Ha
proprio ragione il premier Mario Monti a dire: che monotonia. Solo che a
darmi noia non è il fatto che pochi fortunati godano ancora della
sicurezza del posto fisso (tra l’altro vien da chiedersi se nel bel
mezzo di una crisi devastante esista ancora un lavoro “sicuro”). Bensì
il fatto che da oltre dieci anni il dibattito pubblico sul lavoro sia
incentrato sugli stessi dogmi. Libertà di licenziamento, flessibilità
del lavoro, cancellazione dei contratti nazionali. Tutti ricordiamo la
grande mobilitazione del 2002 contro l’abolizione dell’articolo 18, le
battaglie della Fiom in difesa del contratto nazionale, le lotte contro
la precarietà. In quegli anni un vasto fronte di sinistra capì che
dietro il ritornello della flessibilità del lavoro si celava una precisa
strategia di classe: bonificare l’economia da ogni influenza del
sindacato, lasciando solo e senza difese ogni singolo lavoratore dinanzi
al potere dell’impresa e del mercato. Il ritornello lo conosciamo bene,
è quello del neoliberismo, del turbocapitaslimo, che tanti adepti ha
avuto anche nella nostra sinistra moderata.
Dopo dieci anni di lotte, eccoci al
punto di partenza. Il programma politico del governo Monti sul lavoro
appare identico a quello dei governi Berlusconi. Difficile trovare
differenze tra Maroni, Sacconi e Fornero. E Marchionne sta portando a
compimento quello che Confindustria chiede da un decennio. Solo che in
mezzo c’è una crisi economica, quella scoppiata in America nel 2008 e
drammaticamente amplificata in Europa in questi mesi. La quale ha
dimostrato che quei dogmi erano fallaci, errati, controproducenti. Il
governo – così come l’Europa, d’altronde – prova a curare la malattia
iniettando in corpo lo stesso virus che l’ha procurata.
L’ultima
offensiva contro i diritti del lavoro, quella di questi ultimi mesi, è
la più pericolosa. Per vari motivi. In primis la crisi economica rende
più complessa una reazione: è difficile scioperare quando si è in cassa
integrazione. E forte, per molti lavoratori duramente colpiti dalla
recessione, è la spinta a conformarsi, ad abbandonare la lotta.
L’abbiamo visto a Melfi e a Taranto, dove gruppi di iscritti alla Fiom
hanno deciso di lasciare l’organizzazione, per rifugiarsi nella Cisl.
Poi c’è la debolezza della sinistra politica, finora incapace di alzare
una voce chiara e forte contro l’attacco in corso ai diritti del lavoro.
Eppure, proprio ora che la battaglia è più dura, non possiamo alzare
bandiera bianca.
La manifestazione dell’11 febbraio,
indetta dalla Fiom Cgil, è fondamentale proprio per questo. Serve a
mettere in campo una controffensiva. Come sappiamo la Fiom è sotto
attacco proprio nelle più importanti fabbriche del Paese, nella Fiat. Ad
essa è negato anche il diritto di indire assemblee, di scioperare, di
ricevere i contributi sindacali. I suoi iscritti sono vittime della
stretta padronale, sono tenuti fuori dalle fabbriche, vengono vessati
dai capi. I contratti capestro firmati da Cisl, Uil e Ugl vengono
applicati senza che ai lavoratori sia stato permesso di esprimersi con
un voto. Come sempre, la battaglia per i diritti del lavoro è anche una
battaglia per la democrazia. E se manca la democrazia nelle fabbriche,
manca nell’intero Paese. Anche per questo non possiamo far altro che
stare a fianco della Fiom. Pronti a non cedere neppure di un passo.
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