Posto una serie di articoli molto interessanti sull'euro e la situazione italiana apparsi su "main-stream.blogspot
LA COLPA È DEI TUOI PIEDI
Il risvolto di copertina dell'ultimo libro di Federico Fubini ci spiega che
“Da quando l'euro è iniziato siamo andati peggio degli altri. Non può
dunque essere colpa della moneta unica e delle sue regole, una condizione
uguale per tutti, ma di una differenza italiana.”
Siano di fronte a una fallacia logica davvero notevole. Facciamo un esempio per capirci. Si prende un gruppo di una ventina di persone: uomini e donne, bambini, adulti e vecchi, alti e bassi, grassi e magri, e si comunica loro la bella idea che, per rendere più pratico e facile l'acquisto delle scarpe, dovranno tutti portare scarpe dello stesso numero, diciamo il 41. Cosa succederà? Che chi ha il piede della misura giusta si troverà bene, tutti gli altri si lamenteranno delle scarpe troppo piccole o troppo grandi. Ma arriva Fubini a mettere a posto questi criticoni: dov'è il problema? Se abbiamo adottato “una condizione uguale per tutti”, e voi state male e gli altri no, la colpa evidentemente è vostra! Tagliatevi i piedi!
Siano di fronte a una fallacia logica davvero notevole. Facciamo un esempio per capirci. Si prende un gruppo di una ventina di persone: uomini e donne, bambini, adulti e vecchi, alti e bassi, grassi e magri, e si comunica loro la bella idea che, per rendere più pratico e facile l'acquisto delle scarpe, dovranno tutti portare scarpe dello stesso numero, diciamo il 41. Cosa succederà? Che chi ha il piede della misura giusta si troverà bene, tutti gli altri si lamenteranno delle scarpe troppo piccole o troppo grandi. Ma arriva Fubini a mettere a posto questi criticoni: dov'è il problema? Se abbiamo adottato “una condizione uguale per tutti”, e voi state male e gli altri no, la colpa evidentemente è vostra! Tagliatevi i piedi!
A Fubini non passa neppure per la mente l'idea che il problema è
appunto quello di avere adottato “una condizione uguale per tutti”, per paesi
ed economie diverse fra loro. Comunque, se questo è il livello degli argomenti
del mainstream pro-euro, viene davvero da dare ragione a Bagnai, quando dice
che abbiamo già vinto. Almeno sul piano delle idee.
(M.B.)
PIEDI STORTI
Marino Badiale ha illustrato la consistenza logica di un classico argomento
“eurista” con una metafora assai calzante, è il caso di dirlo. Il
giornalista di Repubblica Federico Fubini non si capacita che l'euro possa
avere qualche responsabilità nel declino economico del nostro paese, visto che
è la stessa moneta di paesi che crescono (si fa per dire). Il nostro non ha ben riflettuto su
quale sia il contenuto del principio di eguaglianza: non si tratta solo di
far parti eguali tra eguali, ma soprattutto di NON fare parti eguali tra
diseguali. Perciò è perfettamente possibile che una condizione eguale a più
soggetti sia causa di disparità tra gli stessi soggetti; proprio peché questi
NON sono eguali. Ma c'è di più. Spesso far parti eguali fra diseguali non solo
crea disagio per i soggetti coinvolti, ma dà vita a fenomeni di retroazione
positiva. Questa è una qualità dei sistemi dinamici nei quali i
risultati del sistema vanno ad amplificare il funzionamento del sistema stesso.
Può essere presa ad esempio l'agire della forza centrifuga, o anche il c.d.
Effetto domino. Mettere economie diverse nello stesso mercato produce, in primo
luogo, una polarizzazione tra le diverse economie, che si aggrava sempre di
più: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
Ecco perché l'eguaglianza non è il principio giusto per fondare la pretesa
dell'unificazione europea. Il principio giusto è quello di eguagliamento.
Prendiamo la Costituzione, all'art. 3. Questo è il princio di eguaglianza:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Questo è quello di eguagliamento:
Questo è quello di eguagliamento:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese.
In termini fisici, l'eguagliamento equivale ad una retroazione
negativa: i risultati del sistema tendono a equilibrare il sistema
stesso. Una buona metafora è quella della boa: la boa può scendere sotto il
pelo dell'acqua, ma ritorna inesorabilmente a galla ripristinando la condizione
originaria. In Europa una simile dinamica potrebbe essere rappresentata da una
robusta stagione di politiche industriali e redistributive, dal Nord al Sud,
che riavvicinino le condizioni economiche dei diversi paesi.
Ecco, a mio avviso, il principale capo di imputazione che pende sui
responsabili del processo di integrazione (?) europea: non aver avvicinato
tra loro le condizioni di benessere dei vari paesi, ma anzi l'averle divaricate
in maniera forse irreparabile.
Tuttavia, il discorso non può chiudersi qui. Dobbiamo sforzarci di
intendere quello che Fubini voleva dirci col suo linguaggio maldestro. Si
tratta di un messaggio molto importante: potremmo definirlo il cuore stesso
dell'ideologia dell'adesione italiana dell'euro.
Noi facciamo bene a mettere in luce che la scarpa euro non può andare bene
per tutti i piedi europei, poiché questi sono diversi tra loro. Chiediamoci,
giunti a questo punto: ma perché mai quei piedi sono così diversi?
Qui il discorso deve farsi più circoscritto. È abbastanza facile intuire
cosa distingue l'economia tedesca da quella greca o portoghese. Tuttavia la
retroazione positiva, la diseguaglianza come prodotto dell'eguaglianza, non
coinvolge solo piccole economie marginali, ma paesi del calibro della Francia o
dell'Italia. Concentriamoci sul nostro paese. Abbiamo capito che non dovremmo
avere la stessa moneta della Germania; ma perché la nostra moneta, per
garantirci competitività, deve essere strutturalmente più debole di quella
tedesca?
È necessario ammettere che il ritorno alla lira sarebbe, da parte
dell'Italia, equivalente al ricorso ad una serie di misure protezionistiche. Si
protegge ciò che è debole da ciò che è più forte. Cosa rende la Germania così
forte?
La risposta standard in genere è: il taglio (o la mancata crescita) dei
salari tedeschi. Ne abbiamo parlato infinite volte; ma questa spiegazione può
(forse) spiegare il differenziale di produttività con la Francia. Non ci
dice molto, invece, sullo svantaggio competitivo del nostro paese, un paese che
ha vissuto una deflazione salariale ancora più radicale di quella tedesca.
Dovremmo cominciare ad ammettere che il capitalismo tedesco è più grande,
forte e moderno del “nostro”; e che con tutta probabilità tra le ragioni di
questa maggior forza un ruolo non secondario hanno tutti quei fattori che gli
anti-euro derubricano a “Propaganda PUDE”: la corruzione, l'evasione
fiscale, l'illegalità di massa, i differenti livelli di scolarizzazione, la
dimensione relativa delle imprese, gli investimenti in ricerca e sviluppo...
Riepilogando: far parti eguali tra diseguali è disastroso, ma le radici
della diseguaglianza tra noi e la Germania sono in massima parte endogene, e
uscire dall'euro, in sé, non ci aiuterà a risolverle. Ecco il senso di quel che
voleva dire lo sventurato Fubini.
Vero è che l'uscita dall'euro potrebbe darsi come condizione necessaria di
un generale “risveglio” dell'economia italiana. Dal punto di vista
meccanico-economico la cosa appare sensata. Dal punto di vista politico (che
poi è quello che conta) non sarei così ottimista. Spiego.
L'errore strategico degli “euristi” è stato quello di pensare, contro ogni
logica economica ed esperienza storica, che il mercato unico europeo avrebbe
generato una retroazione negativa tra i paesi europei; che per il solo fatto di
non poter contare sulle svalutazioni le imprese italiane sarebbero divenute più
competitive: che per insegnare a nuotare a qualcuno il modo migliore sia
gettarlo, di soppiatto, in acqua. Et de hoc satis: abbiamo visto cos'è
accaduto.
Il guaio di molti anti-euro, invece, è il tener in nessun conto le ragioni
strutturali e endogene della debolezza italiana. Sembra che
propongano di tenerci stretti evasione fiscale, scarso dimensionamento delle
imprese, scarsi investimenti di alto livello ecc, però riparati dietro lo scudo
della lira svalutata. Sembra che propongano, in sintesi, di proteggere le
debolezze del capitalismo italiano. Tale posizione politica, che non mi
pare esagerato ascrivere alle forze che su quelle debolezze hanno costruito il
loro successo, come la Lega, Forza Italia e fascisteria varia, è sicuramente
perdente e retrograda. Il bipolarismo tra pro-euro e anti-euro sopra descritti
condurrà questo paese lungo la china di un irreversibile declino.
Quel che sorprende è vedere che nessuno, nell'ambito della classe dominante
di questo paese, ha uno straccio di idea di come affrontare il problema
principale: la rimozione degli elementi che ci impediscono di assomigliare a
una grande potenza capitalistica. Sono tutti presi a discettare del vincolo
esterno, vuoi rafforzandolo (piddini) vuoi indebolendolo (leghisti), senza
proporre nulla che possa incidere sulle ragioni endogene del nostro declino.
Lungi da me suggerirgliele. Tali diatribe dovrebbero essere perlopiù
estranee a chi coltiva una una prospettiva di superamento del capitalismo. Il
capitale italiano soffre, da sempre, di una debolezza cronica e inemendabile.
Solo il suo rovesciamento potrà salvare questo paese dallo sfacelo. Ma in
fondo, a ben guardare, questo vale per tutti i popoli allo stesso modo. (C.M.)
ANCORA SUI "PIEDI STORTI", OVVERO COME LE
CAUSE DEL DECLINO ITALIANO SIANO ENDOGENE
Il precedente post (che riprendeva a sua volta questo articolo) ha sollevato qualche perplessità.
Qualcuno ha avanzato una risposta alla domanda che ponevo -perché la Germania è
strutturalmente più competitiva dell'Italia-, ma i più hanno sostanzialmente
respinto la mia argomentazione. Probabilmente ho spiegato male ciò che
intendevo. Per rimediare prenderò a prestito uno scritto di Vladimiro
Giacché. Con Giacché dovremmo andare sul sicuro: ha scritto l'ottimo Anschluss, ed è membro del comitato scientifico di A/simmetrie. Si
tratta dunque di un autore al di sopra di ogni sospetto. Se non credete a me
crederete a lui.
Vi segnalo dunque questo breve, ma denso saggio del 2004. Erano i tempi in cui Giacché, in altri scritti, affermava:
Vi segnalo dunque questo breve, ma denso saggio del 2004. Erano i tempi in cui Giacché, in altri scritti, affermava:
punto da cui partire è questo: l’orizzonte europeo non è una dimensione che
si può scegliere o meno; è un contesto necessario e quindi anche un nuovo campo
di possibilità.
E rincarava la dose:
Al tempo stesso, la moneta unica chiude - almeno tendenzialmente - lo
spazio nazionale come orizzonte strategico dell’azione sindacale e politica. Questo
significa che non esiste oggi alcuno spazio per un ritorno alla “sovranità
perduta”, ossia non c’è alcuna possibilità di successo per chi si rinchiuda
in un orizzonte politico e rivendicativo nazionale.
Ma torniamo al saggio del 2004. Vi consiglio vivamente di leggerlo e
rileggerlo, perché c'è tutto. C'è l'analisi del nanismo delle nostre imprese, e
delle ragioni politiche di tale nanismo. Viene descritto il legame tra
nanismo e mancato sviluppo capitalistico. Viene chiarito un punto importante: come
la vocazione tipica delle PMI sia da far da sub-fornitrici delle grandi
imprese, le uniche in grado di "servire" direttamente il mercato dei
prodotti finiti; e dato che le grandi imprese, in Europa, sono sopratutto
tedesche, ecco "svelato" che buona parte delle imprese esportatrici
del Nord-Est altro non sono che fornitrici delle multinazionali tedesche.
Questo fatto ci aiuta anche a capire perché il partito delle PMI del nord, la
Lega, sia stata per anni genericamente "filo-tedesca"; e perché anche
Matteo Salvini, fino a un anno e mezzo fa, volesse tenere la "Padania" all'interno
dell'eurozona, escludendo il Sud.
Del resto, a prendere sul serio il vecchio slogan leghista, cioè quello
dell'indipenza della Padania (oggi del solo Veneto, chissà perché), noi avremmo
a che fare con la proposta di creare un nuovo stato completamente inserito
nell'orbita della Germania, non meno della Slovenia o del Lussemburgo...
Nel testo di Giacché si individua la relazione tra bassi salari, evasione
fiscale e carenza di investimenti. Le PMI, potendo lucrare su una
classe operaia remissiva e frantumata, nonché su una condizione di illegalità
di massa (fiscale, contributiva, ambientale, ecc), non hanno incentivi né
all'accorpamento né all'investimento. La mancanza di economie di scala,
garantite dalle grandi imprese, è un ulteriore fattore che gioca contro
l'investimento in nuove tecnologie. La pretesa di conservare il controllo
familiare sull'azienda, d'altro canto, crea una condizione di cronica
sotto-capitalizzazione delle imprese, da cui segue il ricorso al credito
bancario non, come sarebbe normale, per finanziare investimenti, ma
semplicemente per ottenere liquidità; e questo aiuta a spiegare perché la crisi
dello spread, con conseguente aumento del tasso di interesse dei
prestiti bancari, sia risultato così esiziale per molte imprese italiane.
A questa galleria degli errori si potrebbe aggiungere anche
qualcos'altro. La massa delle PMI è anche massa elettorale. Tale massa ha
votato e sostenuto certe classi politiche in cambio di guarentigie: in
particolare, che rimanessero invariati i livelli di illegalità e di evasione
fiscale. Questa combinazione ha prodotto una generale condizione di profondo
malgoverno, che ha generato una crisi dei servizi pubblici; ma i servizi
pubblici efficienti (pensiamo solo alla scuola!) sono l'ambiente ideale per la
nascita e lo sviluppo degli investimenti.
Ci si può chiedere se dal 2004 ad oggi non sia cambiato qualcosa. Per
quanto riguarda le subforniture la situazione non pare sia cambiata: ancora
pochi mesi fa, il Sole 24 Ore scriveva:
la Germania ha rafforzato la sua posizione a valle nelle catene del valore,
avvicinandosi di più ai clienti finali, mentre l'Italia ha risalito la catena
del valore verso posizioni più da fornitore. Nella catena manifatturiera
l'Italia è oggi più fornitore e la Germania più vicina ai clienti. La
partecipazione dell'Italia alla catena del valore diminuisce, mentre la
Germania può contare maggiormente su network produttivi integrati.
Per quanto riguarda la dimensione delle imprese, il nanismo è rimasto. L'azione del governo Monti ha
decimato le PMI, portandone decine (se non centinaia) di migliaia al
fallimento, ma non si è verificato un contemporaneo processi di aggregazione
tra imprese; anzi, la platea dei "top player" italiani
si èsfoltita sempre di più dopo la fuga della FIAT. Insomma, mi sembra di poter
dire che l'analisi di Giacché è assolutamente attuale.
Questa è l'ossatura del capitalismo italiano. L'euro ne ha messo a nudo la
fragilità. Del resto la moneta unica, almeno dal punto di vista di buona
parte della classe dirigente italiana, doveva servire appunto da rimesio a
questa condizione di arretratezza. Ciò spiega anche perché Giacché fosse
favorevole all'euro, e fosse vicino ad un partito (il PdCI) la cui linea
strategica consisteva nel portare voti al partito dell'euro, al centrosinistra.
Ma cosa è andato storto? Perché non ha funzionato? Ne parliamo in un prossimo
post. (C.M.)
IL CALABRONE HA PERSO LE ALI. LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE NELLA CRISI |
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“In molti casi la leadership italiana a
livello di interscambio mondiale appare pressoché inattaccabile nel medio-lungo
termine. Ad esempio, nei tessuti di lana il saldo commerciale italiano è quasi
10 volte superiore a quello del secondo paese esportatore netto.”
(M. Fortis, 1998)
(M. Fortis, 1998)
“Sarebbe grave non accorgersi di quanto sta accadendo: in alcuni
distretti come Prato, Fermo, Barletta, Biella, Como, Cadore, Manzano, Livenza e
l’area Murgiana nel giro di pochi mesi sono a rischio decine di migliaia di
posti di lavoro”
1. C’era una volta...
“Il ronzio sordo del calabrone è un rumore
assopente delle nostre estati. Ma secondo alcuni il nero insetto non avrebbe
dovuto né ronzare né volare. Ne ammettevano l’esistenza, ohibò, ma a patto che
zampettasse sulla terraferma. Fisici ed entomologhi si sono interrogati per
lungo tempo sulla levitazione del calabrone: come diavolo faceva a reggersi in
aria? Il suo peso, in rapporto alla superficie alare, rendeva impossibile il
volo. Per sua fortuna, il goffo insetto ignora le leggi della fisica, e le
vìola inconsapevolmente e mirabilmente.
Ecco, abbiamo voluto dare all’economia
italiana l’immagine di un calabrone. Come diavolo ha fatto l’Italia a divenire
il quinto Paese industriale del mondo? Con quel retaggio di immaturità statuale
e di arretratezza contadina che ne appesantiva le ali? Ma malgrado tutto e
contro tutto, il calabrone ha volato...”
Con queste parole suggestive si apre la
storia dell’economia italiana del Novecento scritta qualche anno addietro da
Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi. Sono parole appropriate. Non perché siano
corrette (al contrario, proverò a dimostrare che esse contengono un
fondamentale errore di prospettiva). Ma perché esprimono bene il tono
dominante nella maggior parte delle narrazioni che prendono ad oggetto
l’economia italiana - ed in particolare l’economia italiana del secondo
dopoguerra. Questo tono, espresso emblematicamente dalla bella metafora che
abbiamo riportato, è un tono di fiaba: per una favola che si pretende a lieto
fine.
Ma proviamo ad analizzare più da vicino i
contenuti concreti della metafora del calabrone. La metafora, in verità, è
doppia: il “calabrone” è l’immagine dell’economia italiana, le “leggi della
fisica” sono le leggi dell’economia. Il calabrone italico sfida le leggi
economiche - e vince. Qui non dobbiamo farci trarre in inganno dagli accenni
del testo all’“immaturità statuale” ed all’“arretratezza contadina”. Il punto
non è questo. Non è in questo che il “calabrone” italico sfida le leggi
economiche e rappresenta un unicum vincente: non mancano, infatti, altre
storie economiche di successo avvenute a dispetto dell’immaturità ed
arretratezza istituzionale (si pensi anche solo alla Germania di fine
Ottocento); quanto poi all’“arretratezza contadina”, è poco più che tautologico
affermare che tutte le economie capitalistiche si sono sviluppate sulla
base di una preesistente economia a prevalenza agricola. No: il punto è un
altro. Il calabrone dell’economia italiana - questa la tesi - avrebbe sfidato
con successo le leggi economiche sotto un diverso profilo: infrangendo la legge
per cui la crescita della dimensione delle imprese (in termini di capitali
impiegati, di mezzi di produzione posti in opera e di lavoratori occupati) è un
fattore determinante per il successo economico in una economia capitalistica
avanzata; o, se si vuole, confutando la concezione marxista per cui la
concentrazione e la centralizzazione dei capitali rappresentano fondamentali
tendenze immanenti allo sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Tradotto in termini concreti, il punto di
vista di Galimberti e Paolazzi - e con loro di molti altri - è questo: sono
le piccole e medie imprese ad aver reso forte l’economia italiana.
L’economia italiana è forte non a dispetto delle modeste dimensioni della
maggior parte delle sue imprese, ma grazie a ciò: in questo consiste la
assoluta particolarità del caso italiano. Questo concetto è stato variamente
espresso - non di rado avvalendosi di definizioni a forte valenza metaforica ed
evocativa: così, sin dagli anni Settanta si è parlato di “Italia dei distretti
industriali” (Becattini), di “terza Italia” (Bagnasco), di “capitalismo
molecolare” (Bonomi).
In effetti, i dati confermano la centralità
delle PMI nel tessuto economico italiano. Con riferimento specifico ai
“distretti industriali” (quindi un sottoinsieme delle PMI), Sebastiano Brusco e
Sergio Paba qualche anno fa hanno potuto affermare che “i sistemi produttivi in
cui hanno un ruolo preminente le imprese micro, piccole e medie assorbono in
Italia una quota di addetti all’industria manifatturiera che va dal 35 al 40
per cento del totale... Questi sistemi, presi tutti insieme, sono un pezzo
molto rilevante del sistema produttivo italiano, più grosso di Fiat più Eni più
Iri”. Del resto, le imprese con meno di 50 addetti,
ancora nel 1991, rappresentavano il 58% dell’intera forza-lavoro occupata in
imprese manifatturiere; tale percentuale saliva ad oltre il 71% considerando le
imprese con meno di 250 addetti. Non solo: nello stesso anno, prendendo a
riferimento i soli settori di punta dell’export italiano (il cosiddetto
“made in Italy”, ossia i settori del “sistema moda”, dell’alimentazione,
dei prodotti per la casa e l’arredo, ma anche del macchinario strumentale), la
percentuale di occupati presso imprese con meno di 200 addetti risultava pari
addirittura all’84% del totale.
Non meno significative appaiono le linee
di tendenza. Se infatti si abbraccia il periodo che va dagli anni Cinquanta
agli anni Novanta, ci si avvede di un duplice movimento.
Nei primi due decenni assistiamo ad un
importante fenomeno di concentrazione industriale, conseguente a due processi:
in primo luogo la creazione di un mercato nazionale, che comporta un forte
ridimensionamento delle attività artigianali tradizionali e più in generale
l’uscita dal mercato di numerose piccole imprese a dimensione locale-regionale
(entrambi i fenomeni sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno): cosicché
il peso delle piccolissime imprese (quelle con meno di 10 addetti) passa in
vent’anni da un terzo (1951) ad un quinto (1971) dell’occupazione
manifatturiera totale; in secondo luogo, l’integrazione economica europea, che
impone una ristrutturazione dell’apparato produttivo nei settori più esposti
alla concorrenza internazionale.
Dopo il 1971, però, lo scenario cambia.
Riprende a crescere l’occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal 42% del
1971 si passa al 48% del 1981, per giungere, come abbiamo visto sopra, al 58%
del 1991. Il processo opposto si registra nella media e grande impresa:
quest’ultima, ossia le imprese con più di 500 addetti, vede scendere la
percentuale relativa di forza-lavoro occupata di ben 11 punti dal 1971 al 1991.
Ancora più eclatante quanto accade alle imprese con più di 1000 dipendenti: se
dal 1961 alla fine del decennio l’occupazione in queste imprese era cresciuta
del 34,7% (a fronte di una crescita dell’occupazione nell’industria del 17,6%),
negli anni Settanta il percorso si inverte: dal 1971 al 1980 si ha un calo del
9,7% nella grande industria (a fronte di una crescita dell’occupazione del
12%); il calo dell’occupazione nella grande
industria continuerà per tutto il ventennio successivo (per avere un’idea della
situazione, si pensi anche solo alle vicende della Fiat, che proprio dal 1980
imbocca con decisione la strada dell’espulsione della forza-lavoro dalle
fabbriche).
E oggi? Tali processi si sono ulteriormente
accentuati: se ai censimenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di
addetti delle aziende italiane risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a
3,9. Non solo: le imprese con più di 500 addetti - “grandi” - erano 1.265 (con
il 18,8% degli addetti, 2,4 milioni) nel 1981; 1.173 (con il 18,1% degli
addetti, 2,6 milioni) nel 1991; 1.061 (con il 16,2% degli addetti, 2,2 milioni)
nel 1996. Il 95 per cento delle aziende ha meno di 10 dipendenti; anche
nell’industria la dimensione media è appena di 6,5 addetti.
2. “Piccolo è bello”: il nanismo e i suoi perché (presunti)
Fin qui le cifre. Come si spiegano? I cantori
della gesta delle PMI rispondono essenzialmente con quattro argomenti, tra loro
connessi:
a) La crisi del fordismo. Secondo questo
argomento, di fronte alla perdita di importanza della produzione standardizzata
di massa, la grande industria si sarebbe dimostrata incapace di seguire i
bisogni sempre più sofisticati e personalizzati del consumatore. Viceversa, la
piccola impresa sarebbe per sua natura più flessibile, innovativa e capace di
cogliere le esigenze della clientela. Per rafforzare questo argomento, si fa in
genere riferimento alle specifiche nicchie di specializzazione delle imprese
italiane, che riguardano tra l’altro la cura della persona, l’arredo-casa, la
moda. Tutti settori, si argomenta, in cui l’inventiva e la personalizzazione
del prodotto giocano un ruolo fondamentale.
b) La relativa importanza delle economie
di scala. Secondo questo argomento, le economie di scala nella produzione
non sono l’unico, né il principale fattore competitivo. Sooprattutto, se si
considerano non le PMI isolate, ma i “sistemi di piccole imprese” che
caratterizzano i “distretti industriali”: questi ultimi - così la tesi -
riescono a raggiungere lo stesso risultato delle economie di scala della grande
impresa (ossia la riduzione dei costi di produzione) mettendo in comune
servizi, informazioni, rapporti con i fornitori ecc.
c) La grande importanza delle innovazioni
incrementali. Questo argomento punta a sminuire l’importanza delle attività
di ricerca e sviluppo tecnologico, che solo le grandi imprese possono
permettersi e che danno luogo a nuovi prodotti (poniamo, la scoperta di nuovi
polimeri che consente alla Montecatini di produrre il moplen, o la scoperta del
nailon), enfatizzando per contro le innovazioni incrementali: quelle
innovazioni, cioè, che affinano prodotti già esistenti, variandoli in misura
lieve ma significativa, personalizzandoli e facendone qualcosa di nuovo (ad
esempio, così Brusco e Paba, la realizzazione di “una mischia equilibrata di
lana cachemire e lana merinos, con una dose minima di fiocco di nailon”, tale
da “produrre un tessuto leggero, morbidissimo e resistente”).
d) La libertà dai “lacci e lacciuoli” che
avvincono la grande industria. Secondo quest’ultimo argomento, le PMI,
proprio a motivo della loro ridotta dimensione, patirebbero meno delle grandi
imprese vincoli regolamentari, fiscali e sindacali. Non è difficile capire di
cosa stiamo parlando: sarà sufficiente ricordare il tenore della campagna
contro l’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle
imprese al di sotto dei 15 dipendenti...
A queste argomentazioni si può rispondere in
molti modi, tanto sotto un profilo metodologico quanto da un punto di vista più
strettamente fattuale.
a) Ad esempio, con riferimento all’argomento
“postfordista” si può argomentare che la produzione standardizzata di massa non
ha perso per nulla la sua importanza (se non per pochi prodotti realmente di
nicchia, che in ogni caso coprono una porzione minima anche della produzione
italiana), e che comunque le grandi imprese sono oggi in grado di dare ai loro
prodotti quel tanto di “aura personale” in grado di incontrare il gusto del
consumatore (le cui raffinate esigenze, sia detto per inciso, non sono che il
prodotto della maturità di alcuni mercati di sbocco - ossia di una situazione
di endemica sovrapproduzione che dura ormai da decenni). Comunque sia, non
sembra che alcuni dei settori in cui l’export italiano è tradizionalmente
forte, come quello della meccanica strumentale, siano particolarmente sensibili
alla “personalizzazione dell’offerta”...
b) Quanto alle economie di scala “aggirate”
dalle cooperazioni a carattere consortile presenti nei cosiddetti “distretti
industriali”, va rilevato che si tratta di discorsi piuttosto generici e
perlopiù privi di sufficienti specificazioni e di dati quantitativi a supporto.
Del resto, non è fuori luogo ricordare che anche solo sulla definizione
di “distretti industriali” non esiste alcun accordo tra gli studiosi - tanto
che le stime sul loro stesso numero variano in misura considerevole da un
autore all’altro.
c) Quanto all’argomento delle innovazioni
incrementali (su cui tornerò più avanti) basterà dire che la sua stessa
impostazione presuppone proprio ciò che pretenderebbe di negare: ossia la necessità
della grande industria. In effetti, perché io possa pensare di unire il nailon
ad altre fibre, è quantomeno necessario che qualcuno abbia prima inventato il
nailon. Che è come dire che lo sviluppo delle PMI non è autosostenuto, ma
presuppone l’esistenza di una grande impresa (pubblica o privata) che fa
ricerca applicata e innovazione di prodotto.
d) Infine, l’argomento dei “lacci e
lacciuoli”. È certamente valido - anche troppo, come vedremo.
Quanto sopra - e molto altro - si potrebbe
dire. Ed è stato detto da parte di non pochi autori. Ai quali per molti
anni è stato risposto... con la metafora del calabrone. Ossia esibendo i
successi ottenuti dal “made in Italy” nel mondo, e confrontandoli con i
disastri della chimica, dell’auto e di altri settori di pertinenza della (fu)
grande industria italiana. Atteggiamento comprensibile: il successo, in un
certo senso, si autogiustifica, si spiega da sé. È la sconfitta che richiede di
essere spiegata, analizzata, capita.
Sennonché, da qualche tempo in qua, cresce il
bisogno di spiegare, analizzare, capire. Perché al nostro calabrone il successo
non arride più. Anzi.
3. La forza del declino
Nella relazione del Governatore della Banca
d’Italia del 31 maggio 2003 si poteva leggere quanto segue:
“In cinque anni, tra il 1997 e il 2002, la
produzione industriale ha segnato in Italia un aumento del 3 per cento. In
Francia l’incremento è stato intorno all’11, in Germania del 12; nell’area
dell’euro, escludendo l’Italia, si situa al 14 per cento...
La quota delle esportazioni italiane nel
mercato mondiale era progressivamente salita, tra gli anni cinquanta e gli anni
ottanta, dal 2 al 4,5 per cento...
Dalla metà degli anni novanta è iniziato un
declino della competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli
scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta. A prezzi
costanti, la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel
2002. La perdita è diffusa in tutti i mercati.”
“Nel 2002 le
esportazioni di beni e servizi sono diminuite in Italia dell’1% a prezzi
costanti, per la prima volta negli ultimi dieci anni... Nel complesso dell’anno
il ristagno delle esportazioni di beni si confronta con una crescita del
commercio mondiale nell’ordine del 3%...
Nel 2002
quasi tutti i principali settori di specializzazione hanno registrato una
diminuzione delle esportazioni in valore: apparecchi elettrici e di precisione
(-10,8%), cuoio e calzature (-8,7%), prodotti tessili dell’abbigliamento (-
4,7%), mobili (-3,5%) e macchine e apparecchi meccanici (-2,8%)”. Uniche
eccezioni: “le esportazioni di prodotti alimentari, bevande e tabacco (+5,7%),
di prodotti chimici (+ 3,8%) e di mezzi di trasporto (+ 2,2%, nonostante una
caduta del 5% nel comparto degli autoveicoli)”.
Se poi prendiamo i dati Istat relativi ai
primi 11 mesi del 2003, assistiamo ad un vero e proprio crollo, guidato da
cuoio e prodotti in cuoio (- 21,2%) e legno (- 19,1%), e seguito dal
tessile-abbigliamento (-12,3%), dalla meccanica (- 8,4%), dai mezzi di
trasporto (- 8,4%) e dagli alimentari (- 7,4%). Si salvano soltanto i prodotti
petroliferi raffinati (+ 28,2%) e la chimica (+ 2,5%). E comunque il saldo è
negativo: esportazioni in calo del 4,4% su base annua.
Comprensibilmente, tra i passatempi preferiti
degli arcoriani al governo (e degli “intellettuali” al seguito) vi è
l’escogitazione di trucchetti dialettici per coprire e mistificare questa
realtà allarmante. Lasciando da parte per carità di patria i più risibili (del
tipo: “è tutta colpa dell’11 settembre”), uno dei più gettonati è il seguente:
“guardate che la Germania sta peggio di noi”. Falso. Perché, se è vero che nel
2002 (e nel 2003) la produzione ha ristagnato sia in Germania che in Italia, le
cause sono ben diverse: nel primo caso il motivo è la debolezza della domanda
interna, nel secondo è il crollo dell’export.
E non si tratta di una tendenza di breve
periodo. Come ha evidenziato il vicedirettore generale della Banca d’Italia,
Pierluigi Ciocca, nell’ottobre scorso, “dal primo trimestre del 2001 al terzo
del 2003 l’espansione dell’attività produttiva è stata pressoché nulla: la più
lunga fase di ristagno in mezzo secolo”. Ecco la realtà del “miracolo italiano”
promesso da Berlusconi & Soci. Ma ecco anche - ed è questo che qui
interessa rilevare - la situazione di un tessuto produttivo imperniato sulle
piccole e medie imprese. Leggiamo ancora Ciocca: “il limite del made in
Italy è nei prezzi alti. Ma anche nella qualità, nella composizione
merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione”. Ed è proprio
la ridotta dimensione delle imprese che “congela quel modello, restringe
l’investimento all’estero, limita le esportazioni”.
Quali che siano le cause, una cosa è certa:
il quadro che abbiamo di fronte oggi è drammaticamente diverso anche solo da
quello della fine degli anni Novanta. L’“invincibile armata” dei piccoli sembra
in rotta. Apparentemente, di invincibile c’è solo la forza del declino. Il
declino di un modello di specializzazione, di un modello dimensionale, in
ultima analisi di un modello di capitalismo. È una situazione che può spingere
l’Italia inesorabilmente ai margini dell’economia europea, consegnandole un
ruolo periferico nella divisione internazionale del lavoro. Ma che ha almeno un
merito: quello di fare giustizia del mito dell’“unicità del caso italiano e
delle PMI”, creato dalla pubblicistica economica nei lontani anni Settanta e
riprodottosi per decenni, grazie soprattutto ad alcune fortunate circostanze ed
al suo comodo carattere ideologico e consolatorio. Sì, perché la crisi di oggi
è in grado di farci comprendere la verità sulla “terza Italia”: essa ci rivela
infatti quali fossero la ragion d’essere ed i vantaggi competitivi (quelli
veri) delle piccole e medie imprese italiane - e lo fa nel preciso momento in
cui cominciano a perdere di significato e di efficacia. Vediamo.
4. Piccole, brutte e cattive: la verità sulle PMI
4.1. Un popolo di subfornitori
L’“irresistibile ascesa” delle PMI italiane, come abbiamo visto, comincia
negli anni Settanta. Non inizia per la geniale capacità di seguire i “bisogni
del consumatore” snobbati dall’insensibilità della grande industria. Inizia
nella grande crisi di sovrapproduzione di quegli anni, che colpisce severamente
la grande industria. Quest’ultima, infatti, grazie all’accresciuta forza e
consapevolezza della classe operaia non può più adoperare la leva dei bassi
salari (che aveva rappresentato il grande punto di forza degli anni del boom) e
vede quindi ridursi drasticamente i margini di profitto. E reagisce
esternalizzando produzioni, per colpire il sindacato e la capacità di
contrattazione della classe operaia. La situazione viene così descritta da
Brusco e Paba, autori certo non sospetti di essere pregiudizialmente ostili
alle PMI: “fu, quella, la stagione del decentramento, dello spostamento di fasi
elementari di lavorazione dalla grande impresa a imprese minori. Migliaia di
tornitori o fresatori furono licenziati dalle grandi imprese, e ripresero a
lavorare come subfornitori per le stesse imprese da cui erano stati licenziati,
spesso con macchinari uguali a quelli usati in precedenza, talvolta proprio con
le stesse macchine.” Questo si tradusse, come fu ben presto denunciato dal
sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione del
lavoro nero, più in generale minori tutele per il lavoro. Del resto, i numeri
parlano da soli: posti pari a 100 i salari delle imprese maggiori, i salari
delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-7 e pari a 71 ancora
alla fine degli anni Ottanta. Come ovvio risultato, la quota dei profitti
lordi sul valore aggiunto risulta più alta nelle piccole imprese che nelle
grandi in tutto il periodo considerato.
È essenziale notare che quel rapporto di subfornitura non è cosa che le PMI
italiane si siano lasciate alle spalle col passare del tempo. Tutt’altro.
Infatti, se prendiamo i dati della più recente indagine sulle imprese
manifatturiere condotta dall’“Osservatorio sulle piccole e medie imprese” di Capitalia,
scopriamo che le imprese che lavorano su commessa sono il 68,7% del totale; che
il cliente-impresa che acquista è per il 52,6% un’impresa localizzata in
un’altra regione italiana e per il 23,1% un’impresa estera. Giustamente, gli
autori della ricerca concludono che si tratta di dati che “confermano il
consolidamento della divisione del lavoro tra grandi imprese e PMI. Secondo
tale modello, le imprese piccole e medie sarebbero destinate a soddisfare,
attraverso accordi di subfornitura, quote crescenti di produzione delle
grandi imprese. Il risultato di queste politiche consentirebbe alla grande
dimensione di ridurre il costo del lavoro, nonché gli investimenti in capitale
circolante, favorendo l’allargamento delle funzioni commerciale e finanziaria”.
Ma non è tutto: perché anche per le imprese oltre i 500 addetti più del 56%
del fatturato è stato realizzato vendendo ad altre imprese. Scopriamo così
che “l’industria manifatturiera italiana è un’industria intermedia, inserita
in una filiera, a cui a monte e a valle stanno altre imprese”. Altro che genio italico in grado di mandare in
sollucchero il consumatore più esigente! L’industria manifatturiera italiana nel
suo complesso è sempre più un’industria di subfornitura, che ha come
cliente altre imprese!
Dovremo prenderne nota ed aggiornare l’elenco delle categorie che incarnano
le virtù italiche: siamo un popolo di santi, eroi, poeti, navigatori... e
subfornitori.
4.2. Nani NON per caso
Ovviamente, il nanismo non è un destino. Il fatto di essere
prevalentemente subfornitrici non impedirebbe di per sé alle imprese di
crescere, dimensionalmente e dal punto di vista della focalizzazione di
business, realizzando economie di scala, magari per giungere (perché no?) a
presidiare direttamente i mercati di riferimento. E, ovviamente, talora questo
processo di crescita dimensionale si verifica realmente. Ma bisogna constatare
che la tendenza generale va nella direzione opposta: “la piccola
dimensione si è accentuata nella struttura industriale italiana negli anni 90.
Tra il ’96 e il ’99 il peso della classe d’imprese composta da 1-2 addetti è
aumentato; quella con 100 dipendenti e oltre rappresentava meno di un quarto
dell’occupazione nelle industrie e nei servizi”. Volendo esprimere tutto questo in termini
paradossali, si potrebbe dire che il nanismo industriale italiano cresce. Si
tratta però di capire il perché.
In verità, il nanismo è in primis la logica conseguenza del
controllo familiare delle imprese. E non è un caso che anche il carattere
familiare del capitalismo italiano si sia rafforzato negli ultimi anni: la
percentuale di persone fisiche residenti che detengono la proprietà o il
controllo diretto dell’impresa è infatti giunta all’89,9% del totale. Il controllo familiare di un’impresa ha
precise implicazioni negative sia in termini di governance, sia in
termini di finanziamento.
Con riferimento al governo dell’impresa, è evidente che la selezione del
management su base familiare-dinastica (una base che oltretutto col passare delle
generazioni si amplia talora a dismisura, creando ovvi problemi di
ingovernabilità dell’impresa) si rivela nella maggior parte dei casi
inefficiente: essa risulta in generale inadeguata a gestire la crescita
aziendale e comunque a governare un’entità complessa qual è oggi l’impresa.
Ma il tema più delicato è quello del finanziamento: come constata Fortis,
“uno degli aspetti più critici del sistema delle PMI italiane” è per l’appunto
rappresentato dal fatto che esse, “essendo in larga maggioranza ad azionariato
famigliare, ormai presentano un livello inadeguato di capitalizzazione”. Per
logica conseguenza, le PMI sono in genere molto indebitate, con una forte
prevalenza del debito bancario e soprattutto di quello a breve termine (nel
caso delle imprese sino a 50 addetti, nel 2000 l’incidenza dei debiti a breve
termine superava il 70% del totale). Non solo: a differenza di quanto le
ricorrenti giaculatorie confindustriali indurrebbero a ritenere, i prestiti
bancari alle imprese sono in aumento. Basti pensare che il volume dei prestiti
alle imprese non finanziarie è salito del 70% nel periodo 1995-2002, e del 4%
nel solo 2002 (in quest’ultimo anno è cresciuto addirittura del 7,2% il credito
alle imprese con meno di 20 addetti). Il punto è che, in assenza di un’adeguata
patrimonializzazione, i finanziamenti non servono a finanziare investimenti, ma
solo il circolante: in altri termini, consentono il galleggiamento dell’impresa,
non il suo sviluppo e la sua crescita.
Ma c’è di più: come ha rilevato Ciocca nell’intervento già citato,
“superata la recessione del 1992-93, la quota dei profitti sul reddito
nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento degli
attivi d’impresa sono tendenzialmente aumentati”, situandosi “su valori in
media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione”. Ora, se questo è vero una domanda sorge
spontanea: dove sono finiti i profitti realizzati dalle PMI? La risposta è
obbligata: nel patrimonio personale dell’imprenditore e della sua
famiglia. La situazione è stata così descritta da Marcello De Cecco in un suo
illuminante saggio: “mediante lo svuotamento sistematico dei bilanci, gli
imprenditori italiani sono riusciti a costituirsi fortune familiari che,
sommate tra loro, raggiungono dimensioni totali veramente ragguardevoli. Le
loro imprese continuano ad essere indebitate con le banche, mentre gli
imprenditori appaiono come i migliori clienti potenziali per le nuove attività
di consulenza finanziaria che le banche hanno iniziato da quando il Tesoro
italiano ha cominciato, qualche anno fa, a remunerare a tassi assai meno
convenienti per gli investitori il proprio debito, che era parte cospicua del
patrimonio delle famiglie, anche di quelle degli imprenditori”. Quindi, cospicui patrimoni personali e
familiari a fronte di una scarsa patrimonializzazione delle imprese, con quello
che ne consegue: dimensioni rachitiche e crescita asfittica delle imprese
stesse (e oggi, all’orizzonte, l’uscita dal mercato).
L’alternativa a tutto questo, ovviamente, ci sarebbe: aprire l’azienda ad
altri soci, ad investitori istituzionali o quotarla in borsa. Ma ovviamente questo comporterebbe, per il
nanocapitalista italico, il rischio di perdere il controllo della società. E
quindi si preferisce ricorrere esclusivamente (o quasi) a prestiti bancari - e
si resta nani. Vale però la pena di notare che l’alternativa tra apertura del
capitale a terzi e crescita patrimoniale da un lato, e stentata sopravvivenza
mantenendo il controllo familaire dell’impresa dall’altro, rappresenta - prima
o poi - un’alternativa secca, che non consente scappatoie o “terze vie”.
Infatti, come ricordava Marx, “con lo sviluppo del modo di produzione
capitalistico, cresce il volume minimo del capitale individuale, necessario per
far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali”, ossia “aumenta il volume
minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in
opera produttiva del lavoro”. Per capire come tutto questo si traduca in
concreto nella situazione attuale, è sufficiente rifarsi a un recente testo sui
mercati finanziari europei: “l’omogeneizzazione dei mercati mondiali ha
determinato in molte industrie un sostanziale aumento delle economie di scala e
un incremento delle dimensioni minime di investimento... Tutto ciò
richiede di norma risorse finanziarie eccedenti quelle aziendalmente
disponibili per la crescita, e il mercato internazionale dei capitali è
pronto a fornirle purché si sia in grado di dimostrare che dalla crescita,
dalle fusioni e dalle acquisizioni deriveranno guadagni adeguati al capitale
investito. In tal modo il mercato internazionale dei capitali diviene il
vero giudice del merito e della fattibilità delle strategie e dei progetti di
impresa. Per l’Europa continentale ciò significa sottrarre il giudizio sulla
condotta delle imprese ai gruppi di controllo che l’avevano tradizionalmente
esercitato in modo esclusivo.” Qui ci si riferisce alle grandi imprese: ma è
un discorso che ovviamente vale a maggior ragione per le piccole e
medie. Insomma: al processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali
non è possibile sottrarsi - se non al prezzo di sopravvivere in nicchie
limitate; o in una relazione di indipendenza formale, ma dipendenza sostanziale
- caratterizzata da una precarietà di fondo - dal grande capitale (come avviene
nel caso del rapporto di subfornitura).
4.3. La concorrenza di prezzo e le sue basi (insostenibili)
Si può essere tentati di reagire a quanto ora argomentato con una certa
dose di scetticismo: se la situazione è così fosca, come è possibile che
così tante piccole e medie imprese italiane stiano ancora in piedi? Come è
stato possibile per così tante imprese sopravvivere così a lungo normalmente,
facendo non pochi profitti? La risposta è molto semplice: è stato possibile
grazie ad un insieme ben determinato di fattori che hanno consentito alle
imprese italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente convenienti.
Tali fattori hanno però caratteristiche piuttosto inquietanti (a volte più
d’una assieme): o non sono più riproponibili nella situazione attuale, o sono
una sorta di doping che ha effetti benefici nel breve ma distruttivi nel
lungo periodo, o consistono in puri e semplici comportamenti illegali. E
veniamo all’esame di questi fattori:
1) I salari bassi. Bassi - si intende - non soltanto in relazione
alle grandi imprese, ma anche alle imprese concorrenti degli altri Paesi
industrialmente avanzati. Non stiamo parlando di eventi lontani nel tempo: come
ci ricorda Ciocca, negli anni Novanta “la dinamica delle retribuzioni in
termini reali si è attenuata anche rispetto a quella della produttività”.
Nonostante il gergo un po’ criptico, è facile capire cosa il testo appena
citato significhi; tant’è vero che lo stesso autore subito dopo aggiunge: “il
salario non è fra i principali problemi presenti dell’economia italiana”.
Ora, a ben vedere i problemi nascono proprio
di qui. E sono di due ordini. Il primo è che dopo l’attacco ai salari degli
ultimi decenni, ed in particolare alla luce del furibondo carovita che
imperversa attualmente nel nostro Paese, le buste paga non appaiono
ulteriormente comprimibili. Si tratta quindi di un fattore non riproponibile
(o, se si vuole, ormai “anelastico”). Il secondo problema è che l’utilizzo
esclusivo o preminente della leva del costo della forza-lavoro come fattore di
competitività è un disincentivo all’innovazione di processo (è in certo qual modo
regressivo, risospingendo indietro la frontiera dei profitti, dal plusvalore
relativo al plusvalore assoluto), e spinge ad una competizione basata esclusivamente
sul prezzo dei prodotti e non sulla loro qualità (contenuto tecnologico,
innovazione, ecc.). Cosicché si finisce, naturalmente, per competere con
imprese dei Paesi cosiddetti emergenti, le quali comunque si giovano di un
costo della forza-lavoro molto inferiore a quello italiano e quindi, dalla
competizione su questo terreno, hanno tutto da guadagnare. Quindi, si tratta
anche di un fattore che dà benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel
lungo periodo.
2) Le svalutazioni competitive. Per decenni la competitività delle
imprese italiane è stata “dopata” per mezzo di svalutazioni competitive della
lira (le quali, giova ricordarlo, rappresentano una delle più classiche forme
di politica di classe e socializzazione delle perdite, oltreché di ingiusto privilegio
attribuito ai debitori nei confronti dei creditori). Per avere un’idea delle
dimensioni di questo “doping” basterà ricordare che “tra il 1971 e il 1993 la
diminuzione del tasso di cambio nominale, nei confronti delle principali
monete, è stata prossima al 70 per cento”. Piccolo problema: con l’euro questa storia è
finita, anche se la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro (durata
sino all’inizio del 2002) può aver dato l’illusione che le cose non fossero
granché cambiate. Non aver capito che questo nuovo vincolo costringeva a cambiare
gioco costituisce uno dei più gravi errori strategici compiuti
dall’imprenditoria italiana.
3) Un’evasione fiscale spropositata. Che l’evasione fiscale e
contributiva (grazie all’evasione in senso stretto ed al lavoro nero) abbia
costituito nel corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi
competitivi per le piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni
autori ne parlano in premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e
distretti industriali.
Del resto, persino Antonio Fazio, che difficilmente potrebbe essere considerato
un acceso giacobino, ha potuto parlare di “abnorme estensione del lavoro
irregolare”.
Ed è il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media
italiana di lavoro irregolare pari al 14,5% delle unità lavorative totali
nel 2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29, 25 e 24% in
Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più “virtuosa” (il
Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa
oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte
dalla Banca d’Italia su dati Istat. Ma secondo l’Eurispes nel 2003 le cose
stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovrebbe oscillare addirittura
tra il 30% e il 48% del totale, e le cifre assolute assommare a qualcosa tra i
7 e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l’economia sommersa (che
sfugge del tutto al fisco) varrebbe non meno di 317 miliardi di euro (il 27%
dell’intero prodotto interno lordo!).
Alla luce di questi dati, davvero non sorprende che l’Agenzia delle Entrate
stimi l’ammontare totale dell’evasione fiscale annua come superiore a 200
miliardi di euro...
Il problema per quest’ultimo “fattore competitivo” è ovviamente in primo
luogo se questa forma di - chiamiamola così - incentivazione sottobanco sia nel
lungo periodo sostenibile per il nostro “sistema Paese”: e la risposta non può
che essere negativa. Ma è anche un altro: il fatto cioè che questo enorme
gettito mancato si traduce inevitabilmente in esternalità negative fortemente
percepite (e a gran voce denunciate) dalle stesse imprese: servizi pubblici
inefficienti, inadeguata spesa per l’istruzione (siamo al 4,9% del PIL, contro
una media OCSE del 5,9%), un bassissimo tasso di laureati (pari a un terzo
rispetto a molti Paesi europei ed al Giappone, e a poco meno di un quarto
rispetto agli USA), carenze infrastrutturali croniche, ecc. ecc.
(Ai tre fattori ora citati andrebbero probabilmente aggiunte le
agevolazioni pubbliche. Al riguardo è necessaria una certa cautela, soprattutto
in assenza di un quadro comparato delle incentivazioni adottate dagli altri
Paesi dell’Unione Europea, dal Giappone e dagli USA. È però senz’altro
possibile quantomeno sfatare la ricorrente geremiade circa la “mancata
attenzione” dello Stato italiano nei confronti delle imprese. In effetti, se tale
“mancata attenzione” - come abbiamo visto sopra - è reale al momento della
riscossione delle imposte, non lo è affatto per quanto riguarda l’erogazione di
contributi pubblici. Un dato per tutti: sul totale delle imprese campionate per
l’indagine sull’industria manifatturiera sul triennio 1998-2000, risultano aver
fatto ricorso ad agevolazioni creditizie e fiscali il 38% delle imprese, con
una crescita in quasi tutte le classi dimensionali rispetto al triennio
precedente. )
4.4. L’innovazione, questa sconosciuta
Nel suo Capitalisti d’Italia, Ugo Bertone racconta con nostalgia
della mitica macchina da scrivere Lettera 22 della Olivetti, “disegnata da
Marcello Nizzoli, colorata in tinte pastello”. E aggiunge subito: “i profitti
di questi prodotti (la vera new economy del tempo) consentono di destinare 1500
lavoratori, il 10 per cento della forza lavoro, all’attività di ricerca e
sviluppo”.
Quando si parla di innovazione, si parla di questo: non di “colpi di
genio”, ma degli investimenti - talora ingentissimi - che sono necessari per la
ricerca e la creazione di nuovi prodotti e la messa a punto di nuovi processi
produttivi. Da questo punto di vista, il panorama italiano attuale è
decisamente sconfortante, e giustifica la nostalgia di Bertone. La spesa
complessiva in ricerca e sviluppo tecnologico, che era all’1,3% del prodotto
interno lordo nel 1990, dal 1995 è scesa all’1%. Si tratta di un dato grave e
preoccupante per tre ordini di motivi.
Il primo motivo attiene alla volontà, da parte del governo e del padronato
italiano, di mantenere gli impegni presi: basti ricordare che tra quanto
stabilito nel patto del luglio 1993 vi era nientemeno che il raddoppio della
quota di spese in ricerca e sviluppo tecnologico!
Il secondo motivo è che i Paesi capitalistici più avanzati si attestano su
grandezze molto lontane da queste cifre: gli USA nel 2001 erano al 2,8%, il
Giappone al 3%, il Regno Unito “appena” l’1,9%.
Il terzo motivo è nascosto dentro queste cifre, e riguarda la proporzione
tra spesa pubblica e spesa privata. Come ha dimostrato Riccardo Faini, a
differenza di quanto generalmente si pensa, la spesa pubblica italiana in
R&S non è sostanzialmente inferiore a quella degli altri Paesi
industrialmente avanzati: infatti “la spesa del settore pubblico, incluse le
università, è pari in Italia allo 0,55 per cento del Pil, negli Stati Uniti
allo 0,56 per cento e nel Regno Unito allo 0,61 per cento. Germania e Francia
si collocano su livelli un poco più alti, 0,75 per cento e 0,78 per cento”.
Conclusione: “il divario di spesa in R&S fra l’Italia e gli altri Paesi
industrializzati non può quindi, se non in minima parte, essere attribuito al
settore pubblico”. È invece “il settore privato, in particolare quello
manifatturiero, il vero responsabile della scarsa propensione a investire in
R&S. Una volta tanto, le cifre sono eloquenti. In proporzione del valore
aggiunto manifatturiero, l’Italia spende solo il 2 per cento in R&S,
quattro volte meno di Stati Uniti e Giappone e tre volte meno di Francia,
Germania e Regno Unito”.
A questo punto è lecito chiedersi da cosa nasca questa bassa propensione
dei nostri imprenditori a investire nel proprio futuro: la risposta di Faini
(tratta, abbastanza ironicamente, da uno studio della Confindustria) è che “le
nostre imprese non investono in R&S perché sono troppo piccole e
soprattutto perché operano in settori a basso contenuto tecnologico”.
Il nesso tra la dimensione delle imprese e la scarsa innovazione è posto in
luce anche da De Cecco, il quale afferma che “la ridotta dimensione obbliga le
imprese ad affollarsi in settori a bassa intensità innovativa, e la bassa
intensità innovativa induce la limitata crescita della produttività.” Non si
tratta di opinioni campate per aria: l’indagine sulle imprese manifatturiere
già più volte citata pone in luce come negli ultimi anni il numero delle
piccole e medie imprese che hanno fatto innovazioni di prodotto e di processo
sia diminuito, mentre è aumentato il numero di imprese sopra i 250
addetti (medio-grandi e grandi) che hanno realizzato tale tipo di attività
innovativa. Alla luce di questi dati, appare quindi pienamente condivisibile
l’affermazione del governatore della Banca d’Italia secondo cui “il modesto
sviluppo della produttività è da riconnettere, in misura non secondaria, alla
frammentazione del nostro tessuto produttivo”, ed anche la conclusione che
ne trae: “una nuova fase di sviluppo richiede un riassetto dell’apparato
produttivo e un aumento della dimensione delle imprese.”
5. Conclusioni: al capolinea?
Che conclusioni trarre da quanto abbiamo visto? Certamente, è difficile
esprimere giudizi improntati all’ottimismo. E si può capire anche il de
profundis intonato da De Cecco sull’“Italia dei piccoli”: “è probabile che
si concluda assai malinconicamente la fase dello sviluppo dal basso che ha
sostituito quella dello sviluppo dall’alto nella vicenda storica del
capitalismo italiano. Quel che tanti economisti, storici, politologi, sociologi
non solo italiani hanno visto come una fortunata ’terza via’ va infatti
rivelandosi per quello che alcuni hanno sempre saputo e detto in questi anni:
un binario morto, magari più lungo del temuto, ma il cui termine sembra, nella
impossibilità attuale e futura di svalutare nei confronti delle altre monete
europee e di tenere il settore finanziario sigillato alla concorrenza
straniera, ormai vicino”. Ma De Cecco non si limita a queste osservazioni, ed
aggiunge alcune notazioni decisamente interessanti sulle strade che “saranno in
tutta probabilità tentate” per tenere comunque in piedi una baracca sempre più
traballante: ulteriore riduzione della tassazione delle imprese, attacco allo
stato sociale, e infine la “soluzione più importante”, quella di “tenere bassi
i salari”.
Come è evidente, non si tratta di previsioni astratte, ma di descrizioni
concrete di quanto sta accadendo. Infatti questa, e non altra, è la
“politica industriale” del governo Berlusconi: abbattere le tasse per le
imprese (premiando evasori e “pirati della lira”), distruggere lo stato sociale
privatizzandolo di fatto e di diritto, comprimere i salari (inclusi quelli
differiti, ossia tfr e pensioni). Per quanto riguarda in particolare l’attacco
al salario, osservando che si tratta di una realtà già in atto, De Cecco nota:
“ora che i cambi sono fissi e ancor più a partire dal primo gennaio 2002, è
possibile vedere che i salari italiani sono a livello assoluto assai inferiori
di quelli francesi e specialmente tedeschi”. [19]
Si può aggiungere che questa affermazione è stata confermata e superata dai
fatti: una ricerca pubblicata dalla banca svizzera UBS nel gennaio 2004 ha infatti
mostrato che il potere d’acquisto delle buste paga italiane si colloca
invariabilmente agli ultimi posti delle classifiche della zona euro, seguita
soltanto dal Portogallo e (in qualche caso) dalla Grecia.
Verrebbe da chiedersi se è tutto qui, il “miracolo italiano” di Berlusconi
& Soci. In verità, c’è ben poco da aggiungere, se non ricordare la farsa
del protezionismo “alla Tremonti” - con tanto di denuncia isterica del
“pericolo giallo”. Intendiamoci: il fatto stesso che risorgano queste tentazioni
è la migliore denuncia della gravità della situazione in cui versa un sistema
industriale che, dopo essersi impiccato a settori nei quali domina l’effetto
prezzo, ha scoperto (con stupefacente stupore) che al mondo c’è qualcuno che su
prodotti maturi riesce a praticare prezzi ancora più bassi dei suoi. E poche
cose esprimono la triste parabola del “made in Italy” come la raffica di
articoli di contenuto sostanzialmente protezionistico sfornati in pochi mesi da
uno dei suoi più appassionati esegeti.
Il punto però è che il protezionismo anticinese non rappresenta soltanto un
rimedio peggiore del male, ma anche una strada concretamente impossibile a
praticarsi, visto che ormai da decenni nessuno Stato dell’odierna Unione
Europea può decidere da solo la politica commerciale nei confronti di un paese
terzo.
Né va dimenticato che altri Paesi europei, dotati di classi dominanti più
lungimiranti delle nostre (e forti di specializzazioni produttive più
avanzate), vedono nella Cina principalmente una grande riserva di domanda
mondiale, anziché un pericolo dal lato dell’offerta di beni.
E allora viene il sospetto che agitare demagogicamente questo tema (così
come del resto l’“affaire Parmalat”) sia nulla più che un ennesimo
tentativo di distrarre l’opinione pubblica e i lavoratori dalle cose
importanti. Cioè dai disastri di questo governo, dal fatto che invece del
“miracolo” promesso sta prendendo forma una vera e propria catastrofe
industriale e sociale, e - soprattutto - dal fatto che il conto di tutto
questo, ancora una volta, si tenta di farlo pagare ai lavoratori.
A questo riguardo la partita è ancora aperta. Ma almeno due punti fermi
possiamo fissarli. Il primo: se c’è una cosa che la “favola senza lieto fine”
delle PMI ci ha insegnato, è proprio il fatto che la compressione dei salari,
la “flessibilità del lavoro” come ricetta universale, non solo non hanno
giovato all’economia italiana, ma hanno contribuito a spingerla nel vicolo
cieco di un modello competitivo perdente (scoraggiando l’innovazione, la
conquista di posizioni nei settori di avanguardia, ecc.). Il secondo: poche
cose sono certe come il fatto che in tutti questi anni il coperchio sulla
pentola dei salari è stato tenuto fin troppo premuto.
Alla luce di quanto si è provato ad argomentare in queste pagine, si può
affermare che oggi è importante, anzi essenziale, che quel coperchio salti. È
certamente essenziale per i lavoratori. Ma è essenziale anche al fine di
evitare l’ulteriore degrado del sistema industriale e produttivo del nostro
Paese.
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