Gli Altri
ha fin dalla nascita seguito, con sguardo trepido, Sel nella
convinzione che avrebbe rappresentato il nucleo di una Sinistra radicale
e libertaria, capace di superare tutti gli ismi – minoritarismo,
identitarismo, estremismo, comunismo… − che hanno finora affossato la
nascita di un soggetto politico capace di prospettare un’alternativa al
capitalismo globalizzato e alla sua ideologia, il liberismo. Le
riconosco il coraggio di aver scritto nel suo simbolo “libertà” rompendo
una vecchia tradizione del movimento operaio che ha sempre preferito
ignorarla lasciandola al campo avverso, come se gli ideali della
sinistra non avessero al centro sì la liberazione dallo sfruttamento ma
proprio per rendere libere le persone nel realizzare il proprio progetto
di vita, base delle diversità individuali e barriera contro il
collettivismo comunitario.
Già l’inserimento nel simbolo di un “Con Vendola” nega questa
tensione libertaria perché ripropone non solo la personalizzazione del
partito ma soprattutto un processo di identificazione delle singole
persone in e con un leader secondo la altrettanto vetusta tradizione del
movimento operaio che ha focalizzato le sue speranze di emancipazione e
libertà nell’azione e nel carisma di un “capo”, chiamato al sovrumano
compito di incarnare un processo storico e collettivo di milioni di
persone. La negazione della liberazione e della libertà.
Sel, fin dalla nascita, si è posta il compito di essere uno strumento
per condizionare il Pd per spostarlo su posizioni di sinistra, in campo
economico sociale ecologico, e in quello internazionale ed europeo.
Nell’ultima Assemblea nazionale l’orizzonte politico e culturale è stato
quello del centrosinistra e del rapporto con il Pd. E rispetto alle
settimane precedenti, quando sembrava che Sel avesse accettato perfino
l’alleanza di governo post-elettorale con l’Udc, l’Assemblea nazionale
ha detto che Casini “non fa parte di questa partita né prima né dopo il
voto”. Sembrerebbe una forte correzione di rotta perché rompe con lo
schema proposto da Bersani: alleanza elettorale dei progressisti, e
alleanza di governo post-elettorale con i moderati. Oggetto del
contendere il “montismo”, cioè la continuità che i mercati e l’Unione
Europea chiedono nelle politiche di austerità e di riforme strutturali,
cioè le liberalizzazioni e privatizzazioni nei servizi pubblici, la
flexsecurity e la contrattazione decentrata per porre fine al contratto
collettivo nazionale, la competitività del sistema economico. Eppure a
ben guardare anche questo tema rientra nella dialettica interna al Pd,
dove albergano le anime del modernismo e quelle del riformismo di
ispirazione ambedue liberiste: non a caso sono tutte e due al vertice
del Pd, rappresentate proprio dal vicesegretario Letta e dal segretario
Bersani. Non voglio derubricare questa dialettica a un gioco delle
parti, perché sono in ballo relazioni con la Cgil, con
l’associazionismo, con settori di provenienza Pci, dunque siamo in
presenza di sensibilità politiche tra loro differenti. Certo in Bersani
c’è un elemento tattico che non va sottaciuto né sottovalutato: solo in
nome di una certa discontinuità politica può accedere a Palazzo Chigi,
dunque una qualche differenziazione con Monti deve pure alimentarla e
farla alimentare.
Il punto però non è questo. E’ la prospettiva del centrosinistra a
prescindere dall’alleanza con Casini che va esaminata, perché oggi più
di ieri il centrosinistra si deve muovere nei binari tracciati dall’Ue
sotto la sferza dei mercati finanziari e della crisi del debito sovrano.
Anche Hollande aveva promesso la revisione dei Trattati e si è
accontentato di un Patto per la crescita, allegato all’ultimo Consiglio
europeo in cui le politiche di austerità sono rimaste al centro
dell’agenda europea. Ecco si tratta di mettere in discussione l’agenda
europea come definita nei Trattati − da quello EuroPlus del marzo 2011
al Fiscal Compact, che ha imposto tra l’altro la modifica dell’art. 81
della Costituzione, alle procedure del semestre europeo che accentrano
nella tecno-oligarchia di Bruxelles e della Bce le politiche di
bilancio.
Il Pd ha votato, divenendo anzi l’alfiere europeo, tutti i Trattati
che negli ultimi 24 mesi hanno ridisegnato la governance europea. Sel
sceglie di allearsi con il Pd, la cui linea è di costruire il
“centrosinistra europeo” (come lo definisce D’Alema). Si vuole chiedere
al Pd di ridiscutere i Trattati che ha votato in Parlamento? In questa
posizione si coglie una certa arroganza e un certo illusionismo.
L’arroganza di far rimangiare al Pd voti che hanno segnato le tappe
della definizione dell’agenda europea del suo governo, se mai vincerà le
elezioni, e della sua legittimazione agli occhi dei mercati e delle
élites dirigenti europee. L’illusionismo è di credere e far credere che
Sel, forte solo della sua alleanza, potrà aprire la via alla modifica
dei Trattati. Tutti sanno, e per primo lo sa Bersani (si veda la sua
intervista a Il Sole24ore del 9 agosto), che qualsiasi governo nei
prossimi anni dovrà attuare l’agenda europea, sotto il ricatto della
crisi del debito sovrano. Vuole Sel davvero aprire la via la
cambiamento? Allora deve elaborare un’agenda europea alternativa, ma
certo non potrà farlo con il Pd.
Un ultimo punto, non secondario. Ancora nel documento del 31 agosto
Sel rivendica un progetto di legge elettorale che dia potere agli
elettori di scegliere i rappresentanti e le coalizioni di governo,
richiamandosi al mattarellum, quindi a un sistema elettorale
maggioritario, che affidava agli elettori il compito primario di
investitura del governo. È Sel che ha trasformato la cultura del Pd o è
Sel che si è acconciata alla communis opinio che le elezioni servono ad
eleggere il governo e non la rappresentanza? Anche questa è una torsione
verso posizioni che esaltano la governabilità a scapito della
rappresentanza democratica. Sulla questione “governo” si è infranta la
sinistra, occorre più consapevole modestia intellettuale per
affrontarla, figuriamoci per risolverla.
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