Una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione verrà realizzata la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale municipalismo
- Antonio Gramsci, 1931
I principali argomenti utilizzati dai sostenitori della fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea sono schematicamente riconducibili a questi: il recupero della sovranità monetaria consentirebbe un percorso di crescita guidato dalle esportazioni, attuato mediante il tradizionale strumento della svalutazione del tasso di cambio; l’abbandono dell’euro si assocerebbe all’attuazione di politiche fiscali espansive consentendo misure di ridistribuzione del reddito, attualmente impossibili per i vincoli imposti dall’austerità. Si tratta di argomenti che reggono implicitamente su due ipotesi. In primo luogo, occorre assumere che la sequenza di eventi che si immagina sia, per così dire, automatica, ovvero che l’abbandono della moneta unica implichi l’attuazione di politiche fiscali espansive. In secondo luogo, occorre ipotizzare che l’unione monetaria in quanto tale implichi, per necessità logica, l’attuazione di politiche di austerità
I principali argomenti utilizzati dai sostenitori della fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea sono schematicamente riconducibili a questi: il recupero della sovranità monetaria consentirebbe un percorso di crescita guidato dalle esportazioni, attuato mediante il tradizionale strumento della svalutazione del tasso di cambio; l’abbandono dell’euro si assocerebbe all’attuazione di politiche fiscali espansive consentendo misure di ridistribuzione del reddito, attualmente impossibili per i vincoli imposti dall’austerità. Si tratta di argomenti che reggono implicitamente su due ipotesi. In primo luogo, occorre assumere che la sequenza di eventi che si immagina sia, per così dire, automatica, ovvero che l’abbandono della moneta unica implichi l’attuazione di politiche fiscali espansive. In secondo luogo, occorre ipotizzare che l’unione monetaria in quanto tale implichi, per necessità logica, l’attuazione di politiche di austerità
[1].
In linea generale, si può osservare che il ritorno all’Europa delle piccole patrie monetarie è una opzione del tutto irrealistica. In Europa la piena sovranità monetaria nazionale è un concetto vago fin dagli anni Cinquanta, quando con lo sviluppo del mercato dell’eurodollaro si era creato un mercato monetario parallelo a quello ufficiale svincolato da qualsiasi controllo politico. E per forza di cose lo sarebbe ancora di più adesso[2].
Riguardo alla svalutazione del tasso di cambio è lecito dubitare di fronte all’esperienza storica, soprattutto del nostro paese, che possa essere uno strumento efficace, in un regime di cambi flessibili generalizzato come quello che seguirebbe la disintegrazione dell’euro. Innanzitutto perché i vantaggi sarebbero subito annullati da eguali reazioni di concorrenti che imiterebbero la manovra di svalutazione, in secondo luogo perché la sola competitività di prezzo potrebbe avere effetti assai modesti sulla nostra bilancia commerciale (http://gennaro.zezza.it/?lang=it), e infine per gli effetti inflazionistici, derivanti dall’aumento dei prezzi dei beni importati, con conseguente riduzione dei salari reali, così che l’abbandono dell’euro potrebbe avere effetti di segno negativo sulla distribuzione del reddito, a meno di non (re)introdurre meccanismi di indicizzazione dei salari nominali ai prezzi.
In più, la svalutazione non ha (come non ha avuto, negli anni nei quali è stata realizzata) effetti uniformi su scala nazionale, dal momento che reca vantaggi alle aree nelle quali sono localizzate le imprese esportatrici, potendo accentuare i divari regionali. E ancora, e soprattutto, la politica delle svalutazioni competitive consente (e ha consentito) alle imprese italiane di competere riducendo i costi, disincentivando, per questa via, le innovazioni[3].
In merito alla possibilità di attuare politiche fiscali espansive in regime di piena sovranità monetaria, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un duplice equivoco. Il primo: la recessione italiana dipende dai vincoli imposti dall’Unione Monetaria Europea e dalle politiche di austerità imposte dalla Germania. Secondo: nel caso di uscita unilaterale dell’Italia dall’UME, vi sarebbero le condizioni politiche per l’attuazione di queste politiche fiscali espansive.
Il primo equivoco nasce dal fatto che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra economia[4]. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. E, d’altra parte, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno accettato i vincoli europei senza minima opposizione, talvolta con favore: l’esperienza del Governo Monti, in tal senso, è emblematica. Il secondo equivoco nasce da un’interpretazione – fuorviante – del funzionamento della politica economica basata su (presunti) automatismi, per la quale l’”exit” porterebbe pressoché automaticamente a una radicale revisione delle politiche economiche in Italia.
E’ ovvio, per contro, che nulla assicura che ciò accada, peraltro in uno scenario del tutto imprevedibile, e cioè che nulla assicura che l’abbandono della moneta unica si associ a scelte di politica economica che vadano in direzione contraria a quelle ora dominanti. O che – come auspicato da molti “no-euro” – che vadano nella direzione di politiche “di sinistra”. E’ sufficiente verificare la collocazione politica dei movimenti anti-euro, come il nuovo partito tedesco di Alternative für Deutschland, sostenitore di politiche neoliberiste, o l’anti-europeismo estremo delle forze di destra più eversive come il Front National, la Lega Nord e Alba Dorata.
D’altra parte, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro[5].
Con ogni evidenza, gli scenari economici e politici che si produrrebbero in caso di un ritorno alla Lira sono del tutto imprevedibili, e lo studio di ciò che è accaduto in casi passati di break-up di unioni monetarie può aiutare, ma ovviamente non è dirimente, se non altro perché i casi di unioni monetarie sono stati molto rari e con proprie specificità, ed è dunque pressoché impossibile rinvenire regolarità storiche[6]. Neppure aiuta calcolare i costi associati alla permanenza dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea, giacché questa operazione risulta legittima solo se di identifica l’adozione della moneta comune con l’attuazione di politiche di austerità: il che, tuttavia, va dimostrato[7].
E, tuttavia, è possibile proporre alcune congetture sugli eventuali effetti redistributivi derivanti da questa scelta. Partiamo da un dato. I tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, a fronte dei circa 150 punti base della prima metà del 2014. Anche i sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro riconoscono che il ritorno alla Lira genererebbe un forte aumento dei tassi di interesse. Il che – a parità di altre condizioni – accrescerebbe il debito pubblico, avendo come conseguenza, nell’impossibilità di monetizzarlo (a meno di non immaginare un nuovo “matrimonio” fra Tesoro e Banca d’Italia), un ulteriore aumento della pressione fiscale. E poiché (anche in questo caso) non vi è alcun automatismo che stabilisca che l’uscita dall’euro segni un plebiscito per forze politiche con un indirizzo di policy fortemente redistributivo, non vi è alcun automatismo che ci consente di dedurre che l’accresciuto carico fiscale vada a gravare sulle fasce di reddito più alte. Potrebbe, per contro, accadere il contrario, ovvero che l’abbandono dell’euro peggiori ulteriormente la distribuzione del reddito.
NOTE [1] Si tratta anche di argomenti che fanno riferimento alla “crisi dell’UME” ignorando del tutto il fatto che questa “crisi” si inscrive nell’ambito di una più generale trasformazione capitalistica, sinteticamente riferibile ai processi di ‘globalizzazione’ e di ‘finanziarizzazione’. Sul tema, si rinvia a R. Bellofiore, ‘Two or three things I know about her’: Europe in the global crisis and heterodox economics, “Cambridge Journal of Economics”, 2013, vol. 37, n. 3, pp. 497-512.
[2] Per gli amanti delle analogie storiche, si può notare che, nella prospettiva dell’abbandono dell’euro, il destino dell’Unione Europea potrebbe essere molto simile a quello che caratterizzò la vicenda del Sacro Romano Impero: una entità universalistica retta da una ristretta élite dinastica a cui si contrapponeva una miriade di potentati locali chiusi a difesa dei propri interessi. Universalismo e particolarismo convivevano quindi nello stesso corpo istituzionale. In tal senso, la posta in gioco è sostanzialmente questa: evitare che l’Europa diventi il nuovo Sacro Romano Impero e, nello stesso tempo, evitare che l’Europa di disintegri nella ripresa dei nazionalismi.
[3] V. A.Graziani, L’economia italiana dal ’45 a oggi, Il Mulino, Bologna, 2000.
[4] Come scriveva Augusto Graziani: “Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale”. A.Graziani, La moneta al governo, “La Rivista del Manifesto”, luglio-agosto 2002.
[5] Va richiamata, a riguardo, la ben nota tesi di George Soros, per la quale l’Europa starebbe meglio se la Germania abbandonasse l’euro, e la Germania stessa ne trarrebbe notevoli benefici.
[6] Peraltro, come è stato rilevato: “Gli esempi storici ci permettono di concludere che l’integrazione monetaria, che comporta totale perdita di sovranità monetaria, una volta stabilita difficilmente viene messa in discussione da singoli stati aderenti, in quanto il mutamento è percepito come un salto nel buio, i cui costi sono considerati estremamente superiori ai benefici. La psicologia collettiva nei confronti delle questioni monetarie è dominata dall’inerzia”. R. Patalano, Una ‘escape clause’ per la zona euro, Micromega on-line, 8.12.2013.
[7] Sui nessi esistenti fra i vincoli derivanti dall’adozione della moneta unica (in primis, l’obiettivo della stabilità dei prezzi e la conseguente “scarsità di moneta” esogenamente determinata) e gli orientamenti delle politiche fiscali si rinvia a A.Parguez, The expected failure of the European economic and monetary union, “Eastern Economic Journal”, vol.25, n.1., Winter 1999, pp.63-76.
In linea generale, si può osservare che il ritorno all’Europa delle piccole patrie monetarie è una opzione del tutto irrealistica. In Europa la piena sovranità monetaria nazionale è un concetto vago fin dagli anni Cinquanta, quando con lo sviluppo del mercato dell’eurodollaro si era creato un mercato monetario parallelo a quello ufficiale svincolato da qualsiasi controllo politico. E per forza di cose lo sarebbe ancora di più adesso[2].
Riguardo alla svalutazione del tasso di cambio è lecito dubitare di fronte all’esperienza storica, soprattutto del nostro paese, che possa essere uno strumento efficace, in un regime di cambi flessibili generalizzato come quello che seguirebbe la disintegrazione dell’euro. Innanzitutto perché i vantaggi sarebbero subito annullati da eguali reazioni di concorrenti che imiterebbero la manovra di svalutazione, in secondo luogo perché la sola competitività di prezzo potrebbe avere effetti assai modesti sulla nostra bilancia commerciale (http://gennaro.zezza.it/?lang=it), e infine per gli effetti inflazionistici, derivanti dall’aumento dei prezzi dei beni importati, con conseguente riduzione dei salari reali, così che l’abbandono dell’euro potrebbe avere effetti di segno negativo sulla distribuzione del reddito, a meno di non (re)introdurre meccanismi di indicizzazione dei salari nominali ai prezzi.
In più, la svalutazione non ha (come non ha avuto, negli anni nei quali è stata realizzata) effetti uniformi su scala nazionale, dal momento che reca vantaggi alle aree nelle quali sono localizzate le imprese esportatrici, potendo accentuare i divari regionali. E ancora, e soprattutto, la politica delle svalutazioni competitive consente (e ha consentito) alle imprese italiane di competere riducendo i costi, disincentivando, per questa via, le innovazioni[3].
In merito alla possibilità di attuare politiche fiscali espansive in regime di piena sovranità monetaria, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un duplice equivoco. Il primo: la recessione italiana dipende dai vincoli imposti dall’Unione Monetaria Europea e dalle politiche di austerità imposte dalla Germania. Secondo: nel caso di uscita unilaterale dell’Italia dall’UME, vi sarebbero le condizioni politiche per l’attuazione di queste politiche fiscali espansive.
Il primo equivoco nasce dal fatto che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra economia[4]. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. E, d’altra parte, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno accettato i vincoli europei senza minima opposizione, talvolta con favore: l’esperienza del Governo Monti, in tal senso, è emblematica. Il secondo equivoco nasce da un’interpretazione – fuorviante – del funzionamento della politica economica basata su (presunti) automatismi, per la quale l’”exit” porterebbe pressoché automaticamente a una radicale revisione delle politiche economiche in Italia.
E’ ovvio, per contro, che nulla assicura che ciò accada, peraltro in uno scenario del tutto imprevedibile, e cioè che nulla assicura che l’abbandono della moneta unica si associ a scelte di politica economica che vadano in direzione contraria a quelle ora dominanti. O che – come auspicato da molti “no-euro” – che vadano nella direzione di politiche “di sinistra”. E’ sufficiente verificare la collocazione politica dei movimenti anti-euro, come il nuovo partito tedesco di Alternative für Deutschland, sostenitore di politiche neoliberiste, o l’anti-europeismo estremo delle forze di destra più eversive come il Front National, la Lega Nord e Alba Dorata.
D’altra parte, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro[5].
Con ogni evidenza, gli scenari economici e politici che si produrrebbero in caso di un ritorno alla Lira sono del tutto imprevedibili, e lo studio di ciò che è accaduto in casi passati di break-up di unioni monetarie può aiutare, ma ovviamente non è dirimente, se non altro perché i casi di unioni monetarie sono stati molto rari e con proprie specificità, ed è dunque pressoché impossibile rinvenire regolarità storiche[6]. Neppure aiuta calcolare i costi associati alla permanenza dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea, giacché questa operazione risulta legittima solo se di identifica l’adozione della moneta comune con l’attuazione di politiche di austerità: il che, tuttavia, va dimostrato[7].
E, tuttavia, è possibile proporre alcune congetture sugli eventuali effetti redistributivi derivanti da questa scelta. Partiamo da un dato. I tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, a fronte dei circa 150 punti base della prima metà del 2014. Anche i sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro riconoscono che il ritorno alla Lira genererebbe un forte aumento dei tassi di interesse. Il che – a parità di altre condizioni – accrescerebbe il debito pubblico, avendo come conseguenza, nell’impossibilità di monetizzarlo (a meno di non immaginare un nuovo “matrimonio” fra Tesoro e Banca d’Italia), un ulteriore aumento della pressione fiscale. E poiché (anche in questo caso) non vi è alcun automatismo che stabilisca che l’uscita dall’euro segni un plebiscito per forze politiche con un indirizzo di policy fortemente redistributivo, non vi è alcun automatismo che ci consente di dedurre che l’accresciuto carico fiscale vada a gravare sulle fasce di reddito più alte. Potrebbe, per contro, accadere il contrario, ovvero che l’abbandono dell’euro peggiori ulteriormente la distribuzione del reddito.
NOTE [1] Si tratta anche di argomenti che fanno riferimento alla “crisi dell’UME” ignorando del tutto il fatto che questa “crisi” si inscrive nell’ambito di una più generale trasformazione capitalistica, sinteticamente riferibile ai processi di ‘globalizzazione’ e di ‘finanziarizzazione’. Sul tema, si rinvia a R. Bellofiore, ‘Two or three things I know about her’: Europe in the global crisis and heterodox economics, “Cambridge Journal of Economics”, 2013, vol. 37, n. 3, pp. 497-512.
[2] Per gli amanti delle analogie storiche, si può notare che, nella prospettiva dell’abbandono dell’euro, il destino dell’Unione Europea potrebbe essere molto simile a quello che caratterizzò la vicenda del Sacro Romano Impero: una entità universalistica retta da una ristretta élite dinastica a cui si contrapponeva una miriade di potentati locali chiusi a difesa dei propri interessi. Universalismo e particolarismo convivevano quindi nello stesso corpo istituzionale. In tal senso, la posta in gioco è sostanzialmente questa: evitare che l’Europa diventi il nuovo Sacro Romano Impero e, nello stesso tempo, evitare che l’Europa di disintegri nella ripresa dei nazionalismi.
[3] V. A.Graziani, L’economia italiana dal ’45 a oggi, Il Mulino, Bologna, 2000.
[4] Come scriveva Augusto Graziani: “Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale”. A.Graziani, La moneta al governo, “La Rivista del Manifesto”, luglio-agosto 2002.
[5] Va richiamata, a riguardo, la ben nota tesi di George Soros, per la quale l’Europa starebbe meglio se la Germania abbandonasse l’euro, e la Germania stessa ne trarrebbe notevoli benefici.
[6] Peraltro, come è stato rilevato: “Gli esempi storici ci permettono di concludere che l’integrazione monetaria, che comporta totale perdita di sovranità monetaria, una volta stabilita difficilmente viene messa in discussione da singoli stati aderenti, in quanto il mutamento è percepito come un salto nel buio, i cui costi sono considerati estremamente superiori ai benefici. La psicologia collettiva nei confronti delle questioni monetarie è dominata dall’inerzia”. R. Patalano, Una ‘escape clause’ per la zona euro, Micromega on-line, 8.12.2013.
[7] Sui nessi esistenti fra i vincoli derivanti dall’adozione della moneta unica (in primis, l’obiettivo della stabilità dei prezzi e la conseguente “scarsità di moneta” esogenamente determinata) e gli orientamenti delle politiche fiscali si rinvia a A.Parguez, The expected failure of the European economic and monetary union, “Eastern Economic Journal”, vol.25, n.1., Winter 1999, pp.63-76.
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