lunedì 10 novembre 2014

Crisi, le teorie economiche di cui Keynes riderebbe. E se non fossero casuali? di Roberto Marchesi, Il Fatto Quotidiano

crisi grecia 640Nella tragedia di milioni di persone che perdono il posto di lavoro e ancor di più di persone che non possono evitare, a causa di una crisi che sembra non finire mai, una discesa sempre più rapida verso la fascia di povertà, c’è ben poco da ridere. Però è vero che se John Maynard Keynes potesse essere qui a vedere gli spropositi che combinano gli attuali economisti nel campo della macroeconomia (che lui per primo ha definito nella sua rilevanza), potrebbe davvero permettersi almeno un sorrisino di compassione verso questi presuntuosi macroeconomisti-pressapochisti del ventunesimo secolo. Come si può infatti sperare di risolvere una così grave crisi economica facendo esattamente il contrario di quello che l’esperienza aveva insegnato dopo gli errori commessi negli anni 30, e che proprio lui, Keynes, aveva esattamente individuato e insegnato a tutti?
Anche allora la crisi era scoppiata a causa degli eccessi dei banchieri, della borsa e delle transazioni commerciali finite fuori controllo. Con un cambio fisso delle principali monete, legate alla riserva aurea, che nelle fasi acute delle crisi si trasformava per tutti i paesi da ancora di salvataggio a cappio per l’impiccagione.
Ma fu proprio Keynes a capire per primo che l’economia di uno Stato non può funzionare come il piccolo bilancio dell’artigiano, che quando si accorge di essersi troppo indebitato procede con determinazione a tagliare ogni spesa che non sia assolutamente indispensabile. Il paradosso è che per lo Stato la politica del risparmio produce un effetto contrario a quello desiderato, perché i guadagni e le spese avvengono tutti nello stesso cerchio, quindi ogni taglio di spesa non compensato da un analogo incremento di spesa in qualcosa di diverso, diventa inevitabilmente una riduzione del Pil e una spinta verso la crisi.
Keynes ha subito notato infatti che, a causa dei tagli attuati dai governi dell’epoca (americani ed europei), le compagnie, incluso quelle che non erano state toccate seriamente dalla crisi, per semplice motivo di prudenza preferivano non spendere, non investire. Quindi, per una economia che non era statalista ma privatista, il risultato poteva trasformarsi in una sconfitta grave per il sistema capitalista. Eppure, giudicandolo dal punto di vista delle imprese, questo era un comportamento assolutamente virtuoso. Solo che se lo fanno tutti assieme l’economia si avvita, le fabbriche chiudono, i disoccupati aumentano e… si instaura un ciclo depressivo sempre più ampio e sempre più difficile da contrastare.
Keynes lo ha capito e ha perciò individuato nello Stato l’unico soggetto capace di spezzare questo cerchio negativo. Se i privati si rifiutano di spendere deve farlo lo Stato!
Sono due (grossomodo) le azioni che uno Stato può avviare per sostenere l’economia in crisi: tagliando le tasse oppure aumentando le spese. Entrambe sono state ampiamente perseguite in tutte le crisi che periodicamente hanno colpito le economie dei vari Paesi, ma in quest’ultima crisi, già gravissima di suo per l’estensione globale, sono accaduti contemporaneamente due fatti che hanno impedito ai rimedi suggeriti da Keynes di funzionare.
Da un lato gli ampi risparmi fiscali concessi alle imprese (per ora non molto in Italia) hanno consentito l’accumulo di immense somme nell’area privata, con utili record delle imprese nell’ultimo triennio, che però sono stati solo molto parzialmente reinvestiti sul proprio territorio nazionale. Dall’altro lato, sia in America che in Europa, sono stati applicati controproducenti tetti al debito statale la cui unica funzione seria sembra essere proprio quella di impedire ai governi di “sinistra” di intervenire secondo l’insegnamento di Keynes.
Così tra austerity, “tetti al debito” e delocalizzazioni siamo arrivati alla depressione. Dicevano che il risanamento a tappe forzate (cioè la stessa cura che ha causato la depressione degli anni Trenta) avrebbe restaurato la fiducia degli investitori. Qualcuno l’ha vista? Eppure è arcinoto che un po’ d’inflazione avrebbe fatto molto bene in casi come questo. Se avessero lasciato al governo europeo disponibilità di spendere subito massicciamente in azioni mirate, adesso non ci sarebbe nessuna crisi in Europa, e quel po’ d’inflazione che si sarebbe generata in eccesso al 2% programmato sarebbe già stato recuperato alzando i tassi in progressione ravvicinata (come ha fatto Alan Greenspan nel 2001 negli Usa e come fanno tutti i banchieri centrali del mondo in casi analoghi).
Keynes però potrebbe ridere di questi sciagurati macro-economisti se fossero degli sprovveduti, ma più ci si addentra nell’analisi di questa situazione e più forte diventa il sospetto che non ci sia niente di casuale:
– I repubblicani negli Usa, da sei anni non fanno altro che ostruzionismo alle politiche espansive di Obama per uscire dalla crisi, e adesso sono stati finalmente premiati con una vittoria schiacciante alle elezioni.
– In Europa l’austerità e le politiche economiche suicide ci hanno regalato l’entrata in depressione. Ma la Germania è salita in cattedra e i governi di destra (e in Italia anche di sinistra) stanno riuscendo in tutta Europa a fare riforme che, in periodo di vigore economico, non sarebbero mai riusciti, non dico a fare, ma nemmeno a proporre

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