mercoledì 7 maggio 2014

Berlinguer: Il profeta inascoltato della questione morale

Paolo Ercolani
C'è stato un tempo in cui la poli­tica non si faceva nei talk show. I pro­ta­go­ni­sti di quella sta­gione non erano miliar­dari (né si appre­sta­vano a diven­tarlo), che incen­tra­vano la pro­pria azione sul cari­sma per­so­nale e su misu­ra­zioni del con­senso che ricor­dano i mec­ca­ni­smi dell’audience mediatico.
Di que­sta epoca che si sta­glia alle nostre spalle, pro­ta­go­ni­sta indi­scusso è stato Enrico Ber­lin­guer, per quasi quin­dici anni lea­der indi­scusso del par­tito comu­ni­sta ita­liano, di cui il pros­simo sette giu­gno si cele­bra il tren­ten­nale della morte, avve­nuta a Padova durante un comi­zio in vista delle immi­nenti ele­zioni europee.
Fra i molti libri che le più pre­sti­giose case edi­trici ita­liane si appre­stano a stam­pare, emerge con un valore tutto pro­prio il lavoro ine­dito di Guido Liguori, stu­dioso del pen­siero poli­tico e di Gram­sci, di cui esce in que­sti giorni per Carocci il suo Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio. Il pen­siero poli­tico di un comu­ni­sta demo­cra­tico(pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Ber­lin­guer. Un’altra idea del mondo. Anto­lo­gia 1969–1984, Edi­tori Riu­niti Uni­ver­sity Press).
Il rischio del volume è di idea­liz­zare quell’epoca e, con essa, Enrico Ber­lin­guer che ne è stato un pro­ta­go­ni­sta indi­scusso. Un rischio che si pre­senta con tutta evi­denza quando Liguori ce lo descrive come il diri­gente per il quale la poli­tica è «pas­sione e dovere», un modello di uomo poli­tico impen­sa­bile ai giorni nostri, che «sem­pre immerso nei libri e nei gior­nali, pas­sava le not­tate a leg­gere, a pre­pa­rarsi». Un rischio desti­nato a essere supe­rato gra­zie al rigore ana­li­tico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chia­ri­sce del con­te­sto in cui Ber­lin­guer si tro­vava ad operare.
LA FINE DI UN’EPOCA
In que­sto senso è cen­trale un epi­so­dio ripor­tato nel volume: il 27 giu­gno del 1976, al sum­mit di Puerto Rico dei paesi più indu­stria­liz­zati, i pre­si­denti di Stati Uniti e Fran­cia, con­giun­ta­mente ai primi mini­stri di Regno Unito e Ger­ma­nia Ovest, si riu­ni­rono in tutta segre­tezza e all’insaputa di Aldo Moro (allora capo del Governo ita­liano e anche lui pre­sente al sum­mit in rap­pre­sen­tanza del pro­prio paese), per con­ve­nire sulle misure puni­tive che sareb­bero state prese nei con­fronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo. A nulla erano ser­vite le dichia­ra­zioni con­ci­lianti di Ber­lin­guer sulla Nato: il par­tito comu­ni­sta ita­liano, il più grande e forte dei paesi occi­den­tali, con­ser­vava il ruolo di nemico da com­bat­tere, Un epi­so­dio elo­quente sve­lato al pub­blico dal lea­der social­de­mo­cra­tico tede­sco Hel­mut Sch­midt, il quale parlò di un vero e pro­prio «avver­ti­mento», vei­colo di un «ter­ro­ri­smo economico».
L’apertura di Ber­lin­guer verso il blocco gover­nato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichia­ra­zione della «nostra appar­te­nenza» ai paesi Nato (la cosid­detta «via ita­liana al socia­li­smo» non pre­ve­deva osta­coli o con­di­zio­na­menti da parte dell’Urss, secondo le parole del segre­ta­rio), ma evi­den­te­mente que­sto non era stato suf­fi­ciente a tran­quil­liz­zare i pro­fes­sio­ni­sti dell’anticomunismo, memori di un capo del par­tito comu­ni­sta ita­liano che, sem­pre in que­gli anni, si lasciava andare a una dichia­ra­zione tanto forte quanto discu­ti­bile: «È un fatto: nel mondo capi­ta­li­stico c’è la crisi, nel mondo socia­li­sta no».
Liguori è oppor­tuno ed effi­cace nel richia­mare un dato cen­trale: quella, a cavallo fra gli anni Set­tanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comun­que cam­biando. È in quella fase che ha ini­zio il feno­meno poli­tico sociale che oggi­giorno si è affer­mato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costi­tui­sce un ele­mento nodale di com­pren­sione di quel tempo: la fine del modello key­ne­siano, carat­te­riz­zato da una felice com­mi­stione di libero mer­cato e inter­vento gover­na­tivo (wel­fare state) e il ritorno pre­po­tente dell’ideologia e della poli­tica libe­ri­sta, basata sull’esaltazione della ricerca del pro­fitto indi­vi­duale e sulla mor­ti­fi­ca­zione di ogni inter­vento sta­tale che fosse volto alla tutela della giu­sti­zia sociale.
IL PEC­CATO ORIGINALE
Con­tro que­sto pre­pon­de­rante ritorno di un’economia a cui veniva affi­dato il governo incon­tra­stato sulla poli­tica e sulle fac­cende umane, nell’ambito del mondo che si stava glo­ba­liz­zando, Enrico Ber­lin­guer oppo­neva una solu­zione che ha forti eco con quella por­tata avanti da Joseph Sti­glitz (pre­mio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei libe­ri­sti): un «governo mon­diale» che, sulle basi poli­ti­che della cen­tra­lità dell’uomo e dei suoi biso­gni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mer­ca­ti­ste di un capi­ta­li­smo che «aveva gene­rato la deca­denza della vita eco­no­mica e della vita sociale, da cui nasce­vano non solo cre­scenti disagi mate­riali per le grandi masse della popo­la­zione lavo­ra­trice, ma anche il males­sere, le ansie, le ango­sce, le fru­stra­zioni, le spinte alla dispe­ra­zione, le chiu­sure indi­vi­dua­li­sti­che, le illu­so­rie evasioni».
In tale con­te­sto quella di Ber­lin­guer è anche la sto­ria di una grande scon­fitta, e que­sto emerge in maniera timida dalle con­si­de­ra­zioni di Liguori.
Il suo essere stato anzi­tutto un uomo dell’apparato, la sua mio­pia ideo­lo­gica e poli­tica rispetto alle spinte pro­ve­nienti dai movi­menti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il con­ser­va­to­ri­smo ideo­lo­gico misto al defi­cit di lai­cità (pec­cato ori­gi­nale del comu­ni­smo ita­liano) che lo situa­rono su posi­zioni scet­ti­che riguardo agli impor­tanti refe­ren­dum indetti dai radi­cali negli anni Set­tanta, rap­pre­sen­tano alcuni degli ele­menti alla base della scon­fitta di Ber­lin­guer (e del Pci), soprat­tutto di fronte alle spinte post­mo­der­ni­ste pro­ve­nienti dal Psi del ram­pante Craxi.
INOP­POR­TUNE MITOLOGIE
Allora come oggi, pro­ba­bil­mente, in cui l’apparato più orto­dosso del Pd (pro­ve­niente dall’ex Pci), col pro­prio immo­bi­li­smo ha lasciato campo libero all’emersione esplo­siva di figure spre­giu­di­cate e senza un fon­da­mento teo­rico e pro­gram­ma­tico di fondo, ci si è tro­vati a pagare un prezzo sala­tis­simo e dram­ma­tico, pro­prio nel momento in cui mag­gior­mente sarebbe stato neces­sa­rio avere un forte con­tral­tare alle spinte nuo­va­mente disu­ma­niz­zanti e tota­li­ta­rie del neo-liberismo.
Certo, la denun­cia ber­lin­gue­riana della «que­stione morale» fu quanto mai pro­fe­tica, come quel suo monito affin­ché i «par­titi ces­sino di occu­pare lo Stato», ma è indub­bio che troppi ritardi all’interno del Pci con­tri­bui­rono in maniera sostan­ziale a che l’ideologia libe­ri­sta riu­scisse nella sua impresa di distrug­gere pro­prio lo Stato, ren­dendo con­se­guen­te­mente obso­leti e depo­ten­ziati que­gli stessi par­titi (e idee) politici.
Ormai è il tempo in cui la poli­tica si fa nei talk show. Una «pic­cola poli­tica» (Gram­sci) a cui Ber­lin­guer ha poco o nulla da dire. Alla «grande poli­tica», ammesso che essa possa final­mente tor­nare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia con­sa­pe­voli anche dei suoi limiti. Tenen­dosi ben lon­tani da inop­por­tune mito­lo­gie. Ben lon­tani, a pen­sarci bene, dalla logica spet­ta­co­lare dei talk show.

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