In Italia ci sono due tipi di carcere. Uno è quello di cui si parla in televisione e sui giornali, in rete a al bar. L’altro è quello reale.
Il primo è composto da sette lettere, il secondo da 65mila detenuti. Anche se si chiamano alla stessa maniera sono due luoghi diversi. Il primo è spesso associato al nome di qualche famoso politico. Quando si parla di quel tipo di carcere è quasi sempre con un certo astio nei confronti di una parte della classe dirigente. Molte persone vorrebbero che ci finissero deputati e senatori per poi buttare la chiave della cella. Nel carcere vero invece i politici ci finiscono raramente. In quel posto è pieno di stranieri, tossicodipendenti e ladruncoli che hanno reiterato piccoli reati. Ci stanno grazie a tre leggi recenti: la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e l’Ex-Cirielli.
Ogni tanto il carcere di sette lettere e quello di 65mila detenuti si avvicinano al punto di diventare una sola cosa. Accade quando le chiacchiere si trasformano in leggi. Per un attimo abbiamo l’impressione di parlare veramente dei nostri istituti di pena. Ci sembra che non sia soltanto una parola di sette lettere. Ma è un’impressione perché tutti quei detenuti che compongono la popolazione carceraria sono muti e invisibili. Si parla di loro e del loro destino, ma mai con loro.
Così quando sono entrato a Rebibbia per fare un incontro coi detenuti gli ho fatto una domanda: cosa devo dire al mio vicino di casa quando parlo di voi?
Le proposte che leggiamo sui giornali in questi giorni spaziano dalla costruzione di nuovi carceri, la riapertura di istituti che sono più fatiscenti di quelli attivi, la revisione o azzeramento di qualche legge, l’espulsione dei detenuti stranieri (quelli per i quali Alfano non voleva più pagare vitto e alloggio) fino all’indulto e all’amnistia. I detenuti che ho incontrato ieri non hanno parlato di nessuno tra questi argomenti.
Un signore anziano molto calmo mi dice: «al tuo vicino di casa puoi dirgli che anche suo figlio un giorno potrebbe finire in carcere. Sia perché potrebbe commettere un reato, sia perché potrebbe essere accusato ingiustamente. Quasi la metà di noi è in attesa di giudizio e molti risulteranno innocenti».
Un uomo coi capelli bianchi un po’ lunghi ha un tono e un volume di voce entrambi molto alti e con una parlata romana e molti gesti mi dice che è colpevole del reato per il quale è stato condannato e se anche non fosse così sarebbe la stessa cosa. Mi dice «sto in galera perché ci devo stare, non mi lamento di questo, ma perché devo dormire coi topi in cella? Perché devo cucinare a pochi centimetri dalla turca? L’articolo 27 della Costituzione dice che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”».
Accanto a lui c’è uno straniero che aggiunge «e gli affetti? Posso vedere i famigliari per pochissimo tempo e senza un minimo di intimità. Persino in Croazia e Albania è possibile passare alcune ore con la propria compagna!»
Un siciliano che parla a voce bassa mi dice «sono costretto a comprare il cibo perché quello dell’istituto e scarso e immangiabile. Devo acquistare i prodotti che fanno parte del listino a prezzi da negozio di lusso e non mi permettono di lavorare. In molti istituti stai in cella anche per 22 ore su 24 e spesso non puoi scendere dal letto perché non c’è spazio sufficiente per tutti. Non voglio uscire un giorno prima. Voglio una detenzione dignitosa».
Qualcuno mi suggerisce l’idea per un’istallazione. «Monta una cella in qualche piazza al centro di Roma» dice «ma una vera, con lo spazio che ci mettono a disposizione. Deve essere sporca e fatiscente, gelida d’inverno e bollente d’estate, pranzo e cena con la sbobba della casanza e ogni tanto qualcuno che si taglia sulle braccia, si ingoia le lamette, infila la testa in un sacchetto di plastica e sniffa dalla bombola del gas, e magari anche qualcuno che si impicca». «Anche gli agenti si impiccano» mi dice serio un altro mentre il poliziotto in piedi accanto alla porta mi guarda e annuisce.
È proprio quell’agente che uscendo mi dice senza giri di parole «come si fa a parlare di rieducazione in un posto così? E Rebibbia non è il peggiore. In Italia la recidiva è quasi al settanta per cento, ma scende al venti tra quelli che godono di misure alternative almeno nella parte finale della pena. Più stanno chiusi qua dentro e più peggiorano. E noi con loro».
Mentre scrivo queste righe mi vado a leggere qualche articolo sulla stampa on line e inevitabilmente mi casca l’occhio sui commenti.
«Le istituzioni europee condannano continuamente l’Italia per ogni virgola fuori posto che mette» scrive qualcuno senza rendersi conto che le “virgole” sono 66 mila esseri umani.
Uno propone «le frustate: le applicano gli Islamici e nessuno dice nulla. Ma che la frusta sia un gatto a nove code»
Qualcuno dice che «questa sinistra da barzelletta sa solo svuotare le carceri, aprire le frontiere ed in genere elogiare l’illegalità» condendo il giustizialismo con un po’ di razzismo.
Uno sostiene che «il carcere non deve essere bello e invitante o faremmo a gara per entrarci invece di pagare mutui di 30 anni» dimenticando l’articolo 27, ma anche che la pena consiste nella privazione della libertà e non nella tortura.
C’è chi vorrebbe l’istituzione di carceri privati, chi manderebbe i detenuti all’estero dicendo che in Cina se li prenderebbero e ci costerebbero meno che in Italia. Chi parla di lavori forzati, chi metterebbe tutti al muro e chi evoca corda e sapone.
Con questo clima sarà difficile migliorare le nostre galere con la speranza che diventino luoghi di rieducazione, superare leggi inique e magari pensare ad una serie legge contro la tortura.
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