Nelle due ore e mezzo di introduzione al congresso della Fiom, a Rimini, di cose da dire Maurizio Landini ne ha avute molte. Dalla battaglia contro la Fiat all’invito a Renzi a “non stare sereno”. Ma, soprattutto, sulla Cgil.
Perché il leader dei metalmeccanici ha parlato da leader generale, da
anti-Camusso rinfocolando lo scontro interno. Che non è di natura
personale, come ha chiarito nella conclusione del suo intervento, ma
riguarda due concezioni di intendere il sindacato. In questo senso, il
futuro della Fiom è il futuro di un sindacato che cerca di difendere
un’idea conflittuale della lotta sindacale, che
mantiene “l’indipendenza” dai partiti e dai governi e che propone al
Parlamento, alle altre forze sociali, non solo una lista di
rivendicazioni, ma una visione generale. Tra i riferimenti nella
relazione, Landini si è soffermato su Pio Galli, segretario generale dal
1977 al 1985, erede di Bruno Trentin, dirigente comunista e riformista.
E anche su Enrico Berlinguer. Lo sguardo rivolto al Pci, dunque, rimane così come il fascino per il “paese nel paese” come ebbe a dire Pier Paolo Pasolini.
Parafrasando quel concetto, la Fiom oggi è un “sindacato nel
sindacato”, un insieme coeso – con una maggioranza omogenea di oltre il
70 % – che osanna Gino Strada e don Luigi Ciotti, che applaudirà oggi
Stefano Rodotà, che si batte contro la guerra e per l’intervento
pubblico nell’economia.
L’ultima ridotta di una sinistra che fu
l’unica risorsa per resistere al presente? Lo diranno i fatti.
Certamente, Landini nella sua relazione ha avuto gioco facile a chiedere
a Susanna Camusso cosa ne è stato di quella strategia
di collaborazione che i sindacati ancora oggi rivendicano
insistentemente: “Non abbiamo più le pensioni, l’articolo 18 è andato, i salari scendono, a cosa ci è servita la concertazione?”.
Qui si capisce meglio anche il rapporto, strumentale, con Matteo Renzi.
Con il #matteononstaresereno, Landini ha di fatto preso le distanze
dall’esecutivo, soprattutto in materia di lavoro: “Se il contratto unico
si aggiunge ai 46 già presenti e diventa il 47 °, è una presa in giro”.
Ma, allo stesso tempo ha invitato a non farsi distrarre dalla domanda
se “Renzi è di destra o di sinistra” perché “noi 80 euro di aumento non li abbiamo mai portati a casa”.
Renzi,
allora, costituisce una sfida per cambiare davvero, per cambiare
innanzitutto il sindacato. L’utilizzo del premier come puntello per
stringere d’assedio l’attuale segreteria è probabilmente quello che
brucia di più al gruppo dirigente attuale. Più degli attacchi sulla
Rappresentanza e più dello scontro sulla composizione dei gruppi
dirigenti, la polemica verte sulla legittimità dell’attuale strategia e
quindi della leadership. Camusso, ha ricordato con perfidia Landini, non
è la stessa che si faceva rappresentare il 4 agosto 2011 da Emma Marcegaglia per chiedere a Berlusconi di mollare il governo e inserire il pareggio di bilancio in Costituzione?
Occorre cambiare tutto, quindi, mimare la rottamazione renziana
per cambiare un sindacato in cui oggi, tranne la natura confederale
“non c’è più niente da conservare”. Serve un altro sindacato “che faccia
della democrazia, al suo interno e nel rapporto con i lavoratori, il
proprio rigoroso metodo d’azione”. In questa prospettiva Landini
esibisce i risultati della sua Fiom: la categoria con il numero più alto
di attivi, con il 54% di partecipanti al congresso contro una media del
20. Quella che, sul Testo unico, ha svolto un referendum autogestito
sui luoghi di lavoro che ha coinvolto 4.850 aziende, 333.324 lavoratori
con i No all’86,6%. “Questo è il risultato che ci vincola” non certo
quello deciso dalla Cgil.
Nell’immediato futuro sembrano esserci
due opzioni per questo progetto: cercare di battere il gruppo dirigente
attuale strappandogli alcuni degli attuali alleati (Cantone dello Spi?).
Ma resta l’opzione B, l’assoluta autonomia della Fiom anche dentro la
Cgil. Un “sindacato nel sindacato” che si cautelerà anche dal punto di
vista statutario e che non ha nessuna intenzione di mettersi a tacere.
Le due ore e mezza di Landini stanno a dimostrarlo.
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