venerdì 3 febbraio 2012

Con la FIOM di Claudio Grassi


Ha proprio ragione il premier Mario Monti a dire: che monotonia. Solo che a darmi noia non è il fatto che pochi fortunati godano ancora della sicurezza del posto fisso (tra l’altro vien da chiedersi se nel bel mezzo di una crisi devastante esista ancora un lavoro “sicuro”). Bensì il fatto che da oltre dieci anni il dibattito pubblico sul lavoro sia incentrato sugli stessi dogmi. Libertà di licenziamento, flessibilità del lavoro, cancellazione dei contratti nazionali. Tutti ricordiamo la grande mobilitazione del 2002 contro l’abolizione dell’articolo 18, le battaglie della Fiom in difesa del contratto nazionale, le lotte contro la precarietà. In quegli anni un vasto fronte di sinistra capì che dietro il ritornello della flessibilità del lavoro si celava una precisa strategia di classe: bonificare l’economia da ogni influenza del sindacato, lasciando solo e senza difese ogni singolo lavoratore dinanzi al potere dell’impresa e del mercato. Il ritornello lo conosciamo bene, è quello del neoliberismo, del turbocapitaslimo, che tanti adepti ha avuto anche nella nostra sinistra moderata.
Dopo dieci anni di lotte, eccoci al punto di partenza. Il programma politico del governo Monti sul lavoro appare identico a quello dei governi Berlusconi. Difficile trovare differenze tra Maroni, Sacconi e Fornero. E Marchionne sta portando a compimento quello che Confindustria chiede da un decennio. Solo che in mezzo c’è una crisi economica, quella scoppiata in America nel 2008 e drammaticamente amplificata in Europa in questi mesi. La quale ha dimostrato che quei dogmi erano fallaci, errati, controproducenti. Il governo – così come l’Europa, d’altronde – prova a curare la malattia iniettando in corpo lo stesso virus che l’ha procurata.
L’ultima offensiva contro i diritti del lavoro, quella di questi ultimi mesi, è la più pericolosa. Per vari motivi. In primis la crisi economica rende più complessa una reazione: è difficile scioperare quando si è in cassa integrazione. E forte, per molti lavoratori duramente colpiti dalla recessione, è la spinta a conformarsi, ad abbandonare la lotta. L’abbiamo visto a Melfi e a Taranto, dove gruppi di iscritti alla Fiom hanno deciso di lasciare l’organizzazione, per rifugiarsi nella Cisl. Poi c’è la debolezza della sinistra politica, finora incapace di alzare una voce chiara e forte contro l’attacco in corso ai diritti del lavoro. Eppure, proprio ora che la battaglia è più dura, non possiamo alzare bandiera bianca.
La manifestazione dell’11 febbraio, indetta dalla Fiom Cgil, è fondamentale proprio per questo. Serve a mettere in campo una controffensiva. Come sappiamo la Fiom è sotto attacco proprio nelle più importanti fabbriche del Paese, nella Fiat. Ad essa è negato anche il diritto di indire assemblee, di scioperare, di ricevere i contributi sindacali. I suoi iscritti sono vittime della stretta padronale, sono tenuti fuori dalle fabbriche, vengono vessati dai capi. I contratti capestro firmati da Cisl, Uil e Ugl vengono applicati senza che ai lavoratori sia stato permesso di esprimersi con un voto. Come sempre, la battaglia per i diritti del lavoro è anche una battaglia per la democrazia. E se manca la democrazia nelle fabbriche, manca nell’intero Paese. Anche per questo non possiamo far altro che stare a fianco della Fiom. Pronti a non cedere neppure di un passo.

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