È l’ultima frontiera del maanchismo piddino: il “sì critico”. Lo ha sdoganato la senatrice Laura Puppato. Prima è andata alla manifestazione di Roma in difesa della Costituzione, accanto a Rodotà e Zagrebelsky. Poi, con coerenza capezzoniana, due giorni fa ha votato la devastazione dell’articolo 138. Ha detto “sì”, come 100 suoi colleghi (su 107). Però lo ha fatto con struggimento: il “sì critico”, che è poi più che altro un “sì pavido”.
Nella sua instancabile opera di autodemolizione, il Pd non ha mai smarrito quel gusto sbarazzino per promettere una cosa e compierne un’altra. Se dice che non farà le larghe intese, le farà (dissociandosi però da se stesso, vittima di un perenne bipolarismo politico). Quando poi si allea con il centrodestra, lo fa “suo malgrado”, esprimendo sbigottimento per “le gravi anomalie” giudiziarie che caratterizzano il suo leader. E di cui il Pd si stupisce ogni volta. Come se, invece di avere per sodale Berlusconi, notoriamente mosso dallo stesso rispetto per le regole che nutriva Tyson per i lobi di Holyfield, avesse Gandhi.
Chi non si fida del Pd non pecca in malafede, casomai in realismo spicciolo. Gli stessi dissidenti piddini, categoria ormai iscritta alla Siae con tanto di diritti d’autore (il marchio l’ha depositato Civati, sempre più Mogol dei quasi-ribelli), rispettano codici precisi e orgogliosamente cerchiobottisti. La ribellione deve essere sempre vaga, accennata, disinnescata. Modica e parsimoniosa, ben pettinata e mai granché disturbante. Se partecipassero alla rivoluzione, i dissidenti piddini lo farebbero con l’attrezzatura bellica dei Gormiti e Civati sarebbe il Subcomandante Playmobil. Sei a favore della Costituzione? Facile: basta seguire la Ricetta Puppato.
Da una parte abbracci la società civile e ammicchi ai costituzionalisti colti, dall’altra rispondi “sissignore” a Frau Anna Finocchiaro. Però, mentre obbedisci, ti mostri un po’ dispiaciuto. Per meglio dire: un po’ “critico”. L’approccio più volte usato da Re Giorgio Napolitano, maestro di tutti loro, che firmava ogni legge ad personam berlusconiana esprimendo perplessità (però intanto le firmava: tutte). Il Pd è assai attento ai dissidenti altrui, ancor più se grillini, forse perché invidioso di una tipologia politica che non ha e dunque non conosce. Anche quando la contrarietà pare massima, il dissidente piddino non vota contro: sarebbe troppo eretico. Meglio astenersi, più ancora abbandonare l’aula. Così l’apparenza è salva (e con essa la figaggine su Twitter). E al contempo si evita l’espulsione, che esiste pure nel Pd ma chissà perché fa meno notizia.
Corradino Mineo, uno dei senatori più stimabili del Pd, era contrario alla distruzione della Costituzione. Non l’ha votata, e da quelle parti non è poco, ma neanche si è opposto: ha disertato il voto. Sempre Mineo, qualche settimana fa, ha scritto su Twitter che “nel decreto sul femminicidio il governo ha messo dentro di tutto”. Dando ragione alle critiche dei 5 Stelle. Quindi ha votato contro? No, a favore. “Turandosi il naso“. Nel Pd è tutto sbiadito e labile. Annacquato. Il loro ribelle preferito non è Che Guevara, ma Ponzio Pilato o magari Don Abbondio. Persino la rivoluzione, per bocca e ovvietà di Matteo Renzi, diventa “rivoluzioncina”, come comicamente sintetizzato ieri a Radio Deejay. Constatata l’impossibilità di essere coraggiosi, sarebbe bello che nel Pd si sforzassero quantomeno di dire “sì” quando è “sì” e “no” quando è “no”. C’è un limite anche al paraculismo. Forse
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