Italia. A unire i tre leader politici è l’obiettivo di parlare alla pancia dei cittadini esasperati e di intercettarne il consenso più semplice. Il più penalizzato è il capo di Forza Italia, rimasto ancorato al marketing delle televendite
Renzi, Grillo e Berlusconi rappresentano – con diverse inclinazioni e prospettive politiche – tre volti delle nervature populistiche e plebeiste che si sono diffuse nel corpo del paese in questi anni, di cui anche l’ormai appassita e decrepita espressione di Bossi ha rappresentato per lungo tempo la versione più feroce e gretta. Ovviamente il Pd – per la sua storia, la sua base sociale e le sue posizioni – non è un partito populista e sarebbe una grande sciocchezza affermarlo. Altrettanto sciocco sarebbe dire che il movimento di Grillo sia un partito politico o anche un più nobile movimento politico. Per non parlare di Forza Italia, punto d’incontro tra gruppo padronale, agenzia di marketing e coacervo di comitati di notabili.
Ma c’è un segno che unisce la storia di una parte significativa delle leadership politiche (e delle classi dirigenti) di questo periodo della storia politica italiana: lo scivolamento incessante nel vortice di una “politica della pancia” che si pone l’obiettivo d’intercettare gli umori più immediati, il consenso più semplice, gli slogan più accattivanti. Il processo è iniziato molti anni fa in Italia e in tutto il mondo, quando si è passati dalla democrazia della partecipazione alla democrazia del gradimento, mentre i cittadini-elettori sono divenuti cittadini-consumatori che si trovano a scegliere nell’ambito dell’offerta politica data il prodotto elettorale più convincente o, se si vuole, accattivante. I linguaggi sono quelli del marketing e della pubblicità, la persuasione è quella occulta e la partecipazione (passiva, eterodiretta e vuota) è spesso divenuta soltanto il mi piace del pollice alzato di Facebook.
Renzi e Grillo si combattono su questo terreno più avanzato (si fa per dire), mentre Berlusconi è rimasto – e anche per questo destinato a scivolare in graduatoria – alle tecniche datate della televendita e di un marketing che ottiene successo, solo o prevalentemente, tra i pensionati ancora spauriti dai cavalli dei cosacchi a San Pietro. La sfida – non sempre, ma spesso – è tra chi la spara più grossa, non tra chi la spara diversa; tra chi è più credibile rispetto alla medesima proposta politica. Nessuno ha più una base sociale specifica di riferimento, tutti hanno la stessa base elettorale che viene contesa a colpi di spot e messaggi semplificati.
Ovviamente ci sono i contenuti, anche se populismo e plebeismo sono non solo la forma, ma essi stessi il contenuto degradato e aggressivo di una politica che ha l’obiettivo di rendere superflui i corpi intermedi (per Grillo uno vale uno), per Renzi la concertazione va eliminata, per Berlusconi i corpi intermedi sono materia oscura) e sostanzialmente ridurre la decisione politica al bricolage di misure a effetto (dal punto di vista mediatico) dentro un contesto mai messo in discussione: quello neoliberista predeterminato dall’altra corrente dominante del nostro tempo, opposta e speculare al populismo, la tecnocrazia. Populismo e tecnocrazia (il governo degli esperti e delle istituzioni monetarie e finanziarie) si tengono alla fine per mano: i populisti – nonostante le posizioni roboanti – sono subalterni al modello neoliberista (come le misure sul lavoro di Renzi) e a un’idea di società dove scompaiono le classi e le differenze sociali, gli interessi materiali divergenti, la politica non solo come costruzione dell’interesse collettivo, ma come conflitto e arena di confronto tra visioni generali e progetti di società.
È evidente che Renzi e Grillo (non più Berlusconi) interpretano, nella società, una radicale voglia di cambiamento che va compresa e di cui farsi carico: se saprà emendarsi dalla semplificazione autoritaria (di cui abbiamo visto i segni nella riforma elettorale e costituzionale) e dall’aggressività liquidatoria un po’ craxista, la nouvelle vague di Renzi potrebbe essere messa al servizio di un progetto di trasformazione della società. Così come si presenta, al suo esordio, rischia di essere solo al servizio di un’oscura traiettoria personale, tutto sommato compatibile con i vincoli delle politiche neoliberiste (affatto messe in discussione nelle prime uscite europee di Renzi), e al massimo funzionale a una modernizzazione new age, senza qualità né effetti sul cambiamento vero di cui il paese ha bisogno.
Ma c’è un segno che unisce la storia di una parte significativa delle leadership politiche (e delle classi dirigenti) di questo periodo della storia politica italiana: lo scivolamento incessante nel vortice di una “politica della pancia” che si pone l’obiettivo d’intercettare gli umori più immediati, il consenso più semplice, gli slogan più accattivanti. Il processo è iniziato molti anni fa in Italia e in tutto il mondo, quando si è passati dalla democrazia della partecipazione alla democrazia del gradimento, mentre i cittadini-elettori sono divenuti cittadini-consumatori che si trovano a scegliere nell’ambito dell’offerta politica data il prodotto elettorale più convincente o, se si vuole, accattivante. I linguaggi sono quelli del marketing e della pubblicità, la persuasione è quella occulta e la partecipazione (passiva, eterodiretta e vuota) è spesso divenuta soltanto il mi piace del pollice alzato di Facebook.
Renzi e Grillo si combattono su questo terreno più avanzato (si fa per dire), mentre Berlusconi è rimasto – e anche per questo destinato a scivolare in graduatoria – alle tecniche datate della televendita e di un marketing che ottiene successo, solo o prevalentemente, tra i pensionati ancora spauriti dai cavalli dei cosacchi a San Pietro. La sfida – non sempre, ma spesso – è tra chi la spara più grossa, non tra chi la spara diversa; tra chi è più credibile rispetto alla medesima proposta politica. Nessuno ha più una base sociale specifica di riferimento, tutti hanno la stessa base elettorale che viene contesa a colpi di spot e messaggi semplificati.
Ovviamente ci sono i contenuti, anche se populismo e plebeismo sono non solo la forma, ma essi stessi il contenuto degradato e aggressivo di una politica che ha l’obiettivo di rendere superflui i corpi intermedi (per Grillo uno vale uno), per Renzi la concertazione va eliminata, per Berlusconi i corpi intermedi sono materia oscura) e sostanzialmente ridurre la decisione politica al bricolage di misure a effetto (dal punto di vista mediatico) dentro un contesto mai messo in discussione: quello neoliberista predeterminato dall’altra corrente dominante del nostro tempo, opposta e speculare al populismo, la tecnocrazia. Populismo e tecnocrazia (il governo degli esperti e delle istituzioni monetarie e finanziarie) si tengono alla fine per mano: i populisti – nonostante le posizioni roboanti – sono subalterni al modello neoliberista (come le misure sul lavoro di Renzi) e a un’idea di società dove scompaiono le classi e le differenze sociali, gli interessi materiali divergenti, la politica non solo come costruzione dell’interesse collettivo, ma come conflitto e arena di confronto tra visioni generali e progetti di società.
È evidente che Renzi e Grillo (non più Berlusconi) interpretano, nella società, una radicale voglia di cambiamento che va compresa e di cui farsi carico: se saprà emendarsi dalla semplificazione autoritaria (di cui abbiamo visto i segni nella riforma elettorale e costituzionale) e dall’aggressività liquidatoria un po’ craxista, la nouvelle vague di Renzi potrebbe essere messa al servizio di un progetto di trasformazione della società. Così come si presenta, al suo esordio, rischia di essere solo al servizio di un’oscura traiettoria personale, tutto sommato compatibile con i vincoli delle politiche neoliberiste (affatto messe in discussione nelle prime uscite europee di Renzi), e al massimo funzionale a una modernizzazione new age, senza qualità né effetti sul cambiamento vero di cui il paese ha bisogno.
Giulio Marcon - il manifesto
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