venerdì 2 maggio 2014

L'EURO E I PIEDI STORTI

Posto una serie di articoli molto interessanti sull'euro e la situazione italiana apparsi su "main-stream.blogspot



LA COLPA È DEI TUOI PIEDI
Il risvolto di copertina dell'ultimo libro di Federico Fubini ci spiega che
“Da quando l'euro è iniziato siamo andati peggio degli altri. Non può dunque essere colpa della moneta unica e delle sue regole, una condizione uguale per tutti, ma di una differenza italiana.”
Siano di fronte a una fallacia logica davvero notevole. Facciamo un esempio per capirci. Si prende un gruppo di una ventina di persone: uomini e donne, bambini, adulti e vecchi, alti e bassi, grassi e magri, e si comunica loro la bella idea che, per rendere più pratico e facile l'acquisto delle scarpe, dovranno tutti portare scarpe dello stesso numero, diciamo il 41. Cosa succederà? Che chi ha il piede della misura giusta si troverà bene, tutti gli altri si lamenteranno delle scarpe troppo piccole o troppo grandi. Ma arriva Fubini a mettere a posto questi criticoni: dov'è il problema? Se abbiamo adottato “una condizione uguale per tutti”, e voi state male e gli altri no, la colpa evidentemente è vostra! Tagliatevi i piedi!
A Fubini non passa neppure per la mente l'idea che il problema è appunto quello di avere adottato “una condizione uguale per tutti”, per paesi ed economie diverse fra loro. Comunque, se questo è il livello degli argomenti del mainstream pro-euro, viene davvero da dare ragione a Bagnai, quando dice che abbiamo già vinto. Almeno sul piano delle idee.
(M.B.)
PIEDI STORTI
Marino Badiale ha illustrato la consistenza logica di un classico argomento “eurista” con una metafora assai calzante, è il caso di dirlo. Il giornalista di Repubblica Federico Fubini non si capacita che l'euro possa avere qualche responsabilità nel declino economico del nostro paese, visto che è la stessa moneta di paesi che crescono (si fa per dire). Il nostro non ha ben riflettuto su quale sia il contenuto del principio di eguaglianza: non si tratta solo di far parti eguali tra eguali, ma soprattutto di NON fare parti eguali tra diseguali. Perciò è perfettamente possibile che una condizione eguale a più soggetti sia causa di disparità tra gli stessi soggetti; proprio peché questi NON sono eguali. Ma c'è di più. Spesso far parti eguali fra diseguali non solo crea disagio per i soggetti coinvolti, ma dà vita a fenomeni di retroazione positiva. Questa è una qualità dei sistemi dinamici nei quali i risultati del sistema vanno ad amplificare il funzionamento del sistema stesso. Può essere presa ad esempio l'agire della forza centrifuga, o anche il c.d. Effetto domino. Mettere economie diverse nello stesso mercato produce, in primo luogo, una polarizzazione tra le diverse economie, che si aggrava sempre di più: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Ecco perché l'eguaglianza non è il principio giusto per fondare la pretesa dell'unificazione europea. Il principio giusto è quello di eguagliamento. Prendiamo la Costituzione, all'art. 3. Questo è il princio di eguaglianza:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Questo è quello di eguagliamento:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In termini fisici, l'eguagliamento equivale ad una retroazione negativa: i risultati del sistema tendono a equilibrare il sistema stesso. Una buona metafora è quella della boa: la boa può scendere sotto il pelo dell'acqua, ma ritorna inesorabilmente a galla ripristinando la condizione originaria. In Europa una simile dinamica potrebbe essere rappresentata da una robusta stagione di politiche industriali e redistributive, dal Nord al Sud, che riavvicinino le condizioni economiche dei diversi paesi.
Ecco, a mio avviso, il principale capo di imputazione che pende sui responsabili del processo di integrazione (?) europea: non aver avvicinato tra loro le condizioni di benessere dei vari paesi, ma anzi l'averle divaricate in maniera forse irreparabile.
Tuttavia, il discorso non può chiudersi qui. Dobbiamo sforzarci di intendere quello che Fubini voleva dirci col suo linguaggio maldestro. Si tratta di un messaggio molto importante: potremmo definirlo il cuore stesso dell'ideologia dell'adesione italiana dell'euro.
Noi facciamo bene a mettere in luce che la scarpa euro non può andare bene per tutti i piedi europei, poiché questi sono diversi tra loro. Chiediamoci, giunti a questo punto: ma perché mai quei piedi sono così diversi?
Qui il discorso deve farsi più circoscritto. È abbastanza facile intuire cosa distingue l'economia tedesca da quella greca o portoghese. Tuttavia la retroazione positiva, la diseguaglianza come prodotto dell'eguaglianza, non coinvolge solo piccole economie marginali, ma paesi del calibro della Francia o dell'Italia. Concentriamoci sul nostro paese. Abbiamo capito che non dovremmo avere la stessa moneta della Germania; ma perché la nostra moneta, per garantirci competitività, deve essere strutturalmente più debole di quella tedesca?
È necessario ammettere che il ritorno alla lira sarebbe, da parte dell'Italia, equivalente al ricorso ad una serie di misure protezionistiche. Si protegge ciò che è debole da ciò che è più forte. Cosa rende la Germania così forte?
La risposta standard in genere è: il taglio (o la mancata crescita) dei salari tedeschi. Ne abbiamo parlato infinite volte; ma questa spiegazione può (forse) spiegare il differenziale di produttività con la Francia. Non ci dice molto, invece, sullo svantaggio competitivo del nostro paese, un paese che ha vissuto una deflazione salariale ancora più radicale di quella tedesca.
Dovremmo cominciare ad ammettere che il capitalismo tedesco è più grande, forte e moderno del “nostro”; e che con tutta probabilità tra le ragioni di questa maggior forza un ruolo non secondario hanno tutti quei fattori che gli anti-euro derubricano a “Propaganda PUDE”: la corruzione, l'evasione fiscale, l'illegalità di massa, i differenti livelli di scolarizzazione, la dimensione relativa delle imprese, gli investimenti in ricerca e sviluppo...
Riepilogando: far parti eguali tra diseguali è disastroso, ma le radici della diseguaglianza tra noi e la Germania sono in massima parte endogene, e uscire dall'euro, in sé, non ci aiuterà a risolverle. Ecco il senso di quel che voleva dire lo sventurato Fubini.
Vero è che l'uscita dall'euro potrebbe darsi come condizione necessaria di un generale “risveglio” dell'economia italiana. Dal punto di vista meccanico-economico la cosa appare sensata. Dal punto di vista politico (che poi è quello che conta) non sarei così ottimista. Spiego.
L'errore strategico degli “euristi” è stato quello di pensare, contro ogni logica economica ed esperienza storica, che il mercato unico europeo avrebbe generato una retroazione negativa tra i paesi europei; che per il solo fatto di non poter contare sulle svalutazioni le imprese italiane sarebbero divenute più competitive: che per insegnare a nuotare a qualcuno il modo migliore sia gettarlo, di soppiatto, in acqua. Et de hoc satis: abbiamo visto cos'è accaduto.
Il guaio di molti anti-euro, invece, è il tener in nessun conto le ragioni strutturali e endogene della debolezza italiana. Sembra che propongano di tenerci stretti evasione fiscale, scarso dimensionamento delle imprese, scarsi investimenti di alto livello ecc, però riparati dietro lo scudo della lira svalutata. Sembra che propongano, in sintesi, di proteggere le debolezze del capitalismo italiano. Tale posizione politica, che non mi pare esagerato ascrivere alle forze che su quelle debolezze hanno costruito il loro successo, come la Lega, Forza Italia e fascisteria varia, è sicuramente perdente e retrograda. Il bipolarismo tra pro-euro e anti-euro sopra descritti condurrà questo paese lungo la china di un irreversibile declino.
Quel che sorprende è vedere che nessuno, nell'ambito della classe dominante di questo paese, ha uno straccio di idea di come affrontare il problema principale: la rimozione degli elementi che ci impediscono di assomigliare a una grande potenza capitalistica. Sono tutti presi a discettare del vincolo esterno, vuoi rafforzandolo (piddini) vuoi indebolendolo (leghisti), senza proporre nulla che possa incidere sulle ragioni endogene del nostro declino.
Lungi da me suggerirgliele. Tali diatribe dovrebbero essere perlopiù estranee a chi coltiva una una prospettiva di superamento del capitalismo. Il capitale italiano soffre, da sempre, di una debolezza cronica e inemendabile. Solo il suo rovesciamento potrà salvare questo paese dallo sfacelo. Ma in fondo, a ben guardare, questo vale per tutti i popoli allo stesso modo. (C.M.)
ANCORA SUI "PIEDI STORTI", OVVERO COME LE CAUSE DEL DECLINO ITALIANO SIANO ENDOGENE
Il precedente post (che riprendeva a sua volta questo articolo) ha sollevato qualche perplessità. Qualcuno ha avanzato una risposta alla domanda che ponevo -perché la Germania è strutturalmente più competitiva dell'Italia-, ma i più hanno sostanzialmente respinto la mia argomentazione. Probabilmente ho spiegato male ciò che intendevo. Per rimediare prenderò a prestito uno scritto di Vladimiro Giacché. Con Giacché dovremmo andare sul sicuro: ha scritto l'ottimo Anschluss, ed è membro del comitato scientifico di A/simmetrie. Si tratta dunque di un autore al di sopra di ogni sospetto. Se non credete a me crederete a lui.
Vi segnalo dunque questo breve, ma denso saggio del 2004. Erano i tempi in cui Giacché, in altri scritti, affermava:
punto da cui partire è questo: l’orizzonte europeo non è una dimensione che si può scegliere o meno; è un contesto necessario e quindi anche un nuovo campo di possibilità.
E rincarava la dose:
Al tempo stesso, la moneta unica chiude - almeno tendenzialmente - lo spazio nazionale come orizzonte strategico dell’azione sindacale e politica. Questo significa che non esiste oggi alcuno spazio per un ritorno alla “sovranità perduta”, ossia non c’è alcuna possibilità di successo per chi si rinchiuda in un orizzonte politico e rivendicativo nazionale.  
Ma torniamo al saggio del 2004. Vi consiglio vivamente di leggerlo e rileggerlo, perché c'è tutto. C'è l'analisi del nanismo delle nostre imprese, e delle ragioni politiche di tale nanismo. Viene descritto il legame tra nanismo e mancato sviluppo capitalistico. Viene chiarito un punto importante: come la vocazione tipica delle PMI sia da far da sub-fornitrici delle grandi imprese, le uniche in grado di "servire" direttamente il mercato dei prodotti finiti; e dato che le grandi imprese, in Europa, sono sopratutto tedesche, ecco "svelato" che buona parte delle imprese esportatrici del Nord-Est altro non sono che fornitrici delle multinazionali tedesche. Questo fatto ci aiuta anche a capire perché il partito delle PMI del nord, la Lega, sia stata per anni genericamente "filo-tedesca"; e perché anche Matteo Salvini, fino a un anno e mezzo fa, volesse tenere la "Padania" all'interno dell'eurozona, escludendo il Sud. 
Del resto, a prendere sul serio il vecchio slogan leghista, cioè quello dell'indipenza della Padania (oggi del solo Veneto, chissà perché), noi avremmo a che fare con la proposta di creare un nuovo stato completamente inserito nell'orbita della Germania, non meno della Slovenia o del Lussemburgo...
Nel testo di Giacché si individua la relazione tra bassi salari, evasione fiscale e carenza di investimenti. Le PMI, potendo lucrare su una classe operaia remissiva e frantumata, nonché su una condizione di illegalità di massa (fiscale, contributiva, ambientale, ecc), non hanno incentivi né all'accorpamento né all'investimento. La mancanza di economie di scala, garantite dalle grandi imprese, è un ulteriore fattore che gioca contro l'investimento in nuove tecnologie. La pretesa di conservare il controllo familiare sull'azienda, d'altro canto, crea una condizione di cronica sotto-capitalizzazione  delle imprese, da cui segue il ricorso al credito bancario non, come sarebbe normale, per finanziare investimenti, ma semplicemente per ottenere liquidità; e questo aiuta a spiegare perché la crisi dello spread, con conseguente aumento del tasso di interesse dei prestiti bancari, sia risultato così esiziale per molte imprese italiane.
A questa galleria degli errori si potrebbe aggiungere anche qualcos'altro. La massa delle PMI è anche massa elettorale. Tale massa ha votato e sostenuto certe classi politiche in cambio di guarentigie: in particolare, che rimanessero invariati i livelli di illegalità e di evasione fiscale. Questa combinazione ha prodotto una generale condizione di profondo malgoverno, che ha generato una crisi dei servizi pubblici; ma i servizi pubblici efficienti (pensiamo solo alla scuola!) sono l'ambiente ideale per la nascita e lo sviluppo degli investimenti.
Ci si può chiedere se dal 2004 ad oggi non sia cambiato qualcosa. Per quanto riguarda le subforniture la situazione non pare sia cambiata: ancora pochi mesi fa, il Sole 24 Ore scriveva:
la Germania ha rafforzato la sua posizione a valle nelle catene del valore, avvicinandosi di più ai clienti finali, mentre l'Italia ha risalito la catena del valore verso posizioni più da fornitore. Nella catena manifatturiera l'Italia è oggi più fornitore e la Germania più vicina ai clienti. La partecipazione dell'Italia alla catena del valore diminuisce, mentre la Germania può contare maggiormente su network produttivi integrati.
Per quanto riguarda la dimensione delle imprese, il nanismo è rimasto. L'azione del governo Monti ha decimato le PMI, portandone decine (se non centinaia) di migliaia al fallimento, ma non si è verificato un contemporaneo processi di aggregazione tra imprese; anzi, la platea dei "top player" italiani si èsfoltita sempre di più dopo la fuga della FIAT. Insomma, mi sembra di poter dire che l'analisi di Giacché è assolutamente attuale.
Questa è l'ossatura del capitalismo italiano. L'euro ne ha messo a nudo la fragilità. Del resto la moneta unica, almeno dal punto di vista di buona parte della classe dirigente italiana, doveva servire appunto da rimesio a questa condizione di arretratezza. Ciò spiega anche perché Giacché fosse favorevole all'euro, e fosse vicino ad un partito (il PdCI) la cui linea strategica consisteva nel portare voti al partito dell'euro, al centrosinistra. Ma cosa è andato storto? Perché non ha funzionato? Ne parliamo in un prossimo post. (C.M.)

IL CALABRONE HA PERSO LE ALI. LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE NELLA CRISI



 In molti casi la leadership italiana a livello di interscambio mondiale appare pressoché inattaccabile nel medio-lungo termine. Ad esempio, nei tessuti di lana il saldo commerciale italiano è quasi 10 volte superiore a quello del secondo paese esportatore netto.”
(M. Fortis, 1998)
Sarebbe grave non accorgersi di quanto sta accadendo: in alcuni distretti come Prato, Fermo, Barletta, Biella, Como, Cadore, Manzano, Livenza e l’area Murgiana nel giro di pochi mesi sono a rischio decine di migliaia di posti di lavoro
(M. Fortis, 2003)

1. C’era una volta...

“Il ronzio sordo del calabrone è un rumore assopente delle nostre estati. Ma secondo alcuni il nero insetto non avrebbe dovuto né ronzare né volare. Ne ammettevano l’esistenza, ohibò, ma a patto che zampettasse sulla terraferma. Fisici ed entomologhi si sono interrogati per lungo tempo sulla levitazione del calabrone: come diavolo faceva a reggersi in aria? Il suo peso, in rapporto alla superficie alare, rendeva impossibile il volo. Per sua fortuna, il goffo insetto ignora le leggi della fisica, e le vìola inconsapevolmente e mirabilmente.
Ecco, abbiamo voluto dare all’economia italiana l’immagine di un calabrone. Come diavolo ha fatto l’Italia a divenire il quinto Paese industriale del mondo? Con quel retaggio di immaturità statuale e di arretratezza contadina che ne appesantiva le ali? Ma malgrado tutto e contro tutto, il calabrone ha volato...”
Con queste parole suggestive si apre la storia dell’economia italiana del Novecento scritta qualche anno addietro da Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi. Sono parole appropriate. Non perché siano corrette (al contrario, proverò a dimostrare che esse contengono un fondamentale errore di prospettiva). Ma perché esprimono bene il tono dominante nella maggior parte delle narrazioni che prendono ad oggetto l’economia italiana - ed in particolare l’economia italiana del secondo dopoguerra. Questo tono, espresso emblematicamente dalla bella metafora che abbiamo riportato, è un tono di fiaba: per una favola che si pretende a lieto fine.
Ma proviamo ad analizzare più da vicino i contenuti concreti della metafora del calabrone. La metafora, in verità, è doppia: il “calabrone” è l’immagine dell’economia italiana, le “leggi della fisica” sono le leggi dell’economia. Il calabrone italico sfida le leggi economiche - e vince. Qui non dobbiamo farci trarre in inganno dagli accenni del testo all’“immaturità statuale” ed all’“arretratezza contadina”. Il punto non è questo. Non è in questo che il “calabrone” italico sfida le leggi economiche e rappresenta un unicum vincente: non mancano, infatti, altre storie economiche di successo avvenute a dispetto dell’immaturità ed arretratezza istituzionale (si pensi anche solo alla Germania di fine Ottocento); quanto poi all’“arretratezza contadina”, è poco più che tautologico affermare che tutte le economie capitalistiche si sono sviluppate sulla base di una preesistente economia a prevalenza agricola. No: il punto è un altro. Il calabrone dell’economia italiana - questa la tesi - avrebbe sfidato con successo le leggi economiche sotto un diverso profilo: infrangendo la legge per cui la crescita della dimensione delle imprese (in termini di capitali impiegati, di mezzi di produzione posti in opera e di lavoratori occupati) è un fattore determinante per il successo economico in una economia capitalistica avanzata; o, se si vuole, confutando la concezione marxista per cui la concentrazione e la centralizzazione dei capitali rappresentano fondamentali tendenze immanenti allo sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Tradotto in termini concreti, il punto di vista di Galimberti e Paolazzi - e con loro di molti altri - è questo: sono le piccole e medie imprese ad aver reso forte l’economia italiana. L’economia italiana è forte non a dispetto delle modeste dimensioni della maggior parte delle sue imprese, ma grazie a ciò: in questo consiste la assoluta particolarità del caso italiano. Questo concetto è stato variamente espresso - non di rado avvalendosi di definizioni a forte valenza metaforica ed evocativa: così, sin dagli anni Settanta si è parlato di “Italia dei distretti industriali” (Becattini), di “terza Italia” (Bagnasco), di “capitalismo molecolare” (Bonomi).
In effetti, i dati confermano la centralità delle PMI nel tessuto economico italiano. Con riferimento specifico ai “distretti industriali” (quindi un sottoinsieme delle PMI), Sebastiano Brusco e Sergio Paba qualche anno fa hanno potuto affermare che “i sistemi produttivi in cui hanno un ruolo preminente le imprese micro, piccole e medie assorbono in Italia una quota di addetti all’industria manifatturiera che va dal 35 al 40 per cento del totale... Questi sistemi, presi tutti insieme, sono un pezzo molto rilevante del sistema produttivo italiano, più grosso di Fiat più Eni più Iri”.   Del resto, le imprese con meno di 50 addetti, ancora nel 1991, rappresentavano il 58% dell’intera forza-lavoro occupata in imprese manifatturiere; tale percentuale saliva ad oltre il 71% considerando le imprese con meno di 250 addetti. Non solo: nello stesso anno, prendendo a riferimento i soli settori di punta dell’export italiano (il cosiddetto “made in Italy”, ossia i settori del “sistema moda”, dell’alimentazione, dei prodotti per la casa e l’arredo, ma anche del macchinario strumentale), la percentuale di occupati presso imprese con meno di 200 addetti risultava pari addirittura all’84% del totale.
Non meno significative appaiono le linee di tendenza. Se infatti si abbraccia il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, ci si avvede di un duplice movimento.
Nei primi due decenni assistiamo ad un importante fenomeno di concentrazione industriale, conseguente a due processi: in primo luogo la creazione di un mercato nazionale, che comporta un forte ridimensionamento delle attività artigianali tradizionali e più in generale l’uscita dal mercato di numerose piccole imprese a dimensione locale-regionale (entrambi i fenomeni sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno): cosicché il peso delle piccolissime imprese (quelle con meno di 10 addetti) passa in vent’anni da un terzo (1951) ad un quinto (1971) dell’occupazione manifatturiera totale; in secondo luogo, l’integrazione economica europea, che impone una ristrutturazione dell’apparato produttivo nei settori più esposti alla concorrenza internazionale.
Dopo il 1971, però, lo scenario cambia. Riprende a crescere l’occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal 42% del 1971 si passa al 48% del 1981, per giungere, come abbiamo visto sopra, al 58% del 1991. Il processo opposto si registra nella media e grande impresa: quest’ultima, ossia le imprese con più di 500 addetti, vede scendere la percentuale relativa di forza-lavoro occupata di ben 11 punti dal 1971 al 1991. Ancora più eclatante quanto accade alle imprese con più di 1000 dipendenti: se dal 1961 alla fine del decennio l’occupazione in queste imprese era cresciuta del 34,7% (a fronte di una crescita dell’occupazione nell’industria del 17,6%), negli anni Settanta il percorso si inverte: dal 1971 al 1980 si ha un calo del 9,7% nella grande industria (a fronte di una crescita dell’occupazione del 12%);  il calo dell’occupazione nella grande industria continuerà per tutto il ventennio successivo (per avere un’idea della situazione, si pensi anche solo alle vicende della Fiat, che proprio dal 1980 imbocca con decisione la strada dell’espulsione della forza-lavoro dalle fabbriche).
E oggi? Tali processi si sono ulteriormente accentuati: se ai censimenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di addetti delle aziende italiane risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a 3,9. Non solo: le imprese con più di 500 addetti - “grandi” - erano 1.265 (con il 18,8% degli addetti, 2,4 milioni) nel 1981; 1.173 (con il 18,1% degli addetti, 2,6 milioni) nel 1991; 1.061 (con il 16,2% degli addetti, 2,2 milioni) nel 1996. Il 95 per cento delle aziende ha meno di 10 dipendenti; anche nell’industria la dimensione media è appena di 6,5 addetti.

 

2. “Piccolo è bello”: il nanismo e i suoi perché (presunti)

Fin qui le cifre. Come si spiegano? I cantori della gesta delle PMI rispondono essenzialmente con quattro argomenti, tra loro connessi:
a) La crisi del fordismo. Secondo questo argomento, di fronte alla perdita di importanza della produzione standardizzata di massa, la grande industria si sarebbe dimostrata incapace di seguire i bisogni sempre più sofisticati e personalizzati del consumatore. Viceversa, la piccola impresa sarebbe per sua natura più flessibile, innovativa e capace di cogliere le esigenze della clientela. Per rafforzare questo argomento, si fa in genere riferimento alle specifiche nicchie di specializzazione delle imprese italiane, che riguardano tra l’altro la cura della persona, l’arredo-casa, la moda. Tutti settori, si argomenta, in cui l’inventiva e la personalizzazione del prodotto giocano un ruolo fondamentale.
b) La relativa importanza delle economie di scala. Secondo questo argomento, le economie di scala nella produzione non sono l’unico, né il principale fattore competitivo. Sooprattutto, se si considerano non le PMI isolate, ma i “sistemi di piccole imprese” che caratterizzano i “distretti industriali”: questi ultimi - così la tesi - riescono a raggiungere lo stesso risultato delle economie di scala della grande impresa (ossia la riduzione dei costi di produzione) mettendo in comune servizi, informazioni, rapporti con i fornitori ecc.
c) La grande importanza delle innovazioni incrementali. Questo argomento punta a sminuire l’importanza delle attività di ricerca e sviluppo tecnologico, che solo le grandi imprese possono permettersi e che danno luogo a nuovi prodotti (poniamo, la scoperta di nuovi polimeri che consente alla Montecatini di produrre il moplen, o la scoperta del nailon), enfatizzando per contro le innovazioni incrementali: quelle innovazioni, cioè, che affinano prodotti già esistenti, variandoli in misura lieve ma significativa, personalizzandoli e facendone qualcosa di nuovo (ad esempio, così Brusco e Paba, la realizzazione di “una mischia equilibrata di lana cachemire e lana merinos, con una dose minima di fiocco di nailon”, tale da “produrre un tessuto leggero, morbidissimo e resistente”).
d) La libertà dai “lacci e lacciuoli” che avvincono la grande industria. Secondo quest’ultimo argomento, le PMI, proprio a motivo della loro ridotta dimensione, patirebbero meno delle grandi imprese vincoli regolamentari, fiscali e sindacali. Non è difficile capire di cosa stiamo parlando: sarà sufficiente ricordare il tenore della campagna contro l’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle imprese al di sotto dei 15 dipendenti...
A queste argomentazioni si può rispondere in molti modi, tanto sotto un profilo metodologico quanto da un punto di vista più strettamente fattuale.
a) Ad esempio, con riferimento all’argomento “postfordista” si può argomentare che la produzione standardizzata di massa non ha perso per nulla la sua importanza (se non per pochi prodotti realmente di nicchia, che in ogni caso coprono una porzione minima anche della produzione italiana), e che comunque le grandi imprese sono oggi in grado di dare ai loro prodotti quel tanto di “aura personale” in grado di incontrare il gusto del consumatore (le cui raffinate esigenze, sia detto per inciso, non sono che il prodotto della maturità di alcuni mercati di sbocco - ossia di una situazione di endemica sovrapproduzione che dura ormai da decenni). Comunque sia, non sembra che alcuni dei settori in cui l’export italiano è tradizionalmente forte, come quello della meccanica strumentale, siano particolarmente sensibili alla “personalizzazione dell’offerta”...
b) Quanto alle economie di scala “aggirate” dalle cooperazioni a carattere consortile presenti nei cosiddetti “distretti industriali”, va rilevato che si tratta di discorsi piuttosto generici e perlopiù privi di sufficienti specificazioni e di dati quantitativi a supporto. Del resto, non è fuori luogo ricordare che anche solo sulla definizione di “distretti industriali” non esiste alcun accordo tra gli studiosi - tanto che le stime sul loro stesso numero variano in misura considerevole da un autore all’altro.
c) Quanto all’argomento delle innovazioni incrementali (su cui tornerò più avanti) basterà dire che la sua stessa impostazione presuppone proprio ciò che pretenderebbe di negare: ossia la necessità della grande industria. In effetti, perché io possa pensare di unire il nailon ad altre fibre, è quantomeno necessario che qualcuno abbia prima inventato il nailon. Che è come dire che lo sviluppo delle PMI non è autosostenuto, ma presuppone l’esistenza di una grande impresa (pubblica o privata) che fa ricerca applicata e innovazione di prodotto.
d) Infine, l’argomento dei “lacci e lacciuoli”. È certamente valido - anche troppo, come vedremo.
Quanto sopra - e molto altro - si potrebbe dire. Ed è stato detto da parte di non pochi autori. Ai quali per molti anni è stato risposto... con la metafora del calabrone. Ossia esibendo i successi ottenuti dal “made in Italy” nel mondo, e confrontandoli con i disastri della chimica, dell’auto e di altri settori di pertinenza della (fu) grande industria italiana. Atteggiamento comprensibile: il successo, in un certo senso, si autogiustifica, si spiega da sé. È la sconfitta che richiede di essere spiegata, analizzata, capita.
Sennonché, da qualche tempo in qua, cresce il bisogno di spiegare, analizzare, capire. Perché al nostro calabrone il successo non arride più. Anzi.

 

3. La forza del declino

Nella relazione del Governatore della Banca d’Italia del 31 maggio 2003 si poteva leggere quanto segue:
“In cinque anni, tra il 1997 e il 2002, la produzione industriale ha segnato in Italia un aumento del 3 per cento. In Francia l’incremento è stato intorno all’11, in Germania del 12; nell’area dell’euro, escludendo l’Italia, si situa al 14 per cento...
La quota delle esportazioni italiane nel mercato mondiale era progressivamente salita, tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, dal 2 al 4,5 per cento...
Dalla metà degli anni novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta. A prezzi costanti, la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002. La perdita è diffusa in tutti i mercati.”
“Nel 2002 le esportazioni di beni e servizi sono diminuite in Italia dell’1% a prezzi costanti, per la prima volta negli ultimi dieci anni... Nel complesso dell’anno il ristagno delle esportazioni di beni si confronta con una crescita del commercio mondiale nell’ordine del 3%...
Nel 2002 quasi tutti i principali settori di specializzazione hanno registrato una diminuzione delle esportazioni in valore: apparecchi elettrici e di precisione (-10,8%), cuoio e calzature (-8,7%), prodotti tessili dell’abbigliamento (- 4,7%), mobili (-3,5%) e macchine e apparecchi meccanici (-2,8%)”. Uniche eccezioni: “le esportazioni di prodotti alimentari, bevande e tabacco (+5,7%), di prodotti chimici (+ 3,8%) e di mezzi di trasporto (+ 2,2%, nonostante una caduta del 5% nel comparto degli autoveicoli)”.
Se poi prendiamo i dati Istat relativi ai primi 11 mesi del 2003, assistiamo ad un vero e proprio crollo, guidato da cuoio e prodotti in cuoio (- 21,2%) e legno (- 19,1%), e seguito dal tessile-abbigliamento (-12,3%), dalla meccanica (- 8,4%), dai mezzi di trasporto (- 8,4%) e dagli alimentari (- 7,4%). Si salvano soltanto i prodotti petroliferi raffinati (+ 28,2%) e la chimica (+ 2,5%). E comunque il saldo è negativo: esportazioni in calo del 4,4% su base annua.
Comprensibilmente, tra i passatempi preferiti degli arcoriani al governo (e degli “intellettuali” al seguito) vi è l’escogitazione di trucchetti dialettici per coprire e mistificare questa realtà allarmante. Lasciando da parte per carità di patria i più risibili (del tipo: “è tutta colpa dell’11 settembre”), uno dei più gettonati è il seguente: “guardate che la Germania sta peggio di noi”. Falso. Perché, se è vero che nel 2002 (e nel 2003) la produzione ha ristagnato sia in Germania che in Italia, le cause sono ben diverse: nel primo caso il motivo è la debolezza della domanda interna, nel secondo è il crollo dell’export.
E non si tratta di una tendenza di breve periodo. Come ha evidenziato il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Pierluigi Ciocca, nell’ottobre scorso, “dal primo trimestre del 2001 al terzo del 2003 l’espansione dell’attività produttiva è stata pressoché nulla: la più lunga fase di ristagno in mezzo secolo”. Ecco la realtà del “miracolo italiano” promesso da Berlusconi & Soci. Ma ecco anche - ed è questo che qui interessa rilevare - la situazione di un tessuto produttivo imperniato sulle piccole e medie imprese. Leggiamo ancora Ciocca: “il limite del made in Italy è nei prezzi alti. Ma anche nella qualità, nella composizione merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione”. Ed è proprio la ridotta dimensione delle imprese che “congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni”.
Quali che siano le cause, una cosa è certa: il quadro che abbiamo di fronte oggi è drammaticamente diverso anche solo da quello della fine degli anni Novanta. L’“invincibile armata” dei piccoli sembra in rotta. Apparentemente, di invincibile c’è solo la forza del declino. Il declino di un modello di specializzazione, di un modello dimensionale, in ultima analisi di un modello di capitalismo. È una situazione che può spingere l’Italia inesorabilmente ai margini dell’economia europea, consegnandole un ruolo periferico nella divisione internazionale del lavoro. Ma che ha almeno un merito: quello di fare giustizia del mito dell’“unicità del caso italiano e delle PMI”, creato dalla pubblicistica economica nei lontani anni Settanta e riprodottosi per decenni, grazie soprattutto ad alcune fortunate circostanze ed al suo comodo carattere ideologico e consolatorio. Sì, perché la crisi di oggi è in grado di farci comprendere la verità sulla “terza Italia”: essa ci rivela infatti quali fossero la ragion d’essere ed i vantaggi competitivi (quelli veri) delle piccole e medie imprese italiane - e lo fa nel preciso momento in cui cominciano a perdere di significato e di efficacia. Vediamo.

4. Piccole, brutte e cattive: la verità sulle PMI
4.1. Un popolo di subfornitori
L’“irresistibile ascesa” delle PMI italiane, come abbiamo visto, comincia negli anni Settanta. Non inizia per la geniale capacità di seguire i “bisogni del consumatore” snobbati dall’insensibilità della grande industria. Inizia nella grande crisi di sovrapproduzione di quegli anni, che colpisce severamente la grande industria. Quest’ultima, infatti, grazie all’accresciuta forza e consapevolezza della classe operaia non può più adoperare la leva dei bassi salari (che aveva rappresentato il grande punto di forza degli anni del boom) e vede quindi ridursi drasticamente i margini di profitto. E reagisce esternalizzando produzioni, per colpire il sindacato e la capacità di contrattazione della classe operaia. La situazione viene così descritta da Brusco e Paba, autori certo non sospetti di essere pregiudizialmente ostili alle PMI: “fu, quella, la stagione del decentramento, dello spostamento di fasi elementari di lavorazione dalla grande impresa a imprese minori. Migliaia di tornitori o fresatori furono licenziati dalle grandi imprese, e ripresero a lavorare come subfornitori per le stesse imprese da cui erano stati licenziati, spesso con macchinari uguali a quelli usati in precedenza, talvolta proprio con le stesse macchine.” Questo si tradusse, come fu ben presto denunciato dal sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione del lavoro nero, più in generale minori tutele per il lavoro. Del resto, i numeri parlano da soli: posti pari a 100 i salari delle imprese maggiori, i salari delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-7 e pari a 71 ancora alla fine degli anni Ottanta.  Come ovvio risultato, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto risulta più alta nelle piccole imprese che nelle grandi in tutto il periodo considerato.
È essenziale notare che quel rapporto di subfornitura non è cosa che le PMI italiane si siano lasciate alle spalle col passare del tempo. Tutt’altro. Infatti, se prendiamo i dati della più recente indagine sulle imprese manifatturiere condotta dall’“Osservatorio sulle piccole e medie imprese” di Capitalia, scopriamo che le imprese che lavorano su commessa sono il 68,7% del totale; che il cliente-impresa che acquista è per il 52,6% un’impresa localizzata in un’altra regione italiana e per il 23,1% un’impresa estera. Giustamente, gli autori della ricerca concludono che si tratta di dati che “confermano il consolidamento della divisione del lavoro tra grandi imprese e PMI. Secondo tale modello, le imprese piccole e medie sarebbero destinate a soddisfare, attraverso accordi di subfornitura, quote crescenti di produzione delle grandi imprese. Il risultato di queste politiche consentirebbe alla grande dimensione di ridurre il costo del lavoro, nonché gli investimenti in capitale circolante, favorendo l’allargamento delle funzioni commerciale e finanziaria”. Ma non è tutto: perché anche per le imprese oltre i 500 addetti più del 56% del fatturato è stato realizzato vendendo ad altre imprese. Scopriamo così che “l’industria manifatturiera italiana è un’industria intermedia, inserita in una filiera, a cui a monte e a valle stanno altre imprese”.  Altro che genio italico in grado di mandare in sollucchero il consumatore più esigente! L’industria manifatturiera italiana nel suo complesso è sempre più un’industria di subfornitura, che ha come cliente altre imprese!
Dovremo prenderne nota ed aggiornare l’elenco delle categorie che incarnano le virtù italiche: siamo un popolo di santi, eroi, poeti, navigatori... e subfornitori.
4.2. Nani NON per caso
Ovviamente, il nanismo non è un destino. Il fatto di essere prevalentemente subfornitrici non impedirebbe di per sé alle imprese di crescere, dimensionalmente e dal punto di vista della focalizzazione di business, realizzando economie di scala, magari per giungere (perché no?) a presidiare direttamente i mercati di riferimento. E, ovviamente, talora questo processo di crescita dimensionale si verifica realmente. Ma bisogna constatare che la tendenza generale va nella direzione opposta: “la piccola dimensione si è accentuata nella struttura industriale italiana negli anni 90. Tra il ’96 e il ’99 il peso della classe d’imprese composta da 1-2 addetti è aumentato; quella con 100 dipendenti e oltre rappresentava meno di un quarto dell’occupazione nelle industrie e nei servizi”.  Volendo esprimere tutto questo in termini paradossali, si potrebbe dire che il nanismo industriale italiano cresce. Si tratta però di capire il perché.
In verità, il nanismo è in primis la logica conseguenza del controllo familiare delle imprese. E non è un caso che anche il carattere familiare del capitalismo italiano si sia rafforzato negli ultimi anni: la percentuale di persone fisiche residenti che detengono la proprietà o il controllo diretto dell’impresa è infatti giunta all’89,9% del totale.  Il controllo familiare di un’impresa ha precise implicazioni negative sia in termini di governance, sia in termini di finanziamento.
Con riferimento al governo dell’impresa, è evidente che la selezione del management su base familiare-dinastica (una base che oltretutto col passare delle generazioni si amplia talora a dismisura, creando ovvi problemi di ingovernabilità dell’impresa) si rivela nella maggior parte dei casi inefficiente: essa risulta in generale inadeguata a gestire la crescita aziendale e comunque a governare un’entità complessa qual è oggi l’impresa.
Ma il tema più delicato è quello del finanziamento: come constata Fortis, “uno degli aspetti più critici del sistema delle PMI italiane” è per l’appunto rappresentato dal fatto che esse, “essendo in larga maggioranza ad azionariato famigliare, ormai presentano un livello inadeguato di capitalizzazione”. Per logica conseguenza, le PMI sono in genere molto indebitate, con una forte prevalenza del debito bancario e soprattutto di quello a breve termine (nel caso delle imprese sino a 50 addetti, nel 2000 l’incidenza dei debiti a breve termine superava il 70% del totale). Non solo: a differenza di quanto le ricorrenti giaculatorie confindustriali indurrebbero a ritenere, i prestiti bancari alle imprese sono in aumento. Basti pensare che il volume dei prestiti alle imprese non finanziarie è salito del 70% nel periodo 1995-2002, e del 4% nel solo 2002 (in quest’ultimo anno è cresciuto addirittura del 7,2% il credito alle imprese con meno di 20 addetti).  Il punto è che, in assenza di un’adeguata patrimonializzazione, i finanziamenti non servono a finanziare investimenti, ma solo il circolante: in altri termini, consentono il galleggiamento dell’impresa, non il suo sviluppo e la sua crescita.
Ma c’è di più: come ha rilevato Ciocca nell’intervento già citato, “superata la recessione del 1992-93, la quota dei profitti sul reddito nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento degli attivi d’impresa sono tendenzialmente aumentati”, situandosi “su valori in media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione”.  Ora, se questo è vero una domanda sorge spontanea: dove sono finiti i profitti realizzati dalle PMI? La risposta è obbligata: nel patrimonio personale dell’imprenditore e della sua famiglia. La situazione è stata così descritta da Marcello De Cecco in un suo illuminante saggio: “mediante lo svuotamento sistematico dei bilanci, gli imprenditori italiani sono riusciti a costituirsi fortune familiari che, sommate tra loro, raggiungono dimensioni totali veramente ragguardevoli. Le loro imprese continuano ad essere indebitate con le banche, mentre gli imprenditori appaiono come i migliori clienti potenziali per le nuove attività di consulenza finanziaria che le banche hanno iniziato da quando il Tesoro italiano ha cominciato, qualche anno fa, a remunerare a tassi assai meno convenienti per gli investitori il proprio debito, che era parte cospicua del patrimonio delle famiglie, anche di quelle degli imprenditori”.   Quindi, cospicui patrimoni personali e familiari a fronte di una scarsa patrimonializzazione delle imprese, con quello che ne consegue: dimensioni rachitiche e crescita asfittica delle imprese stesse (e oggi, all’orizzonte, l’uscita dal mercato).
L’alternativa a tutto questo, ovviamente, ci sarebbe: aprire l’azienda ad altri soci, ad investitori istituzionali o quotarla in borsa.  Ma ovviamente questo comporterebbe, per il nanocapitalista italico, il rischio di perdere il controllo della società. E quindi si preferisce ricorrere esclusivamente (o quasi) a prestiti bancari - e si resta nani. Vale però la pena di notare che l’alternativa tra apertura del capitale a terzi e crescita patrimoniale da un lato, e stentata sopravvivenza mantenendo il controllo familaire dell’impresa dall’altro, rappresenta - prima o poi - un’alternativa secca, che non consente scappatoie o “terze vie”. Infatti, come ricordava Marx, “con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, cresce il volume minimo del capitale individuale, necessario per far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali”, ossia “aumenta il volume minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera produttiva del lavoro”.  Per capire come tutto questo si traduca in concreto nella situazione attuale, è sufficiente rifarsi a un recente testo sui mercati finanziari europei: “l’omogeneizzazione dei mercati mondiali ha determinato in molte industrie un sostanziale aumento delle economie di scala e un incremento delle dimensioni minime di investimento... Tutto ciò richiede di norma risorse finanziarie eccedenti quelle aziendalmente disponibili per la crescita, e il mercato internazionale dei capitali è pronto a fornirle purché si sia in grado di dimostrare che dalla crescita, dalle fusioni e dalle acquisizioni deriveranno guadagni adeguati al capitale investito. In tal modo il mercato internazionale dei capitali diviene il vero giudice del merito e della fattibilità delle strategie e dei progetti di impresa. Per l’Europa continentale ciò significa sottrarre il giudizio sulla condotta delle imprese ai gruppi di controllo che l’avevano tradizionalmente esercitato in modo esclusivo.”  Qui ci si riferisce alle grandi imprese: ma è un discorso che ovviamente vale a maggior ragione per le piccole e medie. Insomma: al processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali non è possibile sottrarsi - se non al prezzo di sopravvivere in nicchie limitate; o in una relazione di indipendenza formale, ma dipendenza sostanziale - caratterizzata da una precarietà di fondo - dal grande capitale (come avviene nel caso del rapporto di subfornitura).
4.3. La concorrenza di prezzo e le sue basi (insostenibili)
Si può essere tentati di reagire a quanto ora argomentato con una certa dose di scetticismo: se la situazione è così fosca, come è possibile che così tante piccole e medie imprese italiane stiano ancora in piedi? Come è stato possibile per così tante imprese sopravvivere così a lungo normalmente, facendo non pochi profitti? La risposta è molto semplice: è stato possibile grazie ad un insieme ben determinato di fattori che hanno consentito alle imprese italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente convenienti. Tali fattori hanno però caratteristiche piuttosto inquietanti (a volte più d’una assieme): o non sono più riproponibili nella situazione attuale, o sono una sorta di doping che ha effetti benefici nel breve ma distruttivi nel lungo periodo, o consistono in puri e semplici comportamenti illegali. E veniamo all’esame di questi fattori:
1) I salari bassi. Bassi - si intende - non soltanto in relazione alle grandi imprese, ma anche alle imprese concorrenti degli altri Paesi industrialmente avanzati. Non stiamo parlando di eventi lontani nel tempo: come ci ricorda Ciocca, negli anni Novanta “la dinamica delle retribuzioni in termini reali si è attenuata anche rispetto a quella della produttività”. Nonostante il gergo un po’ criptico, è facile capire cosa il testo appena citato significhi; tant’è vero che lo stesso autore subito dopo aggiunge: “il salario non è fra i principali problemi presenti dell’economia italiana”.   Ora, a ben vedere i problemi nascono proprio di qui. E sono di due ordini. Il primo è che dopo l’attacco ai salari degli ultimi decenni, ed in particolare alla luce del furibondo carovita che imperversa attualmente nel nostro Paese, le buste paga non appaiono ulteriormente comprimibili. Si tratta quindi di un fattore non riproponibile (o, se si vuole, ormai “anelastico”). Il secondo problema è che l’utilizzo esclusivo o preminente della leva del costo della forza-lavoro come fattore di competitività è un disincentivo all’innovazione di processo (è in certo qual modo regressivo, risospingendo indietro la frontiera dei profitti, dal plusvalore relativo al plusvalore assoluto),  e spinge ad una competizione basata esclusivamente sul prezzo dei prodotti e non sulla loro qualità (contenuto tecnologico, innovazione, ecc.). Cosicché si finisce, naturalmente, per competere con imprese dei Paesi cosiddetti emergenti, le quali comunque si giovano di un costo della forza-lavoro molto inferiore a quello italiano e quindi, dalla competizione su questo terreno, hanno tutto da guadagnare. Quindi, si tratta anche di un fattore che dà benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel lungo periodo.
2) Le svalutazioni competitive. Per decenni la competitività delle imprese italiane è stata “dopata” per mezzo di svalutazioni competitive della lira (le quali, giova ricordarlo, rappresentano una delle più classiche forme di politica di classe e socializzazione delle perdite, oltreché di ingiusto privilegio attribuito ai debitori nei confronti dei creditori). Per avere un’idea delle dimensioni di questo “doping” basterà ricordare che “tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di cambio nominale, nei confronti delle principali monete, è stata prossima al 70 per cento”.  Piccolo problema: con l’euro questa storia è finita, anche se la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro (durata sino all’inizio del 2002) può aver dato l’illusione che le cose non fossero granché cambiate. Non aver capito che questo nuovo vincolo costringeva a cambiare gioco costituisce uno dei più gravi errori strategici compiuti dall’imprenditoria italiana.
3) Un’evasione fiscale spropositata. Che l’evasione fiscale e contributiva (grazie all’evasione in senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi competitivi per le piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni autori ne parlano in premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e distretti industriali.  Del resto, persino Antonio Fazio, che difficilmente potrebbe essere considerato un acceso giacobino, ha potuto parlare di “abnorme estensione del lavoro irregolare”.  Ed è il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media italiana di lavoro irregolare pari al 14,5% delle unità lavorative totali nel 2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29, 25 e 24% in Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più “virtuosa” (il Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte dalla Banca d’Italia su dati Istat. Ma secondo l’Eurispes nel 2003 le cose stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovrebbe oscillare addirittura tra il 30% e il 48% del totale, e le cifre assolute assommare a qualcosa tra i 7 e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l’economia sommersa (che sfugge del tutto al fisco) varrebbe non meno di 317 miliardi di euro (il 27% dell’intero prodotto interno lordo!).  Alla luce di questi dati, davvero non sorprende che l’Agenzia delle Entrate stimi l’ammontare totale dell’evasione fiscale annua come superiore a 200 miliardi di euro...
Il problema per quest’ultimo “fattore competitivo” è ovviamente in primo luogo se questa forma di - chiamiamola così - incentivazione sottobanco sia nel lungo periodo sostenibile per il nostro “sistema Paese”: e la risposta non può che essere negativa. Ma è anche un altro: il fatto cioè che questo enorme gettito mancato si traduce inevitabilmente in esternalità negative fortemente percepite (e a gran voce denunciate) dalle stesse imprese: servizi pubblici inefficienti, inadeguata spesa per l’istruzione (siamo al 4,9% del PIL, contro una media OCSE del 5,9%), un bassissimo tasso di laureati (pari a un terzo rispetto a molti Paesi europei ed al Giappone, e a poco meno di un quarto rispetto agli USA), carenze infrastrutturali croniche, ecc. ecc.
(Ai tre fattori ora citati andrebbero probabilmente aggiunte le agevolazioni pubbliche. Al riguardo è necessaria una certa cautela, soprattutto in assenza di un quadro comparato delle incentivazioni adottate dagli altri Paesi dell’Unione Europea, dal Giappone e dagli USA. È però senz’altro possibile quantomeno sfatare la ricorrente geremiade circa la “mancata attenzione” dello Stato italiano nei confronti delle imprese. In effetti, se tale “mancata attenzione” - come abbiamo visto sopra - è reale al momento della riscossione delle imposte, non lo è affatto per quanto riguarda l’erogazione di contributi pubblici. Un dato per tutti: sul totale delle imprese campionate per l’indagine sull’industria manifatturiera sul triennio 1998-2000, risultano aver fatto ricorso ad agevolazioni creditizie e fiscali il 38% delle imprese, con una crescita in quasi tutte le classi dimensionali rispetto al triennio precedente. )
4.4. L’innovazione, questa sconosciuta
Nel suo Capitalisti d’Italia, Ugo Bertone racconta con nostalgia della mitica macchina da scrivere Lettera 22 della Olivetti, “disegnata da Marcello Nizzoli, colorata in tinte pastello”. E aggiunge subito: “i profitti di questi prodotti (la vera new economy del tempo) consentono di destinare 1500 lavoratori, il 10 per cento della forza lavoro, all’attività di ricerca e sviluppo”.
Quando si parla di innovazione, si parla di questo: non di “colpi di genio”, ma degli investimenti - talora ingentissimi - che sono necessari per la ricerca e la creazione di nuovi prodotti e la messa a punto di nuovi processi produttivi. Da questo punto di vista, il panorama italiano attuale è decisamente sconfortante, e giustifica la nostalgia di Bertone. La spesa complessiva in ricerca e sviluppo tecnologico, che era all’1,3% del prodotto interno lordo nel 1990, dal 1995 è scesa all’1%. Si tratta di un dato grave e preoccupante per tre ordini di motivi.
Il primo motivo attiene alla volontà, da parte del governo e del padronato italiano, di mantenere gli impegni presi: basti ricordare che tra quanto stabilito nel patto del luglio 1993 vi era nientemeno che il raddoppio della quota di spese in ricerca e sviluppo tecnologico!
Il secondo motivo è che i Paesi capitalistici più avanzati si attestano su grandezze molto lontane da queste cifre: gli USA nel 2001 erano al 2,8%, il Giappone al 3%, il Regno Unito “appena” l’1,9%.
Il terzo motivo è nascosto dentro queste cifre, e riguarda la proporzione tra spesa pubblica e spesa privata. Come ha dimostrato Riccardo Faini, a differenza di quanto generalmente si pensa, la spesa pubblica italiana in R&S non è sostanzialmente inferiore a quella degli altri Paesi industrialmente avanzati: infatti “la spesa del settore pubblico, incluse le università, è pari in Italia allo 0,55 per cento del Pil, negli Stati Uniti allo 0,56 per cento e nel Regno Unito allo 0,61 per cento. Germania e Francia si collocano su livelli un poco più alti, 0,75 per cento e 0,78 per cento”. Conclusione: “il divario di spesa in R&S fra l’Italia e gli altri Paesi industrializzati non può quindi, se non in minima parte, essere attribuito al settore pubblico”. È invece “il settore privato, in particolare quello manifatturiero, il vero responsabile della scarsa propensione a investire in R&S. Una volta tanto, le cifre sono eloquenti. In proporzione del valore aggiunto manifatturiero, l’Italia spende solo il 2 per cento in R&S, quattro volte meno di Stati Uniti e Giappone e tre volte meno di Francia, Germania e Regno Unito”.
A questo punto è lecito chiedersi da cosa nasca questa bassa propensione dei nostri imprenditori a investire nel proprio futuro: la risposta di Faini (tratta, abbastanza ironicamente, da uno studio della Confindustria) è che “le nostre imprese non investono in R&S perché sono troppo piccole e soprattutto perché operano in settori a basso contenuto tecnologico”.   Il nesso tra la dimensione delle imprese e la scarsa innovazione è posto in luce anche da De Cecco, il quale afferma che “la ridotta dimensione obbliga le imprese ad affollarsi in settori a bassa intensità innovativa, e la bassa intensità innovativa induce la limitata crescita della produttività.” Non si tratta di opinioni campate per aria: l’indagine sulle imprese manifatturiere già più volte citata pone in luce come negli ultimi anni il numero delle piccole e medie imprese che hanno fatto innovazioni di prodotto e di processo sia diminuito, mentre è aumentato il numero di imprese sopra i 250 addetti (medio-grandi e grandi) che hanno realizzato tale tipo di attività innovativa. Alla luce di questi dati, appare quindi pienamente condivisibile l’affermazione del governatore della Banca d’Italia secondo cui “il modesto sviluppo della produttività è da riconnettere, in misura non secondaria, alla frammentazione del nostro tessuto produttivo”, ed anche la conclusione che ne trae: “una nuova fase di sviluppo richiede un riassetto dell’apparato produttivo e un aumento della dimensione delle imprese.”

5. Conclusioni: al capolinea?
Che conclusioni trarre da quanto abbiamo visto? Certamente, è difficile esprimere giudizi improntati all’ottimismo. E si può capire anche il de profundis intonato da De Cecco sull’“Italia dei piccoli”: “è probabile che si concluda assai malinconicamente la fase dello sviluppo dal basso che ha sostituito quella dello sviluppo dall’alto nella vicenda storica del capitalismo italiano. Quel che tanti economisti, storici, politologi, sociologi non solo italiani hanno visto come una fortunata ’terza via’ va infatti rivelandosi per quello che alcuni hanno sempre saputo e detto in questi anni: un binario morto, magari più lungo del temuto, ma il cui termine sembra, nella impossibilità attuale e futura di svalutare nei confronti delle altre monete europee e di tenere il settore finanziario sigillato alla concorrenza straniera, ormai vicino”. Ma De Cecco non si limita a queste osservazioni, ed aggiunge alcune notazioni decisamente interessanti sulle strade che “saranno in tutta probabilità tentate” per tenere comunque in piedi una baracca sempre più traballante: ulteriore riduzione della tassazione delle imprese, attacco allo stato sociale, e infine la “soluzione più importante”, quella di “tenere bassi i salari”.
Come è evidente, non si tratta di previsioni astratte, ma di descrizioni concrete di quanto sta accadendo. Infatti questa, e non altra, è la “politica industriale” del governo Berlusconi: abbattere le tasse per le imprese (premiando evasori e “pirati della lira”), distruggere lo stato sociale privatizzandolo di fatto e di diritto, comprimere i salari (inclusi quelli differiti, ossia tfr e pensioni). Per quanto riguarda in particolare l’attacco al salario, osservando che si tratta di una realtà già in atto, De Cecco nota: “ora che i cambi sono fissi e ancor più a partire dal primo gennaio 2002, è possibile vedere che i salari italiani sono a livello assoluto assai inferiori di quelli francesi e specialmente tedeschi”. [19] Si può aggiungere che questa affermazione è stata confermata e superata dai fatti: una ricerca pubblicata dalla banca svizzera UBS nel gennaio 2004 ha infatti mostrato che il potere d’acquisto delle buste paga italiane si colloca invariabilmente agli ultimi posti delle classifiche della zona euro, seguita soltanto dal Portogallo e (in qualche caso) dalla Grecia.
Verrebbe da chiedersi se è tutto qui, il “miracolo italiano” di Berlusconi & Soci. In verità, c’è ben poco da aggiungere, se non ricordare la farsa del protezionismo “alla Tremonti” - con tanto di denuncia isterica del “pericolo giallo”. Intendiamoci: il fatto stesso che risorgano queste tentazioni è la migliore denuncia della gravità della situazione in cui versa un sistema industriale che, dopo essersi impiccato a settori nei quali domina l’effetto prezzo, ha scoperto (con stupefacente stupore) che al mondo c’è qualcuno che su prodotti maturi riesce a praticare prezzi ancora più bassi dei suoi. E poche cose esprimono la triste parabola del “made in Italy” come la raffica di articoli di contenuto sostanzialmente protezionistico sfornati in pochi mesi da uno dei suoi più appassionati esegeti.  Il punto però è che il protezionismo anticinese non rappresenta soltanto un rimedio peggiore del male, ma anche una strada concretamente impossibile a praticarsi, visto che ormai da decenni nessuno Stato dell’odierna Unione Europea può decidere da solo la politica commerciale nei confronti di un paese terzo.  Né va dimenticato che altri Paesi europei, dotati di classi dominanti più lungimiranti delle nostre (e forti di specializzazioni produttive più avanzate), vedono nella Cina principalmente una grande riserva di domanda mondiale, anziché un pericolo dal lato dell’offerta di beni.
E allora viene il sospetto che agitare demagogicamente questo tema (così come del resto l’“affaire Parmalat”) sia nulla più che un ennesimo tentativo di distrarre l’opinione pubblica e i lavoratori dalle cose importanti. Cioè dai disastri di questo governo, dal fatto che invece del “miracolo” promesso sta prendendo forma una vera e propria catastrofe industriale e sociale, e - soprattutto - dal fatto che il conto di tutto questo, ancora una volta, si tenta di farlo pagare ai lavoratori.
A questo riguardo la partita è ancora aperta. Ma almeno due punti fermi possiamo fissarli. Il primo: se c’è una cosa che la “favola senza lieto fine” delle PMI ci ha insegnato, è proprio il fatto che la compressione dei salari, la “flessibilità del lavoro” come ricetta universale, non solo non hanno giovato all’economia italiana, ma hanno contribuito a spingerla nel vicolo cieco di un modello competitivo perdente (scoraggiando l’innovazione, la conquista di posizioni nei settori di avanguardia, ecc.). Il secondo: poche cose sono certe come il fatto che in tutti questi anni il coperchio sulla pentola dei salari è stato tenuto fin troppo premuto.
Alla luce di quanto si è provato ad argomentare in queste pagine, si può affermare che oggi è importante, anzi essenziale, che quel coperchio salti. È certamente essenziale per i lavoratori. Ma è essenziale anche al fine di evitare l’ulteriore degrado del sistema industriale e produttivo del nostro Paese.

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