Il capitale nella sua forma più globalizzata non vuole più
l'austerità, anzi ne ha decisamente paura. I rapporti ed i comunicati
che vengono emessi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca
Mondiale, fino all'agenzia di rating Standard&Poor's - nella
motivazione del recente declassamento di nove paesi dell'erurozona - si
concentrano vieppiù sull'aggravamento della recessione e sul ruolo
negativo (prociclico) delle politiche di austerità fiscale perseguite in
Europa sia nella zona dell'euro che in Gran Bretagna.
In sostanza la politica di rigore fiscale ha perso di credibilità e viene vista come una strettoia da cui uscire assai rapidamente. Il discorso non è su come rilanciare l'economia ma sul futuro stesso del capitalismo, un ordine di ragionamento di diversa grandezza e gravità. Il Financial Times sostiene senza mezze parole che a Davos domineranno le questioni riguardanti appunto il futuro del sistema. Durante la scorsa settimana il quotidiano londinese aveva pubblicato una serie speciale intitolata capitalism in crisis, chiaramente intesa come un input alle riunioni di Davos. Inoltre, sul summit del Forum economico mondiale pesa il documento del Global Issues Group del Forum stesso. I membri di questo gruppo di lavoro sono, tra gli altri, la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, il direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio Pascal Lamy e quello della Banca Mondiale Robert Zoellick.
Più diplomatico della sorprendente e valida analisi condotta da Standard &Poor's, il documento del gruppo di Davos non elogia le politiche di austerità, si limita ad affermare la necessità di una finanza sostenibile, regolamentando tra l'altro quella bancaria, per poi presentare come neccessità impellente la lotta alla sperequazione sociale nei vari paesi. Infine arriva la dichiarazione di George Soros: «Le rigide misure di austerità fiscale mettono sotto pressione i salari ed i profitti». In questo contesto l'intervento di Angela Merkel ha segnato una sua netta caduta di credibilità. Martin Wolf del Financial Times ha così commentato l'intervento della Cancelliera: «Come i Borboni, Angela Merkel non ha scordato niente e niente ha imparato. Essenzialmente continua a credere che l'eurozona possa uscire dalla crisi con un mix di disciplina fiscale per garantire la solvibilità, riforme strutturali per lo sviluppo e un sostegno finanziario limitato e temporaneo ai paesi in difficoltà».
E Mario Monti? Il premier italiano è chiaramente dalla parte dei critici, altrimenti non avrebbe dichiarato al Financial Times di condividere l'analisi di Standard&Poor's. Contemporaneamente però in Italia applica esattamente ciò che Wolf bolla nei confronti della Merkel incluso il perseguimento del mito della competitività. Che Monti sia un Brüning cosciente di esserlo? La paura fa 90 e la crisi si trascina dietro l'intera classe dirigente europea, senza un ricambio in vista.
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In sostanza la politica di rigore fiscale ha perso di credibilità e viene vista come una strettoia da cui uscire assai rapidamente. Il discorso non è su come rilanciare l'economia ma sul futuro stesso del capitalismo, un ordine di ragionamento di diversa grandezza e gravità. Il Financial Times sostiene senza mezze parole che a Davos domineranno le questioni riguardanti appunto il futuro del sistema. Durante la scorsa settimana il quotidiano londinese aveva pubblicato una serie speciale intitolata capitalism in crisis, chiaramente intesa come un input alle riunioni di Davos. Inoltre, sul summit del Forum economico mondiale pesa il documento del Global Issues Group del Forum stesso. I membri di questo gruppo di lavoro sono, tra gli altri, la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, il direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio Pascal Lamy e quello della Banca Mondiale Robert Zoellick.
Più diplomatico della sorprendente e valida analisi condotta da Standard &Poor's, il documento del gruppo di Davos non elogia le politiche di austerità, si limita ad affermare la necessità di una finanza sostenibile, regolamentando tra l'altro quella bancaria, per poi presentare come neccessità impellente la lotta alla sperequazione sociale nei vari paesi. Infine arriva la dichiarazione di George Soros: «Le rigide misure di austerità fiscale mettono sotto pressione i salari ed i profitti». In questo contesto l'intervento di Angela Merkel ha segnato una sua netta caduta di credibilità. Martin Wolf del Financial Times ha così commentato l'intervento della Cancelliera: «Come i Borboni, Angela Merkel non ha scordato niente e niente ha imparato. Essenzialmente continua a credere che l'eurozona possa uscire dalla crisi con un mix di disciplina fiscale per garantire la solvibilità, riforme strutturali per lo sviluppo e un sostegno finanziario limitato e temporaneo ai paesi in difficoltà».
E Mario Monti? Il premier italiano è chiaramente dalla parte dei critici, altrimenti non avrebbe dichiarato al Financial Times di condividere l'analisi di Standard&Poor's. Contemporaneamente però in Italia applica esattamente ciò che Wolf bolla nei confronti della Merkel incluso il perseguimento del mito della competitività. Che Monti sia un Brüning cosciente di esserlo? La paura fa 90 e la crisi si trascina dietro l'intera classe dirigente europea, senza un ricambio in vista.
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Il rigore non serve più?
Rossana Rossanda, Joseph Halevi
Caro Joseph,
Rossana Rossanda, Joseph Halevi
Caro Joseph,
sono stupefatta delle notizie che ci dai nel tuo articolo ("Capitale
vs austerità" il manifesto 27/1). È pieno di buon senso dire che col
rigore si strozza e non si cresce di una virgola, lo dice da tempo anche
Stiglitz, e in questi giorni Hollande, candidato socialista alle
presidenziali in Francia, che non è certo un audace, ha presentato un
programma non (solo) rigorista.
Ma che cosa spiega questo improvviso, almeno per me, giro di
orientamento? E perché allora le note di Standard&Poor's? Aiutami a
capire. Grazie.
Rossana Rossanda
Cara Rossana,
Cara Rossana,
già da tempo negli Usa le banche e le stesse società di rating
argomentano che il problema non è il deficit pubblico ma l'assenza di
ripresa. Infatti aggiungevano che le scenate dei repubblicani per
ottenere tagli di bilancio da Obama ritardavano misure positive per la
ripresa. Ciò spiega perché perfino quando i repubblicani minacciavano di
bloccare tutta la spesa federale, cosa che spinse S&P a declassare i
buoni del tesoro Usa, non ci fu alcun movimento speculativo nel mercato
dei titoli pubblici di Washington, il cui tasso di interesse a lungo
termine (10 anni) continuava a rimanere basso ed in calo. I mercati non
hanno paura del deficit ma dell'assenza della ripresa.
Nell'Europa dell'euro, la preoccupazione verso i titoli, greci,
portoghesi, spagnoli ed italiani, è il prodotto delle decisioni
istituzionali sia di Berlino che di Bruxelles ed in parte di Francoforte
presso la Bce. Sono stati gli Stati europei individualmente (Germania) e
collettivamente a Bruxelles a trasformare i titoli pubblici in patate
bollenti. A mio parere la traslazione dell'ottica delle società
finanziarie e delle banche Usa in Europa è avvenuta da novembre in poi
man mano che arrivavano informazioni circa la discesa nella recessione.
In particolare da novembre in poi abbiamo il quinto rapporto del Fondo
monetario sulla Grecia, la ricaduta irlandese e l'inizio delle
recessione in GB con i pessimi dati del terzo trimestre, idem per la
Francia. Infine si arena la crescita tedesca.
Il rapporto del Fondo monetario sulla Grecia non lascia alcun dubbio.
Dice chiaramente che più ci si impegna a ridurre la spesa pubblica più
l'effetto negativo dei tagli si ripercuote sul Pil abbassandolo ed
aumentando il rapporto debito/Pil. Analoga situazione in Irlanda, ove
fino ad agosto sembrava che vi fosse una certa ripresa e la situazione
irlandese veniva presa come prova che i tagli funzionano (se il paese
non è corrotto, ecc., tutti messaggi diretti alla Grecia ed all'Italia).
Da settembre fine delle illusioni e l'Irlanda si è ritrovata nuovamente
nel Maelstrom. Un ulteriore elemento, intellettuale questa volta, è
dato dalle analisi condotte dalla Banca d'Italia il cui ufficio studi è,
nell' ambito del mondo bancario e finanziario, tra i più rispettati nel
mondo. Anche questi studi lasciano pochi dubbi sugli effetti recessivi
del rigore fiscale (del resto Ignazio Visco ha sempre ribadito tali
effetti in tutte le sue audizioni parlamentari dalla manovra Tremonti in
poi). La tensione sui titoli italiani, iberici e perfino greci, si è
calmata non per via delle manovre Monti-Papademos ma per la politica di
Draghi che, spazzando via le decisioni ad hoc di Trichet, ha garantito
liquidità illimitata per tre anni. Ovviamente è sostenuto da Bernanke
perché il mercato interbancario è denominato in dollari. Quindi i
mercati, cioè S&P, le banche, Goldman Sachs, dicono: ora che ci
viene data liquidità senza limiti, pensiamo alla ripresa piuttosto che
ai tagli.
Joseph Halevi
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