Questa volta, ed è già un elemento di sensibile novità, una valutazione
sugli esiti del voto richiederebbe tempi e percorsi più meditati. Non è
un caso che tutti i sondaggi abbiano fallito e di molto le previsioni,
particolarmente in Italia, ma non solo. Un segnale del fatto che i
tradizionali sensori fin qui usati non sono stati in grado di cogliere i
sommovimenti in atto. Né si può francamente credere che tutti i
cambiamenti siano maturati solo negli ultimi giorni, con il cosiddetto
voto last minute.
Le ragioni di questa complessità sono diverse. Anzitutto si tratta di valutare il significato del voto sul terreno europeo. Tanto più che per la prima volta da quando si vota per nominare il parlamento di Strasburgo, cioè dal 1979 in poi, non si è avuto un calo dei partecipanti, attestatisi sul 43%, media che differisce di un solo decimale rispetto a cinque anni fa. L’altra ragione deriva dal risultato eccezionale verificatosi nel caso italiano, dove il calo dei votanti è stato invece marcato, il 7.7% in meno rispetto al 2009, che solo un’analisi puntuale dei flussi elettorali può permettere di esaminare in profondità. Infine in Italia si è votato anche per il rinnovo di importanti consigli regionali e comunali, sulla base di una offerta politica che non corrispondeva in tutto e per tutto a quella presente nelle elezioni europee.
Ma fatte queste necessarie premesse, si possono evidenziare alcune tendenze in atto nell’elettorato europeo e italiano.
Per quanto riguarda il primo, l’esito del voto non conferma la temuta ondata degli antieuropeisti. Senza dubbio la destra si rafforza. Il risultato senza precedenti del partito di Martine Le Pen sta lì a dimostrarlo, come pure l’avanzata dell’Ukip di Nigel Farage in Inghilterra, cui vanno aggiunte formazioni minori di chiara marca fascista, razzista e persino neonazista. Ma l’insieme di queste tendenze non è tale di rimettere in discussione l’Europa in quanto tale.
Certamente, proprio in virtù del voto francese viene meno il duopolio Francia-Germania su cui si è basata l’intera costruzione della Ue da Maastricht in poi. La Merkel non subisce tracolli in patria, ma appare più sola nel contesto europeo. Allo stesso tempo l’esito del voto tedesco spinge verso la prospettiva delle larghe intese in quel di Berlino, con buona pace di chi riponeva nel socialdemocratico Schulz speranze per una politica diversa in patria e in Europa.
Ha solo parzialmente ragione Ulrich Beck quando sostiene che la politica dell’austerità è stata messa seriamente in discussione in queste elezioni, ma che ne esca totalmente sconfitta è una esagerazione che non corrisponde purtroppo ancora alla realtà. Un ripensamento non si vede. Quindi quella politica verrà riproposta dalla Germania, soprattutto nei termini della cosiddetta “precarietà espansiva”, ovvero dalla richiesta, cui il governo di Renzi si è subito piegato con il decreto Poletti, di una totale liberalizzazione nei rapporti di lavoro. Nello stesso tempo le nuove decisioni attese per i primi di giugno da parte della Bce, quali una nuova discesa dei tassi e l’introduzione dei tassi negativi per i capitali posteggiati presso la banca centrale, daranno forse qualche fiato a un’economia altrimenti condannata alla deflazione e alla recessione. Ma non serviranno per risolvere il problema principale: la crescente disoccupazione, in particolare giovanile, che affligge il vecchio continente.
Quello che invece è vero è che, anche nel parlamento europeo, si è rafforzata l’area di un europeismo critico, di chi vuole un’Europa unita e solidale e per questo è contro le attuali politiche e i trattati che le implementano, a cominciare dal fiscal compact. L’incremento degli eletti che con Tsipras siederanno nel gruppo Gue, e soprattutto il primato di Syriza in Grecia, sono lì a dimostrarlo.
Per quanto riguarda il nostro paese il dato più rilevante è rappresentato dal successo del Pd e dalla contemporanea sconfitta di Grillo. Dato confermato nelle elezioni amministrative. Questo elemento non era stato previsto da alcuno in tali proporzioni. Da qui la grande sorpresa.
La tradizionale tendenza a non premiare i partiti al governo - specialmente quando la posta in gioco non è immediatamente la continuità o la rottura della coalizione governante - da noi si è risolta nell’esatto contrario. Malgrado che delle riforme promesse non se ne sia vista una; che il decreto Poletti condanni i giovani a una vita di precariato e contraddica persino le norme della Ue; che la riforma elettorale concordata con Berlusconi nel patto segreto del Nazareno, l’Italicum, faccia persino rimpiangere la famosa “legge truffa” del ’53, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi effettivamente se la fosse conquistata sul campo; malgrado che Renzi abbia sparso solo promesse delle quali non vi è un solo riscontro se non in negativo; malgrado tutto questo il suo partito viene premiato con un balzo di oltre il 29% rispetto al 2013 e con una più equilibrata distribuzione geografica dei consensi.
Il grosso di questi voti proviene dall’assorbimento dell’elettorato di Scelta civica di Monti e dal Movimento5stelle, ma molti provengono anche dall’area dell’ex PdL e dagli altri partiti del centrosinistra. Il Pd, qui è la chiave del suo successo, si dimostra un partito piglia-tutto, come scrivevano i sociologi anni addietro, capace di cannibalizzare voti in più strati sociali e da più parti politiche, sulla base di una posizione politica del tutto moderata, sostanzialmente in linea con quella delle attuali elites europee e che con la sinistra non ha più nulla da spartire, non solo nel nome ma nella sostanza. Una linea socialiberista, liberista nella sostanza, temperata con qualche sensibilità (vedi gli 80 euro in busta paga, anche se in realtà sono meno e pagati con una cara spending review). Un partito-governo, che trae vantaggio dalla sua identificazione con il mito e la pratica della governabilità.
Il M5Stelle ha perduto soprattutto nei confronti dell’astensione. Dei tre milioni di voti che l’hanno abbandonato più di 2 e mezzo hanno incrementato le file del non voto. Ma il suo svenamento nei confronti del Pd è stato anch’esso notevole. Grillo perde nei confronti dell’interclassismo renziano e delle sue logiche di potere e allo stesso tempo non rappresenta a sufficienza la rabbia e l’antistituzionalismo crescenti nel nostro paese, quali reazione ad una crisi che oltre che economica è di valori e di civiltà.
Chi aveva puntano sull’esistenza di un neobipolarismo, incentrato sul duopolio Renzi-Grillo, come ad esempio Lucia Annunziata o Ilvo Diamanti, per fare degli esempi noti, è rimasto deluso. Verrebbe da dire che dal bipartitismo imperfetto di cui parlava lo storico Giorgio Galli, basato sul duopolio Dc-Pci (con la conventio ad excludendum di quest’ultimo) si stia passando a un monopartitismo imperfetto, fondato sul Pd e su un sistema di partiti il maggiore dei quali non raggiunge che la metà dei suoi voti.
In questo quadro è evidente che l’espressione stessa centrosinistra, con o senza trattino, ha perso ogni significato. Almeno per quanto riguarda il governo nazionale. La centralità del Pd sarebbe troppo schiacciante in tutti i casi. Veltroni non ha torto di gongolare, anche se il partito a vocazione maggioritaria che lui aveva pensato, mandando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e riaprendo la strada a Berlusconi, si realizza sotto un’altra stella.
Per questo è molto elevata la responsabilità che si carica su quel 4,03% che ha permesso alla lista Tsipras di scavallare un quorum assurdamente imposto nelle elezioni europee – in Germania la Corte Costituzionale lo ha cancellato - dalla modifica legislativa intervenuta a ridosso della precedente tornata elettorale del 2009. Questa affermazione fatta di 1.103.203 persone ha invertito la tendenza alla sconfitta, manifestatasi impietosamente nelle precedenti esperienze di Sinistra Arcobaleno e di Rivoluzione Civile. Nello stesso tempo è vero che il numero di voti conquistati non fa la somma delle organizzazioni che hanno dato il loro appoggio alla lista. Ma questo segnala per l’appunto la perdita di consensi di questi micro partiti e invece la scelta vincente di dare vita a una lista di cittadinanza, sostenuta da comitati territoriali.
Interrompere questa esperienza sarebbe un suicidio. Lo sarebbe anche per la democrazia italiana che vedrebbe ulteriormente ristretta le possibilità di espressione e rappresentanza politica, aprendo a nuove derive neoautoritarie. Se c’è una speranza che la sinistra di alternativa faccia in Italia passi in avanti come sta avvenendo nel resto dell’Europa, Grecia in primis, questa risiede tutta nel fatto che il voto del 25 maggio abbia la forza di aprire una vera fase costituente, sorretta da un’adeguata produzione culturale e da una prassi conseguente nei movimenti, non ristretta all’esistente o a circoli intellettuali. Tutte e tutti vi possono e vi devono concorrere, senza abiure e scioglimenti formali, ma con quello spirito aperto e umile di chi cerca assieme strade nuove.
Le ragioni di questa complessità sono diverse. Anzitutto si tratta di valutare il significato del voto sul terreno europeo. Tanto più che per la prima volta da quando si vota per nominare il parlamento di Strasburgo, cioè dal 1979 in poi, non si è avuto un calo dei partecipanti, attestatisi sul 43%, media che differisce di un solo decimale rispetto a cinque anni fa. L’altra ragione deriva dal risultato eccezionale verificatosi nel caso italiano, dove il calo dei votanti è stato invece marcato, il 7.7% in meno rispetto al 2009, che solo un’analisi puntuale dei flussi elettorali può permettere di esaminare in profondità. Infine in Italia si è votato anche per il rinnovo di importanti consigli regionali e comunali, sulla base di una offerta politica che non corrispondeva in tutto e per tutto a quella presente nelle elezioni europee.
Ma fatte queste necessarie premesse, si possono evidenziare alcune tendenze in atto nell’elettorato europeo e italiano.
Per quanto riguarda il primo, l’esito del voto non conferma la temuta ondata degli antieuropeisti. Senza dubbio la destra si rafforza. Il risultato senza precedenti del partito di Martine Le Pen sta lì a dimostrarlo, come pure l’avanzata dell’Ukip di Nigel Farage in Inghilterra, cui vanno aggiunte formazioni minori di chiara marca fascista, razzista e persino neonazista. Ma l’insieme di queste tendenze non è tale di rimettere in discussione l’Europa in quanto tale.
Certamente, proprio in virtù del voto francese viene meno il duopolio Francia-Germania su cui si è basata l’intera costruzione della Ue da Maastricht in poi. La Merkel non subisce tracolli in patria, ma appare più sola nel contesto europeo. Allo stesso tempo l’esito del voto tedesco spinge verso la prospettiva delle larghe intese in quel di Berlino, con buona pace di chi riponeva nel socialdemocratico Schulz speranze per una politica diversa in patria e in Europa.
Ha solo parzialmente ragione Ulrich Beck quando sostiene che la politica dell’austerità è stata messa seriamente in discussione in queste elezioni, ma che ne esca totalmente sconfitta è una esagerazione che non corrisponde purtroppo ancora alla realtà. Un ripensamento non si vede. Quindi quella politica verrà riproposta dalla Germania, soprattutto nei termini della cosiddetta “precarietà espansiva”, ovvero dalla richiesta, cui il governo di Renzi si è subito piegato con il decreto Poletti, di una totale liberalizzazione nei rapporti di lavoro. Nello stesso tempo le nuove decisioni attese per i primi di giugno da parte della Bce, quali una nuova discesa dei tassi e l’introduzione dei tassi negativi per i capitali posteggiati presso la banca centrale, daranno forse qualche fiato a un’economia altrimenti condannata alla deflazione e alla recessione. Ma non serviranno per risolvere il problema principale: la crescente disoccupazione, in particolare giovanile, che affligge il vecchio continente.
Quello che invece è vero è che, anche nel parlamento europeo, si è rafforzata l’area di un europeismo critico, di chi vuole un’Europa unita e solidale e per questo è contro le attuali politiche e i trattati che le implementano, a cominciare dal fiscal compact. L’incremento degli eletti che con Tsipras siederanno nel gruppo Gue, e soprattutto il primato di Syriza in Grecia, sono lì a dimostrarlo.
Per quanto riguarda il nostro paese il dato più rilevante è rappresentato dal successo del Pd e dalla contemporanea sconfitta di Grillo. Dato confermato nelle elezioni amministrative. Questo elemento non era stato previsto da alcuno in tali proporzioni. Da qui la grande sorpresa.
La tradizionale tendenza a non premiare i partiti al governo - specialmente quando la posta in gioco non è immediatamente la continuità o la rottura della coalizione governante - da noi si è risolta nell’esatto contrario. Malgrado che delle riforme promesse non se ne sia vista una; che il decreto Poletti condanni i giovani a una vita di precariato e contraddica persino le norme della Ue; che la riforma elettorale concordata con Berlusconi nel patto segreto del Nazareno, l’Italicum, faccia persino rimpiangere la famosa “legge truffa” del ’53, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi effettivamente se la fosse conquistata sul campo; malgrado che Renzi abbia sparso solo promesse delle quali non vi è un solo riscontro se non in negativo; malgrado tutto questo il suo partito viene premiato con un balzo di oltre il 29% rispetto al 2013 e con una più equilibrata distribuzione geografica dei consensi.
Il grosso di questi voti proviene dall’assorbimento dell’elettorato di Scelta civica di Monti e dal Movimento5stelle, ma molti provengono anche dall’area dell’ex PdL e dagli altri partiti del centrosinistra. Il Pd, qui è la chiave del suo successo, si dimostra un partito piglia-tutto, come scrivevano i sociologi anni addietro, capace di cannibalizzare voti in più strati sociali e da più parti politiche, sulla base di una posizione politica del tutto moderata, sostanzialmente in linea con quella delle attuali elites europee e che con la sinistra non ha più nulla da spartire, non solo nel nome ma nella sostanza. Una linea socialiberista, liberista nella sostanza, temperata con qualche sensibilità (vedi gli 80 euro in busta paga, anche se in realtà sono meno e pagati con una cara spending review). Un partito-governo, che trae vantaggio dalla sua identificazione con il mito e la pratica della governabilità.
Il M5Stelle ha perduto soprattutto nei confronti dell’astensione. Dei tre milioni di voti che l’hanno abbandonato più di 2 e mezzo hanno incrementato le file del non voto. Ma il suo svenamento nei confronti del Pd è stato anch’esso notevole. Grillo perde nei confronti dell’interclassismo renziano e delle sue logiche di potere e allo stesso tempo non rappresenta a sufficienza la rabbia e l’antistituzionalismo crescenti nel nostro paese, quali reazione ad una crisi che oltre che economica è di valori e di civiltà.
Chi aveva puntano sull’esistenza di un neobipolarismo, incentrato sul duopolio Renzi-Grillo, come ad esempio Lucia Annunziata o Ilvo Diamanti, per fare degli esempi noti, è rimasto deluso. Verrebbe da dire che dal bipartitismo imperfetto di cui parlava lo storico Giorgio Galli, basato sul duopolio Dc-Pci (con la conventio ad excludendum di quest’ultimo) si stia passando a un monopartitismo imperfetto, fondato sul Pd e su un sistema di partiti il maggiore dei quali non raggiunge che la metà dei suoi voti.
In questo quadro è evidente che l’espressione stessa centrosinistra, con o senza trattino, ha perso ogni significato. Almeno per quanto riguarda il governo nazionale. La centralità del Pd sarebbe troppo schiacciante in tutti i casi. Veltroni non ha torto di gongolare, anche se il partito a vocazione maggioritaria che lui aveva pensato, mandando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e riaprendo la strada a Berlusconi, si realizza sotto un’altra stella.
Per questo è molto elevata la responsabilità che si carica su quel 4,03% che ha permesso alla lista Tsipras di scavallare un quorum assurdamente imposto nelle elezioni europee – in Germania la Corte Costituzionale lo ha cancellato - dalla modifica legislativa intervenuta a ridosso della precedente tornata elettorale del 2009. Questa affermazione fatta di 1.103.203 persone ha invertito la tendenza alla sconfitta, manifestatasi impietosamente nelle precedenti esperienze di Sinistra Arcobaleno e di Rivoluzione Civile. Nello stesso tempo è vero che il numero di voti conquistati non fa la somma delle organizzazioni che hanno dato il loro appoggio alla lista. Ma questo segnala per l’appunto la perdita di consensi di questi micro partiti e invece la scelta vincente di dare vita a una lista di cittadinanza, sostenuta da comitati territoriali.
Interrompere questa esperienza sarebbe un suicidio. Lo sarebbe anche per la democrazia italiana che vedrebbe ulteriormente ristretta le possibilità di espressione e rappresentanza politica, aprendo a nuove derive neoautoritarie. Se c’è una speranza che la sinistra di alternativa faccia in Italia passi in avanti come sta avvenendo nel resto dell’Europa, Grecia in primis, questa risiede tutta nel fatto che il voto del 25 maggio abbia la forza di aprire una vera fase costituente, sorretta da un’adeguata produzione culturale e da una prassi conseguente nei movimenti, non ristretta all’esistente o a circoli intellettuali. Tutte e tutti vi possono e vi devono concorrere, senza abiure e scioglimenti formali, ma con quello spirito aperto e umile di chi cerca assieme strade nuove.
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