J.M. Keynes e Karl Marx |
di Moreno Pasquinelli
Premessa
L’attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta
mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura squisitamente
filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la
propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di
carattere economico, considera il mercato è il sistema che meglio di ogni altri
contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione.
Ne hanno preso atto, della crisi del liberismo, la Casa
Bianca e la Federal Reserve, che dopo
il settembre 2008 (fallimento della Lehman
Brothers) vanno seguendo una politica pressoché opposta. L’ortodossia
liberista prevale invece nell’Unione europea, i cui organismi oligarchici, la
Bce anzitutto, tenacemente perseguono, a monte politiche di rigore monetario e dei
bilanci pubblici, a valle, politiche deflattive di contenimento dei prezzi, su
tutti quello dei salari.
Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata
avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente
in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti
ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico
quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del
proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni. Questo contesto spiega
perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e
delle sue contraddizioni, nonché il principale assertore della necessità e
fattibilità del suo superamento, lungi dal risorgere, resti confinato
nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi
intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di
dichiararsi marxisti.
Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del
pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la
maggior parte degli economisti (di quelli seri non per forza di quelli che
usufruiscono di una cattedra in qualche blasonata università) si consideri keynesiana.
Essendo tra quelli che più decisamente insistono sulla
centralità assoluta del discorso sulla crisi —di qui la nostra insistenza per
lo sganciamento dall’Unione europea e l’abbandono della moneta unica come
precondizioni necessarie per venirne fuori—, di questo revival keynesiano, ne sappiamo qualcosa. Dieci economisti
keynesiani su dieci condannano senza appello le politiche delle
euro-oligarchie e della Bce. Tra questi solo una minoranza, partigiana
dell’Unione, ritiene che l’euro sia compatibile con le terapie keynesiane e che
la Bce inverta quindi la rotta. La maggioranza di loro sostiene invece che
l’euro è comunque condannato a morire e propugna il ritorno alle sovranità
monetarie statuali. Avrete capito perché di keynesiani ne sappiamo qualcosa: con
i migliori di loro —quelli che non solo invocano astrattamente la fine delle
politiche di macelleria sociale ma che sostengono come necessaria la
riconquista della sovranità nazionale, politica e monetaria— abbiamo in comune
il nemico, e logica vuole che le forze si uniscano.
La
teoria di Keynes
La pretesa di molti scienziati è quella di considerarsi
tali nella misura in cui essi pensano di spiegare i fatti così come sono,
standosene alla larga dai giudizi di valore. Vogliono dirci che essi sono
immuni da condizionamenti ideologici e culturali, che le loro asseverazioni
sono estranee alla dispute sociali e politiche, al di sopra di ogni visione del
mondo. Ovviamente non è vero, e Keynes non era tanto stolto dal pensarlo. Egli, malgrado
avesse colto le contraddizioni profonde insite nel modo capitalistico borghese,
non ha mai nascosto la sua predilezione per il sistema capitalistico, ne ha mai
fatto mistero della sua avversione verso il marxismo e l’ideale socialista.
Keynes si considerava anzi il medico la cui missione era appunto salvare un
capitalismo affetto da malattie e contraddizioni congenite, che se lasciato a
se stesso sarebbe anzi andato incontro alla morte. La differenza con Marx, che
proponeva invece di fare leva su quelle contraddizioni per abolire il
capitalismo e con esso l’economia fondata sulla merce, non può essere più
evidente.
Questa differenza non attiene solo alla sfera politica: le
malattie o contraddizioni congenite del capitalismo intraviste da Keynes non erano
quelle individuate da Marx.
L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la
devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento
una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta
la neutralità della moneta considerata solo mezzo di scambio) il mercato è
sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia di beni
che di capitali. Secondo l’ortodossia liberista poi, eventuali perturbazioni
momentanee, potevano dipendere solo da due fattori, o dalla mancanza di rigore
monetario o dall’aumento eccessivo dei salari. Per essere ancora più precisi:
per Keynes il mercato non assicurava né la piena occupazione né un’equa
distribuzione della ricchezza.
Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le
aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale
il denaro non fungeva solo da (1) parametro per misurare valori/prezzi e (2) come
mezzo di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione. Nei cicli di crisi
economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro
tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il
materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.
In termini keynesiani: in un’economia capitalista di
mercato non solo c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di
beni, e non esiste alcuna garanzia che il risparmio accumulato ritorni nel
mercato sotto forma d’investimenti, il che condetermina la crisi, la
stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge
sempre dopo un periodo di boom,
ovvero di crescita enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi
destinata alla risparmio (tesaurizzazione) invece che agli investimenti.
Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e
solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra
eccesso di offerta e insufficienza della domanda? E di chiudere la forbice tra la
massa accumulata di denaro che se ne sta ferma tesaurizzata e quella decrescente
che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su due fattori
principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la
tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”). Ma quali sono queste leve? Dal momento
che il mercato non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre
l’intervento di una forza esterna ad essi, l’autorità statuale titolare di
facoltà d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il
mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei
capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità
politica, giuridica e monetaria, deve intervenire con azione sincronica e
anticiclica in tutti e quattro.
In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli
investimenti privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica
monetaria flessibile, abbassando i
tassi dell’interesse, disincentivando così la tesaurizzazione —o l’eccessivo
accumulo di risparmi. In seconda battuta, ove questa decisione non fosse
sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una
imposizione progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della
ricchezza verso i redditi medio-bassi —che per Keynes hanno una più decisa
propensione al consumo. Questa politica fiscale dovrebbe anzitutto penalizzare
le rendite e la classe rentier dedita
alla speculazione finanziaria parassitaria, premiando invece il capitale
produttivo incoraggiandolo all’investimento. Infine Keynes proponeva che lo
Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare cuna una
politica di deficit spending, ovvero
con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai propri cittadini) che
avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso (denaro tesaurizzato) e
convertirli in investimenti creatori di occupazione e quindi di domanda,
assorbendo dunque l’offerta in eccesso.
Questa, esposta in modo certamente schematico ma ci
auguriamo obiettiva, la teoria economica di Keynes. Prima di Passare al
pensiero di Marx due sole considerazioni. La prima. Ognuno considererà la
teoria di Keynes una “teoria di sinistra”. Ed essa infatti lo è, se
consideriamo che la sinistra attuale tutta, non escluse le correnti cosiddette
“antagoniste”, quando espongono le loro ricette anti-crisi, non fanno che
riproporre, il più delle timidamente, le proposte dell’economista borghese
inglese. Lo è se infine attribuiamo al sostantivo “sinistra” solo un generico
significato descrittivo (senza nessuna qualificazione di classe si darebbe
detto un tempo) ed allora tutto è “sinistra”, basta che si al di qua del limes del liberismo economico —per cui,
se solo si fosse conseguenti, non solo settori illuminati di borghesia sono “di
sinistra”, ma pure fascisti tutti di un pezzo o cattolici reazionari incalliti.
La seconda. Occorrerà pur sfatare la leggenda che il capitalismo uscì dalla
catastrofica crisi del ’29 grazie all’adozione delle terapie keynesiane. Esse
in effetti vennero adottate, non solo negli USA col New Deal roosveltiano e
in Gran Bretagna, ma pure nella Germania nazista e nell’Italia fascista (parli
del diavolo e spuntano le corna). Ebbene la piena occupazione e la ripresa
economica non ci furono né negli USA né in Gran Bretagna. Ci riuscì solo la
Germania, altrimenti detto grazie al colossale piano di spesa pubblica
finalizzata al riarmo. Solo dopo la seconda grande guerra mondiale il
capitalismo imboccò la via di un ciclo lungo di accumulazione e sviluppo e solo
dopo la immani distruzioni di forze produttive le ricette keynesiane poterono
dare dei risultati.
La
teoria di Marx
Marx non nacque economista, ma filosofo della storia.
Giunse a sistematici e impressionanti studi economici sul capitalismo moderno
dopo la sua più importante e controversa scoperta teorica: il materialismo storico.
Il capitalismo è solo l’ultimo venuto nella processione
dei diversi sistemi sociali e, come quelli che l’hanno preceduto, anch’esso è
destinato a perire, lasciando il posto, dopo un periodo di convulsioni sociali,
ad un sistema nuovo i cui elementi esso contiene in grembo. Occorre quindi: (1)
riconoscere di ogni sistema sociale, le fasi di genesi, di sviluppo e di
decadenza; (2) individuare le contraddizioni che ogni sistema sociale, nativamente,
contiene, e con ciò le ragioni, se il caso le leggi, per cui un dato sistema
sociale perisce; (3) identificare quindi le forze sociali rivoluzionarie che
spezzano i vecchi rapporti sociali portatrici di un più avanzato sistema
sociale e che sono destinate a prendere il sopravvento.
Il fatto che Marx abbia appoggiato la sua analisi del
capitalismo su questa base fa dire agli economisti della cattedra che essa è
priva di fondamento scientifico. Noi siamo di diversi avviso: riteniamo che
l’economia politica possa assurgere al rango di scienza solo in quanto
disciplina storico-economica. Marx criticò infatti gli economisti del suo tempo
come ideologhi borghesi, in quanto anche loro partivano da una visione (falsa) della
storia e del mondo, secondo cui il capitalismo sarebbe eterno e immutabile —la
qual cosa li spingeva a compiere un’analisi
normativa e superficiale che impediva di coglierne le più intime leggi di
movimento del capitalismo. Questa critica marxiana, come ognuno comprende, la
si può rivolgere anche a Keynes. Quest’ultimo, come detto, riconosceva alcune
contraddizioni del modo capitalistico di produzione, ma come tutti gli
economisti borghesi lo privava del suo carattere storico transuente. Di qui
l’idea che le contraddizioni di cui esso è vittima fossero appianabili grazie
all’intervento correttivo e terapeutico della pubblica autorità, dello Stato
cioè, che egli pensava come ente neutrale e salvifico.
Marx la pensava diversamente, e non perché escludesse che
in linea di principio lo Stato borghese, proprio in virtù del suo essere
strumento della classe dominante nel suo insieme, non potesse svolgere un ruolo
suo proprio, ovvero a difesa dell’ordinamento sistemico anche elevandosi sopra
la lotta accanita tra le diverse frazioni del capitale. Egli riteneva che il
modo capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad
almeno quattro leggi principali: (1) più le sue forze produttive si sviluppano
e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere;
(2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni
periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più
generale quanto più il boom è stato
consistente; (3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera:
distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con
conseguenze sociali devastanti;
(4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di
esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni,
controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.
Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza
del capitalismo, quella di sfociare nelle crisi
di sovrapproduzion [sulle crisi di sovrapproduzione vedi: La
teoria marxista spiega questa crisi? e Alle
origini del declino dell’Occidente], queste possono essere parziali oppure
generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi. E’ proprio quando l’economia
incontra queste crisi generali che immani quantità di capitali e forze
produttive debbono essere necessariamente distrutte, con conseguenze sociali catastrofiche,
con la società che è sospinta indietro di decenni. Tuttavia è proprio grazie a
queste crisi, che attengono alla fisiologia stessa del capitalismo, che esso può
far ripartire un nuovo ciclo di crescita, destinato a sua volta e sfociare in
una nuova crisi. Lo Stato della
borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici delle crisi di
sovrapproduzione, differirli nel tempo, non può mai essere risolutivo. In
ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi alle fisiologiche necessità della
classe economicamente dominante e quindi, dentro la crisi generale, passare
allo Stato d’eccezione per scaricare
i costi della crisi sul lavoro salariato soffocando la sua spinta emancipatrice,
e allo Stato di guerra per strappare
spazi vitali a capitalismi concorrenti.
La storia ha confermato le analisi di Marx. I suoi
detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di
un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità da nessuna parte Marx ha sostenuto che il
capitalismo fosse destinato al crollo,
se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un meccanismo
automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo “crollo”, come per
altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo storico
di convulsioni. E ove la classe oppressa si rivelasse incapace di prendere in
mano le redini della società, la società potrebbe sprofondare in una barbarie
con l’annientamento delle due principali classi in lotta.
Non vi aspettate che Marx abbia consigliato alla borghesia
eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un
rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa
consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema, che le crisi
cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di
produzione, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di
oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema
socialista. Cosa infatti ci avrebbe detto Marx davanti a questa nuova crisi
generale? Ci avrebbe detto di non indugiare a cercare soluzione parziali e
palliativi; ci avrebbe detto di organizzarci ed agire per farla finita una
volta per sempre col capitalismo poiché, ammesso che esso possa uscire da
questa crisi, ciò avverrebbe con costi sociali inusitati, anzitutto a spese del
lavoro salariato e del popolo lavoratore, con la certezza che in un periodo più
o meno breve ci sarebbe trovati da capo a dodici, alle prese con un’altra crisi
devastante. Ci avrebbe detto di batterci per la sola alternativa pensabile: il
socialismo.
Non dobbiamo farci ingannare dalle disquisizioni
sofistiche: l’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto
che la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale,
al pari delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella
economica, finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto
economico? Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per
soddisfare la gran parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i
quali quelli spirituali e culturali sarebbero menomati.
Per realizzare questo controllo sociale, questo è il
punto, occorre sottrarre i mezzi di produzione e di scambio dal dominio
proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a
fare i suoi propri egoistici interessi, e diventare, al parti di tutti gli
altri beni comuni, proprietà sociale. Avete dunque in mente di statizzare
l’economia e di applicare una rigida pianificazione? Per niente. La
statizzazione è solo una forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la
statizzazione verticistica, che farebbe della burocrazia statale un demiurgo
autoritario, e la completa e orizzontale autogestione, possono esistere
innumerevoli soluzioni mediane. E della stessa pianificazione economica,
considerata con orrore dai liberisti, ne esistono svariate modalità. Lo stesso
capitalismo, in barba alla “mano invisibile del mercato” conosce plurime forme di
pianificazione —cos’altro è la politica economica keynesiana se non una
pianificazione generale?. Non solo lo Stato programma e pianifica le sue
attività, e il governo “tecnico” (non a caso) di Mario Monti ne è una
cristallina espressione: siccome Stato muove la metà circa del Pil italiano
esso non solo pianifica fin nei minimi dettagli come reperire le entrare e
aumentarle (ovvero come spennare scientificamente il popolo lavoratore
graziando i possidenti di grandi capitali, anzitutto finanziari). Fanno altrettanto
anche i grandi gruppi monopolistici, che crollerebbero facilmente se non
pianificassero fin nei dettagli tutto il ciclo produttivo, dal reperimento
delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Solo
un’economia razionalmente pianificata può debellare la principale calamità che
affligge il capitalismo: la sovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile sperpero
di risorse e di energie consistente nell’accumulare mezzi di produzione e beni
(sotto forma di merci) che non solo si riveleranno inutili alla società e
dovranno essere distrutti, ma che arrecano danni spesso irreversibili al nostro
pianeta.
Che un giorno più o meno lontano possa realizzarsi un
“socialismo perfetto”, questo lo decideranno le future generazioni. Questa
generazione ha un compito forse più modesto ma decisivo: fare da battistrada,
aprire la via al socialismo, sapendo che la rivoluzione sociale è sì una
palingenesi ma non una catarsi, che la rivoluzione è pur sempre un processo,
fatto di fasi e momenti. Sapendo che occorrerà passare per tappe successive,
ognuna concatenata all’altra, ma il cui primo atto è necessariamente strappare,
per mezzo della sollevazione del popolo lavoratore, il potere politico statale
dalle mani della classe oggi dominante, ovvero dei suoi settori più oltranzisti
e liberisti. Solo disponendo di questa leva sarà infatti possibile attuare le
grandi e le piccole trasformazioni per una società liberata dalla catene del
capitale e per una vita degna di questo nome, non solo per pochi privilegiati,
ma per tutti.
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