“Io song n’omme ‘e mmerda”. Non sono i versi di una canzone
scurrile. Sono le incredibili parole, un autocondanna, un’autocritica
alla Pol Pot, che gli operai ddella Fiat di Pomigliano sono costretti a
pronunciare davanti a un microfono e davanti a compagni e capi in una
specie di assemblea detta modernamente “acquario”. Un’umiliante
penitenza richiesta quando quell’operaio “non regge le cadenze o sbaglia
a montare un pezzo”. Forse questi sono i “fannulloni” a cui allude la
Marcegaglia. Insomma l’operaio cede alla fatica e così “viene convocato a
fine turno: capi e sottocapi lo circondano e gli fanno recitare al
microfono” tali tremendi versetti. L’episodio è riportato non in un
foglietto estremista diffuso dai duri della Fiom bensì dal “Foglio” di
Giuliano Ferrara. E l’autore dell’articolo è un Gianfranco Pace che
forse soffre le reminiscenze di un suo lontano passato. E il fatto era
già stato raccontato da Loris Campetti sul “Manifesto”.
“Io sono un uomo di merda” è costretto a dire quell’operaio che come
un novello Charlot non ce la fa a inseguire i ritmi di Marchionne. In
una fabbrica dove se hai la tessera Fiom non entri. Come quando non si
poteva avere l’Unità in tasca. E poi c’è chi osa tacciare di nostalgici
del primo Novecento perfino coloro che nel Pd osano non osannare la
politica Fiat. Ma chi sta facendo salti enormi all’indetro, in nome dei
“tempi moderni” (titolo, appunto, del film di Chaplin)?
Un episodio che incita alla rivolta. Che prima o poi arriverà . E
così i moderni proletari, per rimanere in tema, saranno costretti a
riscoprire un antico sorpassato slogan soreliano: “A salario di merda
lavoro di merda”. Così – magari anche quando si sostiene che la riforma
del lavoro la fanno solo esperti ministri senza il conforto eperto dei
sindacati – si buttano a mare anni di faticose conquiste e vere
modernizzazioni.Quelle che avrebbero dovuto portare “da sfruttati a
produttori”, come diceva un volume di Bruno Trentin. Tanto per citare
uno che se fosse ancora vivo non crederebbe ai propri occhi.
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