Nel
meraviglioso mondo magico in cui viviamo, dove l’economia cresce (o
dovrebbe) illimitatamente, generando redditi altrettanto crescenti
capaci di sorreggere consumi possibilmente superiori, s’erge, come un
castello incantato, l’altrettanto meravigliosa banca centrale che tale
mitologia contribuisce a sostenere con la sua bonomia e le sue sempre
prodighe elargizioni.
Qui, in Europa, provincia di MagicWorld, ci arrivano purtroppo
soltanto gli echi del suo acuto (e astruso) ponderare, dovendoci
accontentare, essendo provincia dell’impero, degli aridi resoconti
contenuti nei bollettini ufficiali, come quello che ha ispirato questo
post e che qui ho pensato di raccontarvi nel caso, come è accaduto a me,
non aveste ancora capito che la banca centrale mondiale c’è già da più
di cent’anni. La trovate al 20th Street and Constitution Avenue
N.W. Washington, D.C, USA. Si chiama Federal Reserve.
Bontà sua, la banca centrale di MagicWorld è estremamente consapevole
del suo ruolo globale e quindi prende molto sul serio le sue
responsabilità. Stanley Fischer, vice presidente del board dei
governatori della banca, lo ha ripetuto più volte nel corso del suo
lungo intervento alla Per Jacobsson Foundation (“The Federal Reserve and
the global economy”), andato in scena durante l’ultimo meeting annuale
del Fmi e della Banca mondiale, l’11 ottobre scorso, sempre a
Washington.
Il succo è molto semplice: gli Stati Uniti hanno un evidente ruolo
globale, sia perché emettono la moneta internazionale, di fatto se non
di diritto, sia perché la loro stazza è capace di riverberare con grande
risonanza i propri affari interni all’esterno. La capacità di contagio
degli Stati Uniti, stante il combinato disposto delle due
caratteristiche, è pressoché infinita.
Al tempo stesso, osserva Fischer, gli Usa sono anch’essi sensibili ai
contagi che possono arrivare dai partner esteri, a cominciare da quelli
made in Europe, ma senza trascurare quelli che possono scatenarsi dai
paesi emergenti.
Perciò il castello incantato deve vigilare sul mondo intero, avendo
però un piccolo problema statutario: la missione affidata alla Fed dai
politici americani è quella della stabilità dei prezzi e dell’economia,
espressa con una serie di indicatori, interni. Quindi la Fed guarda al
mondo, ma deve principalmente occuparsi degli americani. Dal che risulta
chiaro che ciò che va bene per gli americani deve andar bene al resto
del mondo. Gli piaccia o no.
Appartiene d’altronde al retropensiero dell’economia del nostro
tempo, dove tutto deve essere pesato per quantità e non contato per
sostanza, la conseguenza che il pesce più grosso mangi quelli più
piccoli. Con buona pace degli economisti e dei banchieri che si sforzano
di celare l’attuale vigenza della legge della giungla su scala globale
col miglior birignao di cui dispongano.
Poiché qui si discorre anche di numeri, ossia di quantità, comincerò
col dirvi che il commercio, negli ultimi cinquant’anni, ha più che
triplicato le sue quantità a livello globale e il rapporto delle
esportazioni sul pil globale adesso quota circa il 30%. Negli Usa,
tuttavia, tale indicatore quota circa la metà, ossia il 15%. Quindi per
quanto sia “importante driver per l’economia”, spiega Fischer, non è
certo quello principale.
Peraltro la quota percentuale del pil americano su quello globale è
diminuita costantemente dalla metà del XX secolo, ma ciò non ha
provocato una relativa diminuzione dell’importanza degli Stati Uniti: al
contrario. Nello stesso periodo, infatti, si sono infittiti i legami
finanziari fra Usa e resto del mondo. Ed è qui che il nostro castello
magico, che genera d’incanto capitali fittizi, ha compiuto il suo
miglior capolavoro.
Gli americani possiedono asset all’estero che Fischer quota circa 25
trilioni di dollari, più del 140% del Pil americano, “che riflettono il
ruolo di guida dei mercati dei capitali Usa nella finanza
internazionale”. Al tempo stesso gli investimenti esteri negli Usa
quotano più di 30 trilioni di dollari. “I Treasury americani sono la componente chiave di questi debiti esteri“,
ci ricorda Fischer. Malgrado la posizione netta degli investimenti sia
pesantemente negativa, questi Treasury, ossia debiti del governo
americano, “sono considerati l’asset più sicuro al mondo e sono la forma
preferita di collaterale per un vasto range di contratti finanziari,
oltre a pesare circa la metà delle riserve estere degli altri paesi”.
Ve la dico come l’ho capita io: il debito pubblico americano, ossia
capitale fittizio, che negli ultimi anni ha trovato nella Fed uno dei
suoi migliori acquirenti, è, letteralmente, la liquidità che olia
l’ingranaggio della finanza globale. Sicché, pure se l’economia
americana perde peso relativo, e i suoi commerci di conseguenza, la
produzione e spaccio di capitale fittizio è più che sufficiente per
consentire agli Usa di regolare l’economia globale, come alla Fed di
fare la stessa cosa, ossia regolare la finanza internazionale.
Per comprendere meglio la ragnatela tessuta attorno a Magicworld,
è utile sapere che i paesi emergenti pesano il 47% dell’export
statunitense, rendendo perciò gli Usa estremamente sensibili all’aria
che tira laggiù. Quindi è del tutto evidente che la Fed debba rivolgere a
costoro la sua paziente attenzione, visto l’effetto che il loro
andamento ha sull’economia interna. Specie adesso che sta decidendo come
la politica monetaria debba evolvere nell’immediato futuro. E
figuratevi con che patema d’animo la Fed ha osservato la ventennale
deflazione giapponese e la crisi del debito scoppiata nell’eurozona,
ossia “i nostri più importanti partner, destinatari dei nostri
investimenti esteri nonché di una vasta esposizione bancaria”. “Tali
effetti pesano sulla crescita globale, dobbiamo tenerne conto quando
settiamo la nostra politica monetaria”, spiega Fischer.
Dulcis in fundo, “poiché il dollaro è la moneta più usata al mondo,
il nostro interesse nell’assicurare un buon funzionamento del sistema
finanziario ha un’inevitabile dimensione internazionale”. Insomma: gli
Usa si occupano di noi, degli altri, di tutti. In questo regolare la
vita degi altri, tuttavia, non vi è alcun esercizio di volontà di
potenza, ma semplicemente un calcolo di convenienza. Che è il modo
economico di raccontare la politica, a ben vedere.
Nel dettaglio, la prima considerazione di cui occorre tener conto,
spiega Fischer, è che i modelli illustrano con chiarezza che una
politica monetaria accomodante negli Usa conduce a un ribasso dei tassi
su scala globale. Quindi si può tranquillamente dedurne che vale anche
il contrario: quando i tassi americani salgono, il resto del mondo
segue, e questo dobbiamo ricordarcelo.
Questi “contagi” internazionali, ricorda Fischer, “sono un problema
almeno dal 1920″. Ricordo a tutti che la Fed fu fondata nel 1913. Ma
senza bisogno di andar così lontano, è sufficiente ricordare che dal
2008 in poi, dopo che la Fed ha varato il suo quantitative easing, le
principali banche centrali del mondo, ognuna a suo modo, si sono
adeguate.
Gli effetti di tale straordinario accomodamento monetario hanno
generato diverse preoccupazioni. Alcuni emergenti all’inizio paventavano
l’improvviso aumento di afflussi di capitali esteri nelle loro
economie, forieri di evidenti rischi sulla loro stabilità finanziaria.
“Ma allo stesso tempo – osserva – molti di loro sembravano felici di
ricevere questi afflussi”. Il denaro facile piace a tutti, d’altronde. Figuratevi a chi fatica a emergere.
Poi c’è la questione, improvvisamente tornata attuale in questi
giorni di correzione borsistica, che “gli acquisti della Fed hanno fatto
aumentare i prezzi degli asset acquistati e dei loro succedanei, oltre a
quelli degli asset più rischiosi“.
E, ancora più importante, “c’è l’evidenza che i mercati valutari esteri
sono stati siginficativamente colpiti dagli acquisti di asset della
Fed”, innanzitutto diminuendo i tassi sui bond locali e provocando
quindi un notevole aumento di emissioni.
Però, ricorda ancora, vengono sottovalutati gli effetti della
politica monetaria delle altre banche centrali, e segnatamente la Bce,
anche se, ammette, gli effetti delle politiche americane rimangono assai
più pronunciati. E ci sarebbe pure da chiedersi se la Bce e le altre
(BoJ e BoE) avrebbero iniziato le loro politiche espansive se gli Usa
non avessero dato il segnale di partenza.
Ma inutile perdersi in simili pinzillacchere. Quel che conta,
sottolinea il nostro banchiere, è che non solo la politica della Fed non
ha importato domanda da altre economia, con il classico effetto beggar
thy neighbor, ma al contrario ha beneficiato le economie estere che
hanno potuto godere del miglioramento dell’economia americana e del
miglioramento delle condizioni finanziarie globali. Quindi, ancora una
volta, ciò che va bene agli Usa funziona anche per il resto del mondo.
La qualcosa contiene anche una pericolosa controindicazione: se va male negli Usa, al resto del mondo andrà peggio.
Soprattutto, “ci aspettiamo effetti esterni – ricorda ancora – una volta che la politica monetaria diverrà più restrittiva“. Poi non dite che non ci hanno avvisato.
Ma tranquilli: la serrata della liquidità non comincerà prima che
l’economia americana sia forte abbastanza da sostenerla, e comunque non
prima che il tasso di inflazione sia vicino all’obiettivo del 2%. E ciò
dovrebbe bastare a rassicurarci, atteso che “un’economia Usa più forte
beneficia i nostri partner esteri (ossia tutti, ndr) e rinforza la
fiducia globale”.
Certo, la storia ci racconta altro: ogni volta che la Fed ha
invertito la sua politica monetaria, basta ricordare il drastico rialzo
dei tassi all’epoca di Volcker, il mondo cambia faccia e scoppiano
piccoli cataclismi. Ma il nostro banchiere sono certo che li consideri
modesti danni collaterali, di fronte al grande beneficio globale di
potersi appoggiare a un’America del Nord più forte.
E poi serve a riassicurarci anche un’altra circostanza: la banca
centrale di MagicWolrd ha piena consapevolezza delle sue responsabilità
globali.
“La domanda più importante – dice – è in cosa consista la
responsabilità della Fed rispetto all’economia globale”. “Il mio
maestro, Charles Kindleberger era convinto che la stabilità finanziaria
internazionale potesse più facilmente essere supportata di una banca
centrale globale o finanziariamente egemone. Ma deve essere chiaro che
la Fed non è questa banca. Il nostro mandato è concentrato su obiettivi
domestici, e per perseguirli dobbiamo riconoscere gli effetti delle
nostre decisioni sull’estero”.
Inoltre, “poiché il dollaro è così prominente nelle transazioni
internazionali, dobbiamo ricordare che il nostro mercato si estende al
di là dei confini e quindi dobbiamo essere pronti a provvedere la
necessaria liquidità”. In sostanza, “noi agiamo nell’interesse degli
Stati Uniti prendendo decisioni che beneficiano anche il resto del
mondo”.
Insomma: la Fed non è una banca centrale globale. Il problema è che MagicWorld parla americano.
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