1. Un
paradosso apparente
Se si
volesse delineare sinteticamente la condizione in cui versa il capitale
mondiale in questo periodo, probabilmente l’immagine che maggiormente potrebbe
essere d’ausilio per interpretare il comportamento dei principali indicatori
economici sarebbe quella del paradosso, anche se solo apparente. Sono ormai
mesi, e lo abbiamo adeguatamente riportato e dettagliato nei precedenti numeri
di questa rivista, che diverse grandezze si stanno stabilizzando su un
andamento divergente rispetto a quello che “normalmente” sarebbe ragionevole
attendersi, sovvertendo talvolta anche i più triviali meccanismi relazionali.
Tale ineffabile condotta, per quanto, da una parte, possa permettere la ripresa
dell’accumulazione per singoli capitali, d’altro canto, essendo generata dall’incedere
contraddittorio della crisi del capitale, sta ponendo le basi per un futuro, e
neanche troppo lontano, pesante aggravamento della condizione del capitale
mondiale, inteso nella sua unicità.
Nel numero
passato di questa rivista – chiuso giusto al ridosso dell’esito precario della
tornata elettorale per il parlamento italiano – tentavamo già di offrire un
quadro interpretativo dell’umore degli agenti del capitale: l’incertezza e l’angoscia
di un rischio imminente ci apparivano allora come le sensazioni prevalenti all’interno
della classe dominante, dovute sia al presumibile esito senza vincitori delle
elezioni italiane, sia ad una strana euforia di borsa che andava in direzione
diametralmente opposta a quella che l’accumulazione reale – e pertanto anche il
livello di occupazione – continua a tracciare da ormai più di cinque anni:
dapprima, la crisi di Cipro è sembrata essere l’innesco di una detonazione che
avrebbe potuto davvero far male a molti, salvo poi ridimensionarne le
potenzialità a causa della sua svelata specificità di paradiso fiscale
in cui il riciclaggio russo la fa da padrone.
Tuttavia,
forse più di allora, tale schizofrenia inizia ad assumere dei connotati
estremamente allarmanti e, finalmente, anche gli analisti di borsa – braccio fidato
del capitale – iniziano a comprendere che la situazione è quasi del tutto
compromessa: se ad un alieno capitasse di essere catapultato oggi per la prima
volta sulla terra e si trovasse dinanzi ad un qualsivoglia periodico
finanziario, avendo così la possibilità di apprendere gli andamenti degli
indici azionari dei paesi imperialisti degli ultimi mesi, questi non avrebbe
alcun dubbio nell’affermare che il capitale mondiale stia vivendo uno dei suoi
momenti più floridi e che semmai ci sia stata una fase di crisi essa deve
essere appartenuta ad un passato ormai assolutamente remoto. E invece, come
purtroppo sanno quelli che vivono della materialissima alienazione quotidiana
della propria forza-lavoro ai proprietari delle condizioni oggettive di
produzione, le cose non stanno affatto così visto che, in particolare nell’area
dell’euro, la disoccupazione continua a correre, specie nella fascia dei lavoratori
più giovani; il 2013 – ora lo si può dire, dopo le finzioni benauguranti dei
discorsi di fine 2012 – sarà un anno di recessione generalizzata,
particolarmente acuta nei paesi del sud del continente e, al di là di proclami
destinati semplicemente ad alimentare vane speranze, già ridotte al lumicino,
della classe subalterna “in sonno”, anche l’anno prossimo sembra incanalarsi
nuovamente sulla triste china a cui ormai siamo purtroppo abituati.
2. Capitale
bipolare
Provoca
certamente rabbia vedere gruppi di broker finanziari festanti,
brindare ai record raggiunti ormai quotidianamente dalle borse di mezzo mondo,
specie se si raffrontano tali stoltezze iconografiche con le contemporanee
notizie drammatiche scaturenti da una disoccupazione ormai giunta ai massimi
livelli: persino negli Stati uniti – che, ripetiamo, oltre ad esser stati
l’epicentro del magnifico crollo di fine 2008, ancora rappresentano l’area al
mondo alle prese con le maggiori difficoltà – gli stessi agenti del capitale,
che erano in preda a vere e proprie crisi di panico nei mesi subito successivi
al fallimento pilotato di Lehman bros [Lb], in queste settimane trovano il
coraggio di indossare magliette e cappellini inneggianti ai nuovi volumi di
“affari” raggiunti sui mercati locali del capitale fittizio. È quanto mai
probabile che questo tipo di atteggiamento sia frutto della specifica schizofrenia
del capitale che li comanda, ma, al di là di tale esteriorizzazione, che solo
con una buona dose di eufemismo può essere definita folcloristica, è significativo
tentare di sviscerare le ragioni che si trovano alle fondamenta di questo
inatteso e, solo apparentemente, anomalo andamento.
Seguendo
alla lettera una litania ben nota a Wall Street (sell in may and go away),
la prima metà del mese di maggio dell’anno corrente ha visto gli operatori del
capitale speculativo abbandonare ogni remora, immergendosi in un volume di
“affari” che, se da una parte trova pochi precedenti anche prima del crollo di
Lb, dall’altra ha permesso a molte piazze finanziare di superare alcune soglie
(cosiddette psicologiche) ottenendo dei risultati che, innegabilmente, rimarranno
nella storia: l’abbondante utilizzo del termine rally, ormai patrimonio
non più esclusivo della stampa specializzata, rappresenta proprio questa serie
di movimenti che, in poche settimane, ha traghettato la borsa di Francoforte a
superare gli 8.200 punti [Dax] già nei primi giorni di maggio, i 15.000 negli
Usa [Dow Jones], ad uno stato euforico sui listini nipponici, oltre ad aver
garantito alla gran parte delle piazze finanziare profitti particolarmente
soddisfacenti, aggiungendo nuovi tasselli alla scia di performance che
dall’inizio dell’anno si è stabilizzata in territorio nettamente positivo.
Analogo
comportamento è stato osservato persino nell’asta dei titoli di stato che, nel
biennio 2010-2011, invece, specie nel caso dei piigs, venivano descritti
più o meno come spazzatura con grado massimo di insolvenza e, per questo, vulnus
dell’intero sistema del capitale, in quanto rappresentazione del più ampio debito
pubblico di paesi sull’orlo del default. Se l’acquisto dei Bund
tedeschi, in realtà, ha mostrato tutt’altro che una flessione negli ultimi
cinque anni – percorrendo, per ovvie ragioni, un andamento anticiclico proprio
in luogo delle crisi più acute del debito dei piigs e garantendo,
pertanto proprio per questa ragione, un afflusso di capitale estero, più che
significativo, nelle casse tedesche – e se quella dei Treasury statunitensi è
in ripresa da tempo, ciò che maggiormente stupisce è la domanda significativa
di Bonos spagnoli, dei Btp italiani, dei titoli portoghesi e ... persino di
quelli greci il cui rendimento, proprio per l’eccesso di richieste, si è ridotto
in una settimana dell’1%: probabilmente anche per questa ragione Fitch ha
“resuscitato” il rating dei titoli ellenici da un mortifero c ad un indecente bbb-. Tutti i politicanti, alfieri dell’austerity,
non attendevano altro per accreditarsi dinanzi ai proletari massacrati nei
mesi passati con l’alibi di dover stabilizzare i conti dissestati: e così si è
costretti ad ascoltare persino le dichiarazioni trionfanti dei rappresentanti
del governo greco rivendicanti la rettitudine delle loro manovre che in pochi
anni hanno fatto della società ellenica un cumulo di macerie garantita dal
braccio autoritario e violento del capitale, Alba dorata.
Oltretutto,
la questione, già intrisa di sospetti, diviene ancora più preoccupante se si
osserva che l’assalto ai titoli di stato non si è limitato a quelli emessi da
paesi che, almeno prima del 2008, si erano dimostrati essere sufficientemente
solventi; quel che più colpisce è che questa mostruosa richiesta è stata
rivolta persino ai paesi meno stabili del continente africano. In Ruanda, ad esempio,
la recente emissione di titoli ha ricevuto una clamorosa over-subscription:
ciò vuol dire che il volume della domanda per l’acquisto dei titoli del debito
pubblico ruandese è stato di ben otto volte superiore rispetto all’offerta,
nonostante i tassi di rendimento non fossero particolarmente alti, da rendere
ragionevole l’accollo di un rischio così significativo; se si considera che il
tasso di rendimento è persino più basso rispetto a quello offerto dagli
omologhi italiani sino a qualche mese fa, ci si rende conto dell’entità
dell’anomalia. Da questo punto di vista sembra opportuno sottolineare come
questi titoli, con scadenza a 10 anni, siano stati emessi in valuta straniera
(dollari Usa), riproponendo, sebbene su scala per ora inferiore, quel
meccanismo adottato in diversi paesi latinoamericani (Argentina in primis)
tra la fine degli anni ottanta ed il decennio successivo, che ha reso
praticamente impossibile la restituzione di tale debito contratto in valuta
“forte”, divenendo così una delle cause principali del conseguente default.
Poiché i
dati apparentemente positivi che dovrebbero trainare questa euforia si limitano
a quelli sulla disoccupazione Usa – le cui risultanze sembrerebbero essere
timidamente positive (nel mese di aprile ci sarebbe stato un calo dello 0,1%)
–, a quelli del Pil tedesco (anch’esso cresciuto su base annua di un
impercettibile 0,1%) e a quelli inerenti la produzione industriale olandese e
di pochi paesi nordeuropei rispetto allo stesso mese del 2012, allora il dubbio
si gonfia a dismisura. Infatti, a questi striminziti segnali di presunta
vitalità, si contrappone una serie di tragedie macroeconomiche che non sembrano
prevedere rallentamenti nel futuro più prossimo: in Europa, complessivamente la
contrazione dell’indice di produzione industriale è stato prossimo al 2%
rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; in Italia, per il settimo
trimestre consecutivo lo stesso indicatore è crollato (-5,2%), mentre in
Spagna, Portogallo, Germania (-1,7%); la Francia (-1,6%), paese ormai entrato
di diritto nel club dei paesi in recessione tecnica, ha registrato una
riduzione del Pil per il secondo trimestre consecutivo: da questo punto di
vista, comunque, il paese transalpino si trova in ottima compagnia, già che la
contrazione media dell’eurozona è pari all’1% e oltre agli scarni risultati
tedeschi solo i nord europei forniscono dati positivi.
Chiaramente,
a questo stillicidio di numeri negativi corrispondono analoghi drammi dal punto
di vista della disoccupazione che in tutto il continente continua a crescere
sensibilmente, raggiungendo quasi un quarto nel totale della forza-lavoro, con
punte nettamente superiori al 50% come in Grecia per quel che riguarda la
fascia di età inferiore ai 34 anni; per di più, se si indaga più nel dettaglio,
i dati citati in precedenza relativamente all’occupazione Usa sono
prevalentemente attribuibili ad una diminuzione della forza lavoro attiva con
un conseguente ed inevitabile riduzione, seppur minima, della disoccupazione:
quindi, in realtà, il numero degli occupati è restato del tutto identico, con
buona pace dei fantomatici nuovi 165.000 posti di lavoro millantati dagli
equilibristi dell’economia di casa Usa.
3.
Spazzatura aurea
Un andamento
dei titoli azionari così sostenuto, in generale, può essere giustificato da due
fenomeni alternativi e del tutto divergenti: da situazioni di accumulazione
netta strettamente positiva e diffusa a livello mondiale (o almeno da uno
scenario presumibilmente migliorativo), questione che spinge i valori delle azioni
presenti in borsa a crescere di una misura simile; dalla condizione opposta,
ossia nelle fasi più acute della crisi da sovrapproduzione, quando una pletora
di capitale monetario accumulatasi nelle mani della classe dominante,
individua nel giuoco di borsa l’unica possibilità per autovalorizzarsi
attraverso il profitto (senza passare per merce e plusvalore), tramutandosi in
pianta stabile in capitale fittizio; in assenza, dunque, di accumulazione
crescente, il risultato più ovvio è che, a livello più ampio, un miglioramento
sostenuto dei valori dei titoli di borsa non fa altro che rigonfiare bolle
speculative in ragione geometrica.
Anche gli
apologeti più servili del modo di produzione del capitale – che ideologicamente
continuano a chiamare “economia di mercato” come se il mercato fosse una
fattispecie esclusiva del capitalismo – in questo momento non se la
sentirebbero di sostenere che l’accumulazione mondiale stia procedendo a gonfie
vele: persino la Repubblica popolare cinese, locomotiva del capitale mondiale
almeno dell’ultimo decennio, nel 2012 ha osservato un aumento del pil inferiore
all’8%, soglia che, secondo molti, rappresenta il limite al di sotto del quale
la Cina diviene permeabile ad eventuali rivolte sociali potenzialmente destabilizzanti.
Scartata pertanto la possibilità che i rally di borsa siano indotti da
una esaltante produzione e circolazione di neovalore a livello mondiale,
quella del violento rigonfiamento di una immensa bolla speculativa – conseguenza
e, pertanto, non causa della crisi di accumulazione – resta l’ipotesi
più agghiacciante e al tempo stesso più conforme alla realtà.
Un esempio
su tutti può fornire un’adeguata rappresentazione di ciò che sta avvenendo sui
mercati finanziari internazionali. Certamente tutti ricordano la bolla legata
ai derivati sui mutui subprime, ossia quei pacchetti azionari-immondizia
che già dal 2006 furono messi in circolazione, con l’approvazione colpevole
delle agenzie di rating, ma che erano minati alle fondamenta da una più
che certa insolvenza da parte dei debitori, quei soggetti statunitensi che,
privi di ogni tipo di garanzia (lavoro stabile, proprietà ecc.), avevano preso
a prestito cifre ingenti per l’acquisto di immobili che, dopo l’esplosione
della bolla di fine 2008, avrebbero inevitabilmente perso in quanto
insolvibili. Uno tra quei tanti bond era denominato Mabs 2006-Fre1 ed era uno strumento costruito su
mutui subprime di circa duemila persone (che, come previsto, in gran
parte non avrebbero restituito le somme contrattate) il cui valore, già a fine
2008 era giunto, per ovvie ragioni, ad una cifra praticamente nulla: ma come
questo, una miriade di strumenti simili erano stati venduti in ogni parte del
mondo – proprio perché dotati di una buona valutazione rilasciata dalle agenzie
di rating – lasciando nelle mani degli acquirenti ciò che si rivelò essere
un pugno di mosche quando, alla fine del 2008, il giuoco veniva svelato e
l’immensa bolla iniziò a detonare.
Ebbene, ciò
che spaventa di più, è che, dopo un quinquennio di crisi pesantissima, di
rassicurazioni da parte dei rappresentanti istituzionali che i comportamenti
“dissoluti” svolti nel decennio precedente il crollo di Lb non si sarebbero più
verificati, all’inizio del 2013 un fondo speculativo del Colorado ha avuto il
coraggio di acquistare proprio il “maledetto” Mabs 2006-Fre1, nonostante
il tasso di insolvenza di chi contratta questi mutui sia salito al 57%; perdipiù,
è importante sottolineare come tale scelta non sia stata frutto di una
scellerata strategia suicida, in quanto non pochi operatori hanno messo gli
occhi sul titolo, dacché la sua valutazione di mercato si è più che raddoppiata
in poco meno di cinque mesi. È questo uno dei tanti casi in cui la realtà soverchia
nettamente ogni tipo di immaginazione e, ci racconta che, come dieci anni fa,
anche la “spazzatura è divenuta oro” [vedi anche W.Riolfi, sole24ore, 8.5.2013].
La questione
di maggior rilievo è che, il caso appena descritto, non è affatto sporadico:
dall’inizio dell’anno corrente, infatti, il volume delle emissioni dei
cosiddetti “titoli-spazzatura” (trash-bonds, vedi anche no.129) ha
superato quello del biennio 2006-2007, periodo di maggior rigonfiamento della
bolla speculativa, esplosa solo qualche mese dopo. Pertanto, non sorprendono,
ma al tempo stesso devono far riflettere, le recenti dichiarazioni di importanti
agenti del capitale come Warren Buffett per cui “le obbligazioni sono ora un
terribile investimento; quando le cose cambieranno, la gente perderà un mucchio
di denaro”; oppure quelle di Mohamed El-Erian (direttore generale della Pimco,
uno dei più grandi fondi di investimento al mondo) per cui “quest’onda finirà
prima o poi per infrangersi”: individuarne le modalità e le conseguenze, al
momento, data l’importanza qualitativa che il fenomeno sta assumendo, è cosa
ardua.
4.
Inondazione di liquidità
“Le nuove
regole del giuoco” a cui gli agenti di borsa (non tutti consapevoli) si
appellano per giustificare tale comportamento, di certo contraddittorio per le
sorti del sistema, sono null’altro che le ferree ed immanenti leggi del
capitale. La sovrapproduzione di capitale altro non è che sovraccumulazione di
capitale: impossibilitati nella produzione di plusvalore e, per questo,
liberati dalla produzione di merci, questi agenti sono costretti a proiettarsi
nella speculazione nel tentativo di usurpare quote di profitto ai fratelli
nemici. È l’incedere stesso della crisi, e dunque la riduzione tendenziale
del saggio di profitto, da una parte a favorire fenomeni di concentrazione,
dall’altro a creare quella massa di capitale monetario che viene liberata dalla
produzione di merce ma che, proprio perché capitale, ha il dovere di
autovalorizzarsi accedendo prevalentemente ai mercati borsistici: “la crescente
concentrazione non appena abbia raggiunto un certo livello, provoca una nuova
diminuzione del saggio del profitto.
La massa dei
piccoli capitali frantumati viene così trascinata sulla via delle avventure:
speculazione, imbrogli creditizi ed azionari, crisi. Quando si parla di pletora
di capitale ci si riferisce sempre o quasi sempre, in sostanza, alla pletora di
capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è compensata dalla
sua massa – e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione
derivata – oppure alla pletora che questi capitali, incapaci di funzionare da
soli, mettono a disposizione dei dirigenti delle grandi industrie sotto forma
di credito. Questa pletora di capitale viene determinata dalle stesse
circostanze che generano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi
una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli
opposti, capitale inutilizzato da un lato e popolazione operaia inutilizzata
dall’altro” [Marx, C,iii, 15].
La pletora
di capitale (monetario), che è cresciuta a dismisura con l’incedere dell’ultima
crisi capitalistica – al pari della “liberazione” di forza-lavoro, a
testimonianza della gravità della situazione – è pertanto frutto endemico della
crisi; essa, già presa isolatamente, riesce a spiegare una buona parte
dell’impressionante volume delle operazioni del capitale fittizio mondiale sia
precedenti che successive alla fine del 2008: l’eccesso di capitale ha iniziato
ad accrescersi già dagli inizi degli anni settanta, quando proprio
l’accumulazione mondiale è entrata in crisi, espandendo i suoi tentacoli
mortiferi in molte aree del mondo (sudest asiatico, sud america, paesi ex sovietici
ecc.). Tuttavia, come abbiamo già più volte sottolineato in passato,
nell’ultimo quadriennio un’ulteriore e mastodontica iniezione di liquidità, con
l’obiettivo di contrastare l’ipotetico credit crunch (stretta creditizia),
ha estremizzato tale fenomeno e reso, ovviamente, più devastanti, per ora almeno
in potenza, le sue conseguenze.
Una stima
quantitativa della montagna di liquidità in eccesso e presente sul mercato
mondiale, in quanto capitale fittizio, è praticamente impossibile da fare: gli
“addetti ai lavori” parlano di alcune migliaia di miliardi di euro, sebbene in
molti reputino tale volume sottostimato rispetto a quello reale. Del resto è
dagli ultimi mesi del 2008 che i cosiddetti quantitative easing (alleggerimento
quantitativo, qe) vengono promossi ormai in ogni parte del mondo: questo
strumento di politica monetaria (espansiva), in sintesi, consiste nella
creazione di una nuova quantità di moneta liquida stampata dall’autorità locale
che, per ovvii motivi, viene data in prestito a tassi molto bassi – e pertanto
vantaggiosi – a imprese che, teoricamente, dovrebbero essere colpite dal credit
crunch, essendo escluse dai consueti canali di finanziamento
(prevalentemente quello bancario o obbligazionario).
Essendo il
capitale più inguaiato quello legato al dollaro, ad iniziare questa danza
(potenzialmente) suicida delle iniezioni di liquidità, è stata ovviamente la Federal
reserve [Fed] che decideva di stampare ben 1700 mrd $ ex novo, già
agli inizi del 2009, per tentare di tamponare una situazione a dir poco
drammatica, preparando il terreno per lo spostamento dell’epicentro della crisi
nei territori del capitale legato all’euro, suo principale antagonista, cosa
che si sarebbe concretizzata in poco più di due anni in pianta stabile. In
contemporanea, la Banca d’Inghilterra, sempre più allineata alle scelte
politiche ed economiche della sua vecchia colonia, procedeva nell’acquisto di
titoli potenzialmente tossici per un importo pari a circa 300 mrd €, per mezzo
di sterline, anch’esse, appena sfornate dalla zecca di stato. La situazione era
però talmente grave che Bernanke dovette ricorrere, solo qualche mese dopo alla
seconda tranche, immettendo altri 600 mrd $ (qe ii), a cui corrispondeva un’analoga
manovra in territorio britannico, sebbene di importo nettamente inferiore. La
Banca centrale europea, nel frattempo, vittima delle sue stesse regole –
improntate sul controllo del livello dei prezzi – non aveva la possibilità
normativa di replicare a tali metodi aggressivi e divenne così la vittima sacrificale
degli attacchi speculativi che ne seguirono e che acutizzarono, in maniera
quasi mortale, le crisi del debito dei piigs che ancora viviamo [cfr. no.131].
Già nei numeri
passati [in particolare no.135] di questa rivista sottolineavamo come la
maggior parte di questa nuova immensa liquidità fosse destinata principalmente
all’acquisto di nuovi strumenti derivati di natura speculativa: affossata, de
facto l’approvazione della legge Dodd-Frank – che nella propaganda usamerikana
avrebbe dovuto dare nuove regole ai mercati finanziari in quanto colpevoli,
secondo la propaganda di classe, della crisi – già dal 2011, le cose si
incanalavano su un pericoloso piano inclinato per il capitale mondiale. Scrivevamo allora : “"la musica è
ripresa, con la stessa orchestra e gli stessi direttori di prima" [sole24ore,
26.4.2011] e, con un giuoco di prestigio, i sacrificati subprime, con i
loro pacchetti di riferimento, sono stati immediatamente soppiantati da quelli
sintetici – etf [exchange trade fund], cov-light e abs [asset
backed security] in particolare – che hanno un rischio estremamente
elevato, non essendo in maniera assoluta ancorati ad alcun valore materiale.
Tra i tre "prodotti" finanziari, quelli che hanno determinato
maggiore timore a tutti i livelli, sono certamente gli etf, su cui
persino Draghi, in veste di presidente del Fsb, ha espresso un giudizio netto,
definendoli inquietanti, sebbene siano apparentemente innocui”.
“Il
campanello di allarme è arrivato nel momento in cui il volume di questi titoli
ha raggiunto la cifra astronomica di 1300 mrd $ in tutto il mondo, di cui solo
1000 mrd $ sono di proprietà statunitense. In maniera meno diplomatica anche
altri sedicenti analisti di mercato hanno segnalato il potenziale pericolo: tra
questi, il presidente di Harch capital managment e del capo
ricercatore per gli etf europei di Morningstars a cui appare molto improbabile
che esistano titoli sufficienti per tutti i titoli derivati sugli etf
che circolano: in poche parole, molti analisti hanno dovuto ammettere che si
sta costruendo un sistema di scatole cinesi molto simile a quello che tra il
2007 ed il 2008 ha determinato il crollo di numerosi istituti finanziari Usa e
delle aziende ad essi, in qualche modo, collegate: e sono proprio loro a dire
che se ci sarà un secondo crollo, esso comporterà conseguenze di gran lunga più
dolorose di quelle che i lavoratori in primis hanno dovuto subire negli
ultimi tre anni.
Oltre a
queste "sospette" transazioni, ci sono i prestiti istituzionali concessi
senza vincoli (e dunque senza alcuna garanzia del mutuante), i cosiddetti cov-light,
che, nel primo trimestre del 2011, hanno raggiunto i 25 mrd $, rappresentando il
24% del totale e che, in valore assoluto, superano di ben cinque volte l’entità
rilevata nello stesso periodo dell’anno precedente. Infine, sul banco degli
imputati sono finiti anche gli abs, strumenti finanziari strutturati che
hanno un elevato rischio e sono legati a categoria di debito a bassa qualità
(ossia vengono contratti da soggetti la cui solvibilità è infima) e si
differenziano dai subprime perché legati non già agli immobili, bensì
all’acquisto di automobili: 18 mrd $ è il valore nel primo trimestre del 2011,
ma già l’Ally Bank e il Banco di Santander hanno annunciato ulteriori operazioni
rispettivamente di 2,9 mrd $ e di 784 mln $ rispettivamente. A questo va
aggiunto, come ricorda l’Hedge fund research, che il denaro amministrato dai
fondi speculativi ha persino superato il massimo toccato a giugno del 2008,
raggiungendo la cifra astronomica di 2000 mrd $ solo negli Usa”.
5.
Conflittualità fratricida
È del tutto
comprensibile che una situazione così compromessa in ogni suo aspetto, induca i
principali attori di una lotta intra-classista ad assumere dei comportamenti
del tutto contraddittori per le sorti del sistema nel suo complesso: ad una più
che evidente opportunità di procedere ad una sterilizzazione dei mercati finanziari
– ossia una riduzione, anziché aumento, della liquidità in circolazione, per
tentare di “sgonfiare” le bolle già esistenti – si contrappone tuttavia la
necessità, di capitali legati a valute diverse, di replicare colpo su colpo
alle offensive sempre più profonde che la lotta fratricida prevede, soprattutto
in una fase di crisi così avanzata.
Gli attacchi
speculativi ribassisti (reali o potenziali), provenienti principalmente da
oltreoceano – che a partire dall’inizio del 2010, e per almeno un biennio,
hanno messo in ginocchio i paesi del sud del continente europeo – hanno
costretto le istituzioni preposte alla tutela del capitale legato all’euro ad
intervenire inducendole a forzare persino l’impianto normativo, apparentemente
inviolabile, che aveva istituito la Bce. L’ormai celeberrima dichiarazione di
Draghi di fine 2012, con cui sostenne che l’euro era irreversibile, avendo
asserito che si sarebbe fatto di tutto per difenderlo, fu il preludio
all’adozione degli strumenti, sino ad allora considerati esterni al perimetro di
competenze della Banca centrale europea, che avrebbero dovuto fungere da scudo
anti-spread. Furono pertanto, in tale occasione, gettate le basi per dar
vita ad un fondo di 650 mrd € utile per sopperire all’assenza di un prestatore
di ultima istanza (funzione invece assunta dalla Fed), ossia di un soggetto in
grado di controbilanciare eventuali nuovi attacchi speculativi sui titoli del
debito pubblico degli stati europei [cfr. no.142 per un approfondimento].
Alla nascita
di questo strumento (che non è stato l’unico, ma senza dubbio quello che ha
acquisito maggior rilievo), denominato per il suo potenziale anche “bazooka anti-spread”
(e l’abuso di terminologia bellica è tutto fuorché casuale), il capitale antagonista,
quello legato al dollaro, ha replicato, per mano di Bernanke e della Fed,
procedendo ad una nuova iniezione di liquidità (qe iii). La
specificità di questo nuovo “alleggerimento quantitativo” consiste nel fatto
che, a differenza dei precedenti, non è limitato (è definito infatti open-ended):
in pratica, ogni settimana – ormai da diversi mesi – vengono immessi
nell’economia statunitense ben 40 mrd $ e tale esborso finirà, secondo quanto
dichiarato dalla Fed, solo quando l’accumulazione si riprenderà in pianta
stabile, e la disoccupazione si stabilizzerà su livelli sensibilmente più bassi
rispetto a quelli esistenti al momento del varo della manovra. Poiché, dunque,
non è previsto un limite né quantitativo e nemmeno temporale, in gergo
giornalistico questo provvedimento è stato definito come qe-infinity,
non necessitando pertanto di rinnovi o future approvazioni: è semplicemente
perpetuo sino al raggiungimento di alcuni obiettivi, discrezionalmente
individuati da Fed e governo Usa.
Se la Cina,
da questo punto di vista non mostra alcuna intenzione di intervenire, forse
anche perché di fatto detiene le redini delle sorti di entrambi i contendenti,
ha effettivamente impressionato la recente (aprile 2013) scelta della banca
centrale giapponese che, accodandosi, al già folle diluvio di denaro immesso
nell’economia mondiale, ha deciso di fare la sua parte iniettando il mercato
locale (e, ovviamente quello globale) di un quantitativo di yen equivalente
a circa 1.400 mrd $ nei prossimi 24 mesi. Considerando che quello nipponico è
il paese con il tasso di indebitamento più alto del mondo (debito/Pil), è
interessante notare come un simile comportamento “iper-espansivo” sia
diametralmente opposto a quanto operato in ambito europeo dove rigore e
austerità, base del presunto risanamento dei conti pubblici, sono i concetti
cardine della politica economica che i governi dell’Ue da anni stanno
adottando, al fine di permettere una fuoriuscita dalla crisi che, per ora,
appare del tutto teorica e ben poco fondata.
Al di là dell’efficacia di tale manovra – che,
aggiungiamo noi, è tutta da dimostrare, vista anche la reazione del mercato
finanziario nipponico che ha perso immediatamente dopo il varo quasi 8 punti
percentuali in un solo giorno –, di certo c’è che questa forte iniezione di
liquidità anche dai settori asiatici potrebbe aggravare la situazione globale,
per le ragioni già descritte. Del resto, anche gli analisti delle agenzie di rating
non sembrano apprezzare particolarmente tali misure di politica monetaria,
propagandate dai diversi governi che le promanano come strumenti idonei a
garantire una nuova accumulazione o, come nel caso del Giappone, anche ad
arginare l’ormai più che decennale deflazione, riportandola in terreno positivo
(obiettivo del 2%). Fitch, in particolare, in occasione del qqe (quantitative
and qualitative [!?!] easing) nipponico di aprile 2013, sottolineava
come tale massiccia iniezione di liquidità possa essere un viatico per prendere
tempo ed ossigeno, ma non certo può essere considerata come una panacea contro
tutti i problemi strutturali che permangono.
6. La
repressione finanziaria
Questi
comportamenti “espansivi” sono peraltro sostenuti dalle politiche, diffuse
ormai a livello planetario, adottate dalle diverse banche centrali che continuano
a perseguire l’obiettivo di mantenere un livello dei tassi di interesse
prossimo allo zero, in modo da tenere basso il costo del debito – questione
vitale soprattutto per gli stati pesantemente indebitati tra cui spiccano, in
particolare, Usa e Giappone oltre ai più noti piigs – e inducendo gli stessi capitali che hanno
guadagnato lautamente durante la crisi degli spread ad investire altrove.
Dall’inizio
dell’anno, i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti
significativamente praticamente in tutti i paesi occidentali: se quelli dei
Bund tedeschi o dei Treasury statunitensi già da mesi forniscono un rendimento
reale negativo (ossia inferiore al tasso di inflazione), non può lasciare
indifferenti la notizia che quelli di tutti i piigs (Grecia compresa)
siano crollati del 20% in media dall’inizio dell’anno, con evidenti conseguenze
positive sui celeberrimi spread, per mesi al centro del dibattito
politico non solamente in Italia. Da questo punto di vista, è importante
rimarcare come tale crollo generalizzato non sia sostanzialmente addebitabile
ad un miglior stato di salute del capitale legato all’euro, bensì, da una
parte al bazooka puntato a tutela di eventuali onde speculative che, di
certo, stabilizza i mercati locali; dall’altra alla corsa al taglio dei tassi
di interesse che la Bce, così come le altre banche centrali, continua a
perpetuare, sostenendo, quindi l’inondazione di liquidità anche con questo strumento.
Tale
fenomeno di riduzione artificiosa dei tassi di interesse, denominato anche
“repressione finanziaria”, ha assunto un carattere ormai talmente diffuso da
indurre persino la banca centrale keniota ad operare nello stesso senso: come
gli stessi operatori di borsa confessano, “sono le banche centrali che ci spingono
ad adottare comportamenti solo un po’ rischiosi” [cfr. sole24ore,7.5.2013],
creando di fatto tutti i presupposti perché incrementi l’attenzione verso
titoli con rendimenti più alti, che, ovviamente sono gli stessi che hanno un livello
di potenziale insolvibilità più elevato.
Tutto ciò ci
dimostra come, a differenza del terribile biennio 2007-2008 quando la sfiducia
reciproca – peraltro ben fondata, vista la pessima condizione in cui versava il
capitale mondiale – tra le diverse aziende aveva, di fatto, interrotto
qualsiasi canale di finanziamento reciproco, dopo cinque anni di una crisi che
ha stravolto il volto e gli assetti del modo di produzione attuale, le manovre
espansive di mezzo mondo hanno rinforzato quella pletora di capitale monetario
già strutturalmente esistente. Tuttavia, nonostante questo enorme sforzo, la
situazione tarda ad assumere connotati significativamente diversi ed il livello
di accumulazione mondiale, come visto in precedenza, è sempre stagnante, o
addirittura negativo se si espungono dal calcolo i dati cinesi. Questo dimostra
come le conclusioni di sicofanti analisti di mercato o prezzolati d’accademia
abbiano, per l’ennesima volta, capovolto il rapporto tra cause e conseguenze:
il problema, infatti non era allora, e lo è ancor meno adesso, l’assenza di
credito, bensì esso è rappresentato dall’impossibilità generalizzata di
impiegare capitale monetario per produrre valore, a causa di una crisi di
sovrapproduzione di merce che ormai ha pervaso ogni angolo del mondo.
Sembrerebbe,
quindi, di assistere allo stesso film già visto poco prima dello scoppio della
bolla della new economy (2000), preceduto dalle aggressioni speculative
alle tigri asiatiche, passando poi per Russia e America latina, oppure giusto
al ridosso del crollo fatale di Lb e affini. Tuttavia, rispetto ad allora le
cose sono mutate significativamente: la situazione contingente è stata
preceduta da un quinquennio che ha messo a serio repentaglio, da molti punti di
vista, il sistema capitalistico. La condizione della classe subalterna, e anche
della piccola borghesia, è talmente prossima ai minimi di sussistenza, anche in
quegli stati in cui per secoli essa ha vissuto al pari della aristocrazia
proletaria che, di certo, una violenta deflagrazione della bolla difficilmente
potrebbe lasciare intatte le istituzioni capitalistiche, così come abbiamo
imparato a conoscerle da almeno mezzo secolo a questa parte.
D’altra
parte però, il grado di coscienza della classe subalterna è talmente in palese
e rapido declino – frutto anche di una ignobile ma, al tempo stesso,
ineccepibile manovra del capitale orientata all’eliminazione progressiva e
totale di ogni residuo di opposizione basata sulla propria appartenenza di
classe – che immaginare una rivoluzione che capovolga i rapporti proprietari
nei prossimi anni (o anche decenni) è semplicemente una “pia illusione”. Al
contrario, se un’eventualità bellica su ampia scala sembra essere ancora scongiurata
dal deterrente delle armi atomiche, una gestione dispotica del capitale appare
un’ipotesi tutt’altro che peregrina. Il riemergere di partiti dichiaratamente
fascisti, ed il loro palese rafforzamento in qualsiasi paese dell’Europa – in
Italia c’è l’anomalia grillina che potrebbe ricoprire la medesima funzione
[cfr. no.142] – e, più recentemente, persino in Giappone, potrebbe stare a
convalidare esattamente tale tendenza che incontrerà ben pochi ostacoli, fin
quando l’ammaliante canto delle sirene “nuoviste” – che, come la storia ci
insegna, hanno condotto importanti movimenti di lavoratori a derive del tutto
deprecabili e inevitabilmente favorevoli alla borghesia mondiale – prevarrà
sulla scientificità del marxismo e del materialismo storico nell’analisi della
realtà contemporanea di chi ancora dichiara di opporsi al modo di produzione del
capitale.
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