lunedì 12 maggio 2014

L’era Renzi di Alberto Burgio, Il Manifesto

imageParla sem­pre, quindi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ma l’ultima dichia­ra­zione di Renzi è una perla, sur­classa lo stesso Crozza. «Oggi mi pre­oc­cupa lo spread del popu­li­smo, tra ciò che si aspet­tano da noi i cit­ta­dini e ciò che vedono rea­liz­zato nella vita di tutti i giorni». Se le parole hanno una logica, è colpa dei cit­ta­dini sen­tirsi fru­strati per la man­cata rea­liz­za­zione delle pro­prie aspet­ta­tive. Per non essere «popu­li­sti» biso­gna godere nel venire delusi. Sagace. Soprat­tutto da parte di uno che di popu­li­smo se ne intende per davvero.
Com’è sagace la pronta rea­zione di Luciano Vio­lante al sov­ver­sivo pro­nun­cia­mento del tri­bu­nale di Vene­zia in merito alla soglia di sbar­ra­mento per le euro­pee. «È meglio che lo sbar­ra­mento rimanga». Natu­rale. Da vent’anni Vio­lante e i suoi simili van­da­liz­zano la Costi­tu­zione, ridu­cendo a un simu­la­cro quel par­la­mento che i Costi­tuenti con­si­de­ra­vano ful­cro della strut­tura demo­cra­tica. Dalle rovi­nose «riforme» isti­tu­zio­nali degli anni Novanta in poi lo sbar­ra­mento è lo stru­mento prin­cipe per mezzo del quale si è instau­rato l’oligopolio della rap­pre­sen­tanza, secondo il modello bipo­lare che nient’altro signi­fica se non la ridu­zione della poli­tica ad ammi­ni­stra­zione da parte di un grande cen­tro. Nel quale, escluso ogni con­fronto tra inte­ressi sociali con­flig­genti (e tra modelli alter­na­tivi di società), ci si distin­gue sol­tanto in base a pros­si­mità per­so­nali, appar­te­nenze e com­pe­ti­zioni tra inte­ressi omo­ge­nei.
Poi ci si stu­pi­sce della marea asten­sio­ni­stica, oltre che del «popu­li­smo». E si finge di allar­marsi. Da ultimo il pre­si­dente Napo­li­tano ha detto la sua, entrando ancora una volta a gamba tesa nella dia­let­tica poli­tica. Biso­gna fare a tutti i costi le «riforme», sennò lui non lascia il Qui­ri­nale, dove – è noto – è stato costretto a rima­nere. Quindi il 25 mag­gio non ci si può aste­nere, né si può espri­mere dis­senso nei con­fronti di que­sta mera­vi­gliosa Europa. Ma con ogni pro­ba­bi­lità la con­danna dell’astensionismo è una com­me­dia. Che quel 35 o 40% peri­co­losi «popu­li­sti» non votino è un bene, così non faranno pesare l’insoddisfazione di cui sono col­pe­voli. Dopo­di­ché, pas­sato il turno elet­to­rale, tutto tor­nerà nei binari. Si piaz­zerà, al posto di Tajani, il dere­litto Letta o il sem­pre­verde D’Alema. E potrà rico­min­ciare il benea­mato tran-tran.
Almeno si spera. Per­ché le cose potreb­bero non andare così, e pro­prio il feno­meno Renzi legit­tima qual­che dub­bio. Non è asso­dato che la quo­ti­diana aggres­sione alle regole, alle isti­tu­zioni, per­sino alla logica sia espres­sione di forza. Si dice: Renzi afferma il pri­mato della poli­tica. Così si legge l’urto con Pie­tro Grasso, pre­sunto rap­pre­sen­tante della «società civile» (anche se nello scon­tro sulle coper­ture dei fan­to­ma­tici 80 euro il pre­si­dente del Senato difende la dignità di un’istituzione della Repub­blica). Si dice anche: Renzi e Grillo sono figli di Ber­lu­sconi, incar­nano l’idea lea­de­ri­stica di «uomini soli al comando» che deci­dono tutto, all’occorrenza con­tro tutti.
Insomma, Renzi come un sim­bolo di corag­gio e volontà inde­fet­ti­bile. E di chia­rezza d’intenti in una grande visione. Ma c’è un’altra let­tura pos­si­bile. Quella soli­tu­dine del noc­chiero potrebbe non essere scelta, ma neces­si­tata. Potrebbe rispec­chiare la distanza ormai side­rale della poli­tica (e dello sciame di inte­ressi mala­vi­tosi che la attra­ver­sano) dalla realtà sociale del paese. E potrebbe essere l’espressione dell’attitudine, in senso pro­prio rea­zio­na­ria, di un sistema di potere che si bar­rica in se stesso per difen­dere i pro­pri pri­vi­legi. «Sbar­rando» appunto le vie d’accesso dall’esterno e rea­liz­zando la scis­sione tra rap­pre­sen­tati e rap­pre­sen­tanti. Un diva­rio a fronte del quale è sem­pre più com­pli­cato par­lare di democrazia.
Sba­glie­remo, ma non ci pare di respi­rare un bel clima in giro. Qua­lun­que sarà l’esito di que­ste ele­zioni (che potreb­bero riser­vare qual­che sor­presa) un ver­detto sem­bra già emesso. Scol­la­mento, crisi di fidu­cia, risen­ti­mento. Non sol­tanto in Ita­lia, ma qui con par­ti­co­lare evidenza.
Ovvia­mente il pre­si­dente della Repub­blica ha prov­ve­duto a tirare le orec­chie a chi dà voce a que­sti sen­ti­menti, pen­sando che il guaio con­si­sta nel rap­pre­sen­tarli, non nel fatto che essi dila­ghino. Dovrebbe chie­dersi piut­to­sto – ne ha il pre­ciso dovere – in che misura sen­ti­menti del genere siano fon­dati, e da dove sgor­ghino. E, data la sua sto­ria poli­tica, dovrebbe anche doman­darsi che cosa, per pre­ve­nirli, abbia fatto in que­sti anni, in Ita­lia e in Europa, la parte che avrebbe dovuto difen­dere il lavoro dipen­dente e l’occupazione, l’equità e il wel­fare, la scuola e l’università pub­bli­che. La parte che più di ogni altra avrebbe dovuto bat­tersi per lo svi­luppo eco­no­mico del paese, affer­mando le pre­ro­ga­tive del pub­blico in mate­ria di poli­tica eco­no­mica e indu­striale, con­tro la spe­cu­la­zione finan­zia­ria e l’arrembaggio dell’affarismo privato.
Invece no. Meglio col­pe­vo­liz­zare il mal­con­tento, tac­ciarlo di irre­spon­sa­bi­lità o di gufag­gine, come ama fare il ner­bo­ruto «capo del governo». Meglio lan­ciarsi in bat­tute o in ser­moni austeri. E magari pun­tare sulla ras­se­gna­zione col­let­tiva ripro­po­nen­dosi di avere mano libera. Può essere un cal­colo cor­retto, ma anche un errore. Sicu­ra­mente è un azzardo, per­ché una crisi gene­rale di fidu­cia può scap­pare di mano e dare luogo all’incendio per il quale in tanti già lavo­rano. Con o senza croci cel­ti­che sugli stendardi.

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