (http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2014/visco-bari-290314/visco-bari290314.pdf).
[2] Sul ruolo della spesa pubblica nel Def 2014, si veda l’intervento critico di Stefano Fassina pubblicato su L’Huffington Post, 13 aprile 2014: http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/def-2014-la-sinistra-che-non-cambia-e-destra_b_5142210.html?utm_hp_ref=italy
[3] Essi sono: 1) aumento detrazioni Irpef (6,6 miliardi nel 2014, 10 miliardi a regime); 2) riduzioni del 10% (5%) Irap, finanziata per metà (5%) con 3) tassazione rendite finanziarie; 4) spending review (4,5 miliardi nel 2014, 17 nel 2015, 32 nel 2016 a regime); 5) pagamento debiti commerciali (13 miliardi nel 2014, oltre ai 47 già stanziati nel 2013 – rimarrebbero scoperti ancora 31 miliardi per arrivare ai 91 stimati da Banca d’Italia); 6) liberalizzazioni e semplificazioni; 7) interventi sul mercato del lavoro (dalle modifiche della riforma Fornero del 2012 al Jobs Act del governo Renzi). Si veda tab.I.1, p.67 del PNR 2014, sez.III, parte prima. Gli effetti di altri provvedimenti quali le risorse per l’edilizia scolastica (2 miliardi per il 2014, coperture incerte), riduzione del 10% del costo dell’energia per le piccole e medie imprese (coperta da una rimodulazione della bolletta energetica a costo zero per la finanza pubblica, che quindi si scaricherà sugli utenti), rifinanziamento Fondo Centrale di Garanzia per il credito alle piccole e medie imprese (670 milioni nel 2014 e 2 miliardi nel triennio, senza indicazioni di copertura), edilizia residenziale (1,3 miliardi nel 2014, con coperture incerte), privatizzazioni (0,7% del Pil, pari a circa 11,2 miliardi di entrate per la finanza pubblica), riassetto idrogeologico del territorio (1,5 miliardi nel 2014, con coperture incerte), non vengono studiati. Questi interventi erano stati annunciati nella conferenza del 12 marzo 2014, con impegni finanziari superiori a quelli ora indicati, mentre altri annunciati non trovano conferma nel Def 2014.
[4] Sugli investimenti l’effetto nel 2014 è maggiore (+0,9%), spiegato quasi totalmente dalle liberalizzazioni e semplificazioni (0,7%) ed in minor misura dai pagamenti dei debiti PA (+0,2%). Al 2018 l’effetto diviene quasi strabiliante con un +4,6%, spiegato sempre da liberalizzazioni e semplificazioni (+1,9%) e dal pagamento dei debiti PA (+1,6%), a cui si aggiunge ora l’effetto detrazioni Irpef (+1,6%) compensato in parte dall’effetto negativo spending review (-0,6%). Gli effetti di riduzione Irap rimangono risibili. È interessante notare che gli effetti detrazione Irpef risultano maggiori sugli investimenti che sui consumi (+0,8%), ad indicare forse effetti moltiplicativi keynesiani davvero accelerativi sugli animal spirits (oppure bizzarri risultati econometrici)! Sui consumi delle famiglie invece gli effetti dei provvedimenti sono modesti, +0,4% nel 2014 (interamente attribuiti alle riforme del mercato del lavoro), se non nel medio periodo al 2018 (2,1%), con più di metà dell’impatto (1,1%) che viene attribuito alle riforme sul mercato del lavoro, oltre agli effetti detrazioni Irpef di cui sopra.
[5] In presenza di bassa inflazione, o addirittura deflazione, recuperare competitività via contenimento dei prezzi alla produzione è impresa comunque impossibile, dato che i margini di recupero sono strettissimi con un’inflazione dell’Eurozona poco sopra lo 0%. Solo una discesa dei salari monetari potrebbe contentirlo.
[6] Si veda eNEWS 381 di Matteo Renzi, non più disponibile nel sito originario http://www.matteorenzi.it/enews-381-8-gennaio-2014/, ma rintracciabile qui: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-09/la-e-news-renzi-jobs-act-125157.shtml?uuid=ABizPao.
[7] Recentemente, anche il Governatore della Banca d’Italia ha avuto modo di affermare: “[…] studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività” (http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2014/visco-bari-290314/visco-bari290314.pdf).
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