Il declino dell’Italia si fa giorno dopo giorno più evidente. Solo qualche giorno fa è uscito un resoconto più che minaccioso di Roberto Orsi della London School of Economics: una disamina spietata che mostra una desertificazione industriale del paese che rischia, presto, di diventare irreversibile. Un mix letale di politiche macroeconomiche sbagliate, di assenza di politiche industriale, di tassazione troppo alta sul lavoro e sulle imprese, di burocrazia ci porta a essere ormai un paese sempre più marginale in Europa come nel mondo. I dati usciti in questi giorni non fanno che rinforzare tale disamina. Prima abbiamo visto che la Borsa Italiana è ormai una sorta di scherzo: negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi economica, tutte le Borse, a parte quella di Atene hanno fatto profitti. Certo, le Borse dei paesi asiatici sono cresciute in maniera esponenziale, ma anche quelle europee sono riuscite a resistere, tranne, appunto quella italiana, ora sorpassata anche da Malesia e Indonesia. Non ci sono dubbi che le Borse non siano una buona o completa misura dello stato economico di un Paese, ma danno sicuramente una indicazione di un qual certo trend che non può non preoccuparci: in Italia non girano capitali e quindi ci sono pochi investimenti. Il mercato è asfittico, le piccole imprese non riescono e/o non vogliono quotarsi, diventando in questa maniera schiave del credito bancario, con tutti i rischi ad esso connessi, soprattutto in un periodo come questo. Le grandi imprese, nel frattempo, vanno all’estero a cercare finanziamenti, distaccandosi sempre più dall’Italia – vedi Fiat, ma non solo. E la Borsa italiana, con già un bassissimo indice di profittabilità, rimane invischiata in giochi di bassa lega in cui i grandi fondi non vogliono entrare. Sia chiaro, il capitalismo è un gioco sporco un po’ in tutto il mondo, ma i criteri italiani sono bassi anche per un mondo di pirati, senza reali protezioni per gli investitori, con una corruzione mostruosa, con una politicizzazione delle relazioni economiche (basti guardare che dirige la Consob) tale da impaurire gli investitori esteri.
A tutto questo si aggiunge l’articolo di Fubini su Repubblica in cui si annuncia che entro la fine dell’anno l’Italia non farà più parte del g8, scavalcata dalla Russia dopo esser stata già sorpassata dal Brasile. C’è poco da sorprendersi, in realtà, la Russia si sta riprendendo solo ora dopo il crollo, il caos e il latrocinio seguito alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Ma rimane un paese con una popolazione ben maggiore di quella italiana e, soprattutto, con risorse naturali – su tutte, ma non solo, gas e petrolio – che ovviamente contribuiscono in maniera decisiva alla dimensione del pil. La caduta in classifica non si fermerà però qui: presto India e Canada ci passeranno davanti. Per l’India sembra, nuovamente, un fatto scontato, un paese con una popolazione che supera il miliardo ed una industrializzazione e sviluppo molto rapidi. Sul Canada, come dice lo stesso Fubini, ci sarebbe da riflettere maggiormente: se è vero che le materie prime sono dalla parte dei Nord Americani, è anche vero che parliamo di un paese con una geografia a dir poco complicata e con una popolazione assai ridotta. Ma che investe in innovazione ed educazione, mentre in Italia si continuano a tagliare i fondi dell’Università, ad esempio.
Perdere il posto tra le prime otto o anche le prime dieci economie planetarie non è un fatto di per sè scioccante, ed è un destino che accomunerà presto tutte le maggiori economie europee – anche la Germania, con la sua più che preoccupante dinamica demografica non è certo esente da rischi. Il capitalismo è sempre meno occidentale, con la crescita dei Brics e non solo, basti guardare a paesi in forte ascesa come Corea e Turchia. Il problema però è che l’Italia è rimasta all’ancora, con due decenni di crescita piatta, con un mercato dei capitali asfittico, con investimenti ridotti in ricerca e innovazione, con una diseguaglianza crescente, una mobilità sociale a picco, con una preoccupante regressione dei diritti. Ma soprattutto senza nessun piano per il futuro. La forza italiana, negli ultimi sessant’anni, è stato un tessuto industriale di alto livello, basato per decenni sulla grande industria – dalla Fiat, all’Eni, all’Olivetti – e poi sulla crescita e la dinamicità delle piccole e medie imprese, la Terza Italia dei distretti industriali. Oggi poco o nulla rimane di questo, le imprese chiudono giorno dopo giorno mentre lo Stato si disinteressa del futuro industriale del Paese. Tra i tanti problemi potremmo citare banche spesso inutili, pochi capitali, pochi fondi per innovare, sempre meno investimenti sul capitale umano, la scelta suicida di puntare sull’abbassamento del costo del lavoro come medicina contro la sindrome cinese. Di questo passo il problema non sarà tanto il ranking italiano tra le economie più avanzate, ma l’esistenza di una Italia industriale tout court.
A tutto questo si aggiunge l’articolo di Fubini su Repubblica in cui si annuncia che entro la fine dell’anno l’Italia non farà più parte del g8, scavalcata dalla Russia dopo esser stata già sorpassata dal Brasile. C’è poco da sorprendersi, in realtà, la Russia si sta riprendendo solo ora dopo il crollo, il caos e il latrocinio seguito alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Ma rimane un paese con una popolazione ben maggiore di quella italiana e, soprattutto, con risorse naturali – su tutte, ma non solo, gas e petrolio – che ovviamente contribuiscono in maniera decisiva alla dimensione del pil. La caduta in classifica non si fermerà però qui: presto India e Canada ci passeranno davanti. Per l’India sembra, nuovamente, un fatto scontato, un paese con una popolazione che supera il miliardo ed una industrializzazione e sviluppo molto rapidi. Sul Canada, come dice lo stesso Fubini, ci sarebbe da riflettere maggiormente: se è vero che le materie prime sono dalla parte dei Nord Americani, è anche vero che parliamo di un paese con una geografia a dir poco complicata e con una popolazione assai ridotta. Ma che investe in innovazione ed educazione, mentre in Italia si continuano a tagliare i fondi dell’Università, ad esempio.
Perdere il posto tra le prime otto o anche le prime dieci economie planetarie non è un fatto di per sè scioccante, ed è un destino che accomunerà presto tutte le maggiori economie europee – anche la Germania, con la sua più che preoccupante dinamica demografica non è certo esente da rischi. Il capitalismo è sempre meno occidentale, con la crescita dei Brics e non solo, basti guardare a paesi in forte ascesa come Corea e Turchia. Il problema però è che l’Italia è rimasta all’ancora, con due decenni di crescita piatta, con un mercato dei capitali asfittico, con investimenti ridotti in ricerca e innovazione, con una diseguaglianza crescente, una mobilità sociale a picco, con una preoccupante regressione dei diritti. Ma soprattutto senza nessun piano per il futuro. La forza italiana, negli ultimi sessant’anni, è stato un tessuto industriale di alto livello, basato per decenni sulla grande industria – dalla Fiat, all’Eni, all’Olivetti – e poi sulla crescita e la dinamicità delle piccole e medie imprese, la Terza Italia dei distretti industriali. Oggi poco o nulla rimane di questo, le imprese chiudono giorno dopo giorno mentre lo Stato si disinteressa del futuro industriale del Paese. Tra i tanti problemi potremmo citare banche spesso inutili, pochi capitali, pochi fondi per innovare, sempre meno investimenti sul capitale umano, la scelta suicida di puntare sull’abbassamento del costo del lavoro come medicina contro la sindrome cinese. Di questo passo il problema non sarà tanto il ranking italiano tra le economie più avanzate, ma l’esistenza di una Italia industriale tout court.
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