Pubblichiamo
la traduzione del commento di David Harvey al tanto discusso “Capitale
nel Secolo XXI” di Thomas Piketty. Harvey, con spirito critico e
un'impostazione di ragionamento marxiana, ha il merito di evidenziare
l'erronea concezione di capitale secondo Piketty – il capitale non viene
inteso come processualità relazionale – e le contraddizioni che ne
scaturiscono. In sintesi, l'amplio e ben documentato lavoro
dell'economista francese offre una preziosa descrizione della
diseguaglianza economica in chiave storica, ma non ne spiega né le
ragioni immanenti né propone soluzioni politicamente viabili. Di sicuro,
il fatto che il discorso sulla spropositata diseguaglianza strutturale
abbia perforato il velo della comunicazione mainstream – libro best
seller su Amazon, Piketty-mania tra giornalisti e commentatori, un
terremoto dentro l'accademia egemonizzata dal pensiero neoliberista – è
sintomatico di una nuova sensibilità diffusa e potenzialmente
antagonista. Il merito non va tanto alla crisi finanziaria globale del
2008 quanto a Occupy e ai movimenti che dal 2011 in avanti hanno
alterato la percezione collettiva, imponendo con forza il discorso “we
are the 99%!”, rinnovando il concetto di lotta di classe in un tempo in
cui la concentrazione della ricchezza non è storicamente mai stata così
polarizzata.
Ora
che questo discorso è riuscito a stabilire la propria legittimità anche
nel mainstream, la sfida è spingerlo oltre un riformismo
social-democratico, per ragioni di realismo politico, data
l'irriformabilità del capitalismo contemporaneo a cui anche Harvey
allude quando si riferisce all'impraticabilità delle soluzioni politiche
proposte. L'obiettivo, a partire dalla consapevolezza diffusa
dell'attuale situazione di ingiustizia economica e sociale, non può che
essere l'organizzazione del conflitto, l'unico innesco possibile a
qualsivoglia processo redistributivo.
Thomas Piketty è l'autore di “Capital”, libro che ha suscitato un
gran scalpore. Argomenta in favore della tassazione progressiva e di una
tassa sul patrimonio globale come unica soluzione per contrastare la
tendenza verso la creazione di una forma "patrimoniale" di capitalismo,
caratterizzata da "terrificanti" disuguaglianze di ricchezza e reddito.
Inoltre, documenta dettagliatamente, con una precisione atroce e
difficilmente confutabile, l'evoluzione nel corso degli ultimi due
secoli della disuguaglianza sociale rispetto sia alla ricchezza che al
reddito, con particolare enfasi sul ruolo della ricchezza. Demolisce la
largamente diffusa opinione secondo cui il capitalismo del libero
mercato sia distributore di ricchezza e rappresenterebbe il grande
baluardo per la difesa delle libertà individuali e non. Piketty fa
vedere come il capitalismo del libero mercato, in assenza di
significativi interventi redistributivi da parte dello Stato, produce
oligarchie antidemocratiche. Queste tesi hanno dato adito all'oltraggio
liberale, guidato dall'apoplettico Wall Street Journal.
Il libro è stato spesso presentato come il sostituto per il
ventunesimo secolo dell'opera ottocentesca di Karl Marx dallo stesso
titolo. Piketty in realtà nega che questa fosse la sua intenzione, il
che è un bene dal momento che il suo non è affatto un libro sul
capitale. Non ci spiega il perché del crollo del 2008 e perché da così
tanto tempo così tante persone non riescono ad affrancarsi dal duplice
fardello della costante disoccupazione e dalla preclusione delle case.
Non ci aiuta a capire perché la crescita è attualmente così fiacca negli
Stati Uniti, a differenza che in Cina, e perché l'Europa si trova in
uno stato di paralisi dato dalle politiche d'austerità e da un'economia
in stagnazione. Ciò che Piketty dimostra statisticamente (e dovremmo
essere tutti grati a lui e ai suoi colleghi per questo) è che il
capitale durante la sua storia ha sempre avuto la tendenza a produrre
livelli sempre maggiori di disuguaglianza. Per molti di noi questa non è
certo una novità. Inoltre, questa era esattamente la conclusione
teorica di Marx nel Volume Uno della sua versione del Capitale.
Piketty non se ne accorge, e il che non è sorprendente dal momento che,
di fronte alle accuse della stampa di destra di essere un marxista
sotto mentite spoglie, ha sempre sostenuto di non aver letto il Capitale di Marx.
Piketty fornisce una gran mole di dati a sostegno delle sue
argomentazioni. Il suo resoconto sulle differenze tra reddito e
ricchezza è convincente e utile. Inoltre, propone una ragionata difesa
delle tasse di successione, della tassazione progressiva e di una tassa
sul patrimonio globale (anche se quasi certamente trattasi di misure
politicamente inattuabili) come possibili antidoti a un'ulteriore
concentrazione di ricchezza e potere.
Ma perché si verifica questa tendenza a una crescente disuguaglianza
nel corso del tempo? A partire dai suoi dati (conditi con alcuni
suggestivi aneddoti letterari tratti dalle opere di Jane Austen e
Balzac) estrae una legge matematica per spiegare cosa accade: la
progressiva accumulazione di ricchezza da parte del famoso uno per cento
(termine reso popolare grazie al movimento "Occupy") è dovuta al
semplice fatto che il tasso di rendimento del capitale (r) supera sempre
il tasso di crescita del reddito (g). Questo, dice Piketty, è ed è
sempre stata "la contraddizione centrale" del capitale.
Ma una regolarità statistica di questo tipo non può costituire una
spiegazione adeguata, tantomeno una legge. Quindi, quali forze producono
e sostengono una tale contraddizione? Piketty non lo dice. La legge è
la legge, e così è. Marx avrebbe ovviamente attribuito l'esistenza di
una tale legge allo squilibrio di potere tra capitale e lavoro. Ed è una
spiegazione che ancora regge. Il costante calo della quota di lavoro
nel reddito nazionale dal 1970 è dovuto al calo di potere politico ed
economico del lavoro, poiché il capitale ha mobilitato tecnologie,
disoccupazione, delocalizzazione e politiche anti-lavoro (come quelle di
Margaret Thatcher e Ronald Reagan ) per schiacciare tutte le
opposizioni. Come Alan Budd, un consigliere economico di Margaret
Thatcher, ha ammesso in un momento di distrazione, le politiche
anti-inflazionistiche degli anni 80 si sono rivelate essere "un modo
eccellente per aumentare la disoccupazione, e aumentare la
disoccupazione era un modo estremamente desiderabile per ridurre la
forza del classi lavoratrici... quello che veniva lì progettato era in
termini marxisti una crisi del capitalismo, che ha ricreato un esercito
di forza-lavoro di riserva e che da allora ha permesso ai capitalisti di
ottenere elevati profitti." La disparità di retribuzione tra CEO e
lavoratori medi era pari a trenta a uno nel 1970. Oggi è nettamente
superiore a trecento a uno, e nel caso di MacDonalds equivale circa a
milleduecento a uno.
Eppure nel volume 2 del Capitale di Marx (che Piketty non ha
letto ma rigetta spensieratamente) Marx ha sottolineato che la
propensione del capitale all’abbassamento dei salari a un certo punto
limiterà la capacità del mercato di assorbire il prodotto del capitale
stesso. Henry Ford affrontò questo dilemma tempo fa, quando concesse ai
suoi operai 5 dollari di salario per giornata lavorativa di otto ore con
il fine, disse, di rilanciare il consumo. Erano in molti a ritenere che
la mancanza di domanda effettiva fosse alla radice della Grande
Depressione del 1930. Fu questo a ispirare le politiche espansive
keynesiane del secondo dopoguerra che parzialmente ridussero le
disuguaglianze di reddito (anche se non tanto quelle relative alla
ricchezza), in un contesto di crescita sostenuta da forte domanda. Ma
questa soluzione si basava sulla relativa emancipazione del lavoro e
sulla costruzione dello "stato sociale" (termine di Piketty ) finanziato
tramite tassazione progressiva. "Tutto sommato", scrive, " nel periodo
tra il 1932 e 1980, quasi mezzo secolo, l'imposta federale sui redditi
elevati era mediamente intorno all’81 per cento negli Stati Uniti. " E
questa non ha in alcun modo attenuato la crescita (un'altra prova di
Piketty che confuta le credenze della destra).
Verso la fine degli anni 60 molti capitalisti capirono che bisognava
agire contro l’eccessivo potere del lavoro. Da qui l’estromissione di
Keynes dal pantheon degli economisti rispettabili, e il passaggio al
pensiero di Milton Friedman schierato dalla parte dell’offerta, la
crociata per stabilizzare e ridurre la tassazione, per decostruire lo
stato sociale e disciplinare le forze del lavoro. Dopo il 1980 negli
Stati Uniti le aliquote fiscali più elevate furono abbassate e i redditi
da capitale – un’importante fonte di reddito per gli ultra-ricchi –
tassati ad un tasso molto più basso, incrementando enormemente il flusso
di ricchezza diretto verso l'uno per cento. Eppure l'impatto sulla
crescita, Piketty dimostra, è stato trascurabile. Dunque, la "trickle
down", la redistribuzione dei benefici a partire dall’alto (un'altra
delle convinzioni preferite della destra) non funziona. Alla sua base
non c'è alcuna legge economica. Si tratta di una scelta politica.
Ma allora la questione più pressante non può che tornare ad essere: dove è la domanda? Una questione che Piketty ignora sistematicamente. Gli anni 90 l'hanno elusa grazie a una vasta espansione del credito, compresa l'estensione del finanziamento ipotecario nei mercati sub-prime. Ma la conseguente bolla speculativa era destinata a esplodere, così come avvenuto nel 2007-8, abbattendo la Lehman Brothers e con essa il sistema creditizio. Tuttavia, i tassi di profitto e l’ulteriore concentrazione di ricchezza privata sono tornati a crescere molto rapidamente dopo il 2009, mentre tutto e tutti versavano in una pessima situazione. I tassi di profitto delle imprese non sono mai stati così alti come oggi negli Stati Uniti. Le aziende dispongono di spropositate quantità di denaro e si rifiutano di spenderlo, perché le condizioni di mercato non sono stabili.
Ma allora la questione più pressante non può che tornare ad essere: dove è la domanda? Una questione che Piketty ignora sistematicamente. Gli anni 90 l'hanno elusa grazie a una vasta espansione del credito, compresa l'estensione del finanziamento ipotecario nei mercati sub-prime. Ma la conseguente bolla speculativa era destinata a esplodere, così come avvenuto nel 2007-8, abbattendo la Lehman Brothers e con essa il sistema creditizio. Tuttavia, i tassi di profitto e l’ulteriore concentrazione di ricchezza privata sono tornati a crescere molto rapidamente dopo il 2009, mentre tutto e tutti versavano in una pessima situazione. I tassi di profitto delle imprese non sono mai stati così alti come oggi negli Stati Uniti. Le aziende dispongono di spropositate quantità di denaro e si rifiutano di spenderlo, perché le condizioni di mercato non sono stabili.
La formulazione della legge matematica di Piketty più che rivelare il
coinvolgimento della politica di classe, la occulta. Come Warren
Buffett ha osservato, "certamente c’è una guerra di classe, ed è la mia
classe, i ricchi, che la stanno facendo e stiamo vincendo". Un chiaro
indice della loro vittoria è dato dalle crescenti disparità di ricchezza
e di reddito dell’1% rispetto a tutti gli altri.
Vi è, tuttavia, un problema centrale nell'argomentazione di Piketty.
Essa poggia su una definizione erronea di capitale. Il capitale non è
una cosa, ma un processo. Si tratta di un processo di circolazione dove
il denaro viene utilizzato per fare altro denaro, spesso ma non
esclusivamente attraverso lo sfruttamento della forza lavoro. Piketty
definisce il capitale come stock di tutti i beni detenuti da privati,
aziende e governi e che possono essere commerciati, indifferentemente se
questi beni sono utilizzati o meno. Ciò include terreni, immobili e
diritti di proprietà intellettuale così come la propria arte o la
propria collezione di gioielli. Come determinare il valore di tutte
queste cose è un problema tecnico complicato che non ha una soluzione
condivisa. Al fine di calcolare un tasso significativo di rendimento, r ,
si necessita di un qualche modo per valorizzare il capitale iniziale.
Purtroppo non c'è modo per valorizzarlo indipendentemente dal valore dei
beni e dei servizi utilizzati, o dal prezzo al quale può essere venduto
sul mercato. L'intero pensiero economico neoclassico (che è la base del
pensiero di Piketty ) si fonda su una tautologia. Il tasso di
rendimento del capitale dipende in modo cruciale dal tasso di crescita
perché il capitale si valorizza attraverso cosa produce, e non
attraverso ciò che serve alla produzione. Il suo valore è fortemente
influenzato dalle condizioni speculative e può essere gravemente
deformato dalla famosa "esuberanza irrazionale" che Greenspan ha
individuato come caratteristica dei mercati finanziari e immobiliari. Se
sottraiamo dalla definizione di capitale (e la motivazione per il loro
inserimento è piuttosto debole) abitazioni e immobili - per non parlare
del valore delle collezioni d'arte degli investitori speculativi, allora
la spiegazione di Piketty per le crescenti disparità di ricchezza e
reddito non regge, nonostante rimangano valide le sue descrizioni sullo
stato delle disuguaglianze passati e presenti.
Denaro, terreni, immobili, fabbriche e macchinari non utilizzati in
modo produttivo, non sono capitale. Se il tasso di rendimento sul
capitale che viene utilizzato è elevato, è perché una parte del capitale
viene ritirato dalla circolazione e praticamente va in sciopero.
Limitare l'offerta di capitale per nuovi investimenti (un fenomeno a cui
stiamo assistendo) garantisce un alto tasso di rendimento sul capitale
in circolazione. La creazione di una scarsità artificiale non è solo ciò
che fanno le compagnie petrolifere per assicurarsi alti tassi di
rendimento: tutto il capitale lo fa quando ha la possibilità di farlo.
E' questo meccanismo a sostenere la tendenza del tasso di rendimento del
capitale (indipendentemente da come viene definito e misurato) a
superare sempre il tasso di crescita del reddito. Così il capitale si
riproduce, indipendentemente da quali siano le conseguenze per noi
altri. Così vive la classe capitalista.
L'insieme di dati raccolti da Piketty è prezioso. Ma la sua
spiegazione riguardo al perché sorgono disuguaglianze e tendenze
oligarchiche è gravemente viziata. Le sue proposte per rimediare alle
disuguaglianze sono ingenue, se non utopiche. Inoltre, non si può certo
dire che abbia prodotto un modello funzionante per il capitale del XXI
secolo. Per questo abbiamo ancora bisogno di Marx o di un suo
equivalente contemporaneo.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua