Il cronista del giornale Il Tempo
domanda cautamente al responsabile Lavoro del Pd Fassina: “Si può dire
che la sua linea sia la linea del Pd?”. Risponde con orgoglio Fassina: “Le
posizioni sul lavoro sono larghissimamente, anche se non unanimemente condivise
all’interno del partito. L’autorevolezza di personalità che la pensano
diversamente (nel Pd, ndr) non deve dare l’idea di un Pd lacerato”. (23
febbraio).
Fassina lavora da solo alla compattezza del partito, mentre intorno a lui, esplodono, come bombe a grappolo, dissonanze fragorose. Sentite Giovanna Melandri (stesso giorno, La Stampa): “Non andrò alla manifestazione Fiom del 9 marzo, perché il sindacato deve fare il sindacato e le forze politiche devono fare le forze politiche”. È talmente vero che i candidati del Partito repubblicano americano stanno impegnando somme immense per screditare i sindacati e spingere il lavoro fuori dal dibattito politico. E Obama viene insultato con la parola “socialista” perché ha osato inserire l’aumento dei salari e la garanzia delle cure mediche gratuite nel programma elettorale della sua rielezione.
Naturalmente Melandri non è la sola voce “diversa” del partito. Orfini, per esempio, sta da un’altra parte e dice: “Penso che sia giusto portare solidarietà a un sindacato che considera vergognoso Marchionne. Dovrebbero andarci tutti”. Se considerate l’importanza della questione, vi rendete conto che avete ascoltato la voce di due partiti. Anzi tre. Infatti, lo stesso Orfini, nella dichiarazione citata, si ferma e si corregge: “Tutti no, Bersani no. Sarebbe eccessivo”. Non contando il segretario Pd di Imola che non vuole comizi assieme a Fassina, perché Fassina va con gli intoccabili della Fiom. Ma se ascoltate Angeletti (Uil), che si sta certamente domandando dove portare il suo sindacato in tempo di elezioni, vi accorgete che è contro il governo (e dunque il ministro Fornero e la deputata Melandri) nella difesa del lavoro, a favore di Marchionne, sulla questione “democrazia in fabbrica” e, assieme agli altri due sindacati, isolato dalla politica che non vuole mischiarsi con gli operai.
Ma nei canyon del Pd volano bassi i pipistrelli detti “tabù”. Volano in un senso (non è tabù abolire l’articolo 18) e nell’altro (non è un tabù tenere testa al governo se il governo va con pacata eleganza verso destra). Ma ecco come risponde alla situazione paradossale l’ex ministro Gentiloni, leader fisso in un piccolo gruppo di leader fissi in viaggio dal passato al futuro senza soste riflessive sul complicato presente: “La decisione del ministro Fornero di andare avanti anche senza il consenso dei partiti sulla riforma del mercato del lavoro sarà un banco di prova della tenuta del Pd”. Come dire: il banco di prova di un vero partito orgoglioso di sé è accettare di non esistere. Però Gentiloni nutre una grande speranza: “Le scelte parlamentari del Pd saranno il vero congresso del partito. Io non ho dubbi. Io voterò sì”. Sì al partito che non conta? Il fenomeno è nuovo. Nessuno se ne va. Dove? Le “intenzioni di voto” continuano a scendere. Manca qualcuno che sappia dire: ecco, questo è il Pd. E vi diciamo chi siamo, che cosa vogliamo e dove cerchiamo di andare.
Fassina lavora da solo alla compattezza del partito, mentre intorno a lui, esplodono, come bombe a grappolo, dissonanze fragorose. Sentite Giovanna Melandri (stesso giorno, La Stampa): “Non andrò alla manifestazione Fiom del 9 marzo, perché il sindacato deve fare il sindacato e le forze politiche devono fare le forze politiche”. È talmente vero che i candidati del Partito repubblicano americano stanno impegnando somme immense per screditare i sindacati e spingere il lavoro fuori dal dibattito politico. E Obama viene insultato con la parola “socialista” perché ha osato inserire l’aumento dei salari e la garanzia delle cure mediche gratuite nel programma elettorale della sua rielezione.
Naturalmente Melandri non è la sola voce “diversa” del partito. Orfini, per esempio, sta da un’altra parte e dice: “Penso che sia giusto portare solidarietà a un sindacato che considera vergognoso Marchionne. Dovrebbero andarci tutti”. Se considerate l’importanza della questione, vi rendete conto che avete ascoltato la voce di due partiti. Anzi tre. Infatti, lo stesso Orfini, nella dichiarazione citata, si ferma e si corregge: “Tutti no, Bersani no. Sarebbe eccessivo”. Non contando il segretario Pd di Imola che non vuole comizi assieme a Fassina, perché Fassina va con gli intoccabili della Fiom. Ma se ascoltate Angeletti (Uil), che si sta certamente domandando dove portare il suo sindacato in tempo di elezioni, vi accorgete che è contro il governo (e dunque il ministro Fornero e la deputata Melandri) nella difesa del lavoro, a favore di Marchionne, sulla questione “democrazia in fabbrica” e, assieme agli altri due sindacati, isolato dalla politica che non vuole mischiarsi con gli operai.
Ma nei canyon del Pd volano bassi i pipistrelli detti “tabù”. Volano in un senso (non è tabù abolire l’articolo 18) e nell’altro (non è un tabù tenere testa al governo se il governo va con pacata eleganza verso destra). Ma ecco come risponde alla situazione paradossale l’ex ministro Gentiloni, leader fisso in un piccolo gruppo di leader fissi in viaggio dal passato al futuro senza soste riflessive sul complicato presente: “La decisione del ministro Fornero di andare avanti anche senza il consenso dei partiti sulla riforma del mercato del lavoro sarà un banco di prova della tenuta del Pd”. Come dire: il banco di prova di un vero partito orgoglioso di sé è accettare di non esistere. Però Gentiloni nutre una grande speranza: “Le scelte parlamentari del Pd saranno il vero congresso del partito. Io non ho dubbi. Io voterò sì”. Sì al partito che non conta? Il fenomeno è nuovo. Nessuno se ne va. Dove? Le “intenzioni di voto” continuano a scendere. Manca qualcuno che sappia dire: ecco, questo è il Pd. E vi diciamo chi siamo, che cosa vogliamo e dove cerchiamo di andare.
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