martedì 4 settembre 2012

Pensioni da fame: le pensioni nel 2030 di Giorgio Faunieri, Il fatto Quotidiano

Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra che, per ammissione dello stesso ministro Ursula von der Leyen, costringerà il pensionato "a chiedere il sussidio statale di povertà"

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Guadagnate 2.500 euro al mese e vi sembra poco? Godetevela finché potete, perché il futuro potrebbe davvero grigio. A fare i primi conti su come si trasformerà l’importo una volta in pensione, ci hanno pensato i tedeschi che non la vedono affatto bene. E se i ricchi piangono, o meglio, piangeranno, figuriamoci i poveri italiani che ancora stanno cercando di orientarsi nei meandri del labirinto della riforma previdenziale del ministro Fornero. 
Ma partiamo con la Germania. Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra che, per ammissione dello stesso ministro Ursula von der Leyen, costringerà il pensionato “a chiedere il sussidio statale di povertà“. E a ritrovarsi in questa situazione non saranno coloro che hanno svolto un part time o lavorato con discontinuità, ma lavoratori a tempo pieno che per 35 anni hanno percepito un salario lordo di 2.500 euro. La colpa è della riduzione della percentuale di calcolo della pensione rispetto allo stipendio, che nel 2030 sarà del 43% del salario netto, contro l’attuale 51%, che garantisce a parità di stipendio una pensione di 816 euro.
Questi dati sono stati rivelati dall’edizione domenicale del quotidiano Bild, che scrive anche che, in una lettera inviata ai giovani parlamentari della Cdu, la von der Leyen sottolinea l’importanza di sottoscrivere una pensione aggiuntiva privata finanziata totalmente dal lavoratore. Secondo l’Ufficio statistico federale, più di un terzo degli occupati tedeschi a tempo pieno guadagna meno di 2.500 euro lordi al mese. Già oggi in Germania, dove dal 1998 è stato più volte riformato il sistema previdenziale, si va in pensione a 65 anni (per poi salire progressivamente a 67) e il costo del sistema previdenziale è pari al 10,5% del prodotto interno lordo, contro il 14,1% fatto registrare dall’Italia.
Secondo i dati raccolti dall’istituto Hans-Böckler, infermieri, panettieri, imbianchini, educatrici, commesse, camerieri, operatori socio-sanitari e cuochi sono alcuni degli impieghi il cui stipendio lordo medio è inferiore ai 2.500 euro. Tenuto conto del trend demografico la von der Leyen non intende però modificare l’attuale sistema pensionistico ma puntare sulle pensioni integrative. “Molti lavoratori non si rendono conto che rischiano la povertà in vecchiaia e che hanno assolutamente bisogno di una pensione integrativa per non cascare nella trappola della povertà una volta andati in pensione“.  I calcoli del ministero del Lavoro di Berlino si basano però solo sul cosiddetto primo pilastro pensionistico, ovvero la pensione erogata direttamente dallo Stato, a cui lavoratori e imprese versano contributi mensili nell’ordine del 20% equamente distribuiti (10% il dipendente e 10% l’azienda, in Italia per contro il lavoratore versa il 10% e l’azienda il 32%).
Nel sistema previdenziale tedesco esistono però anche un secondo e un terzo pilastro, rispettivamente i fondi aziendali e i fondi pensionistici volontari. Visto che i fondi aziendali sono molto diffusi e danno un deciso contributo al totale della pensione dei lavoratori, un confronto con l’Italia risulta estremamente difficile. Nel nostro Paese infatti mancano i fondi aziendali, mentre è stato da pochi anni avviato il conferimento del Tfr ai fondi pensioni. Al di là delle differenze dei due sistemi pensionistici, poi, c’è anche il fatto che in Italia oggi è impossibile calcolare in maniera realistica l’importo della pensione che un lavoratore percepirà nel 2030.
“Posso solo dire che per avere una pensione dignitosa, il lavoratore dovrà aver versato nel corso della sua vita lavorativa almeno 300-400 mila euro di contributi, una cifra molto alta – spiega Temistocle Bussino, docente della Bocconi in materia previdenziale – Una cifra del genere è difficilmente raggiungibile per un lavoratore dipendente, per chi ha altri contratti di lavoro è sostanzialmente impossibile“. Per Bussino anche in Italia, dopo il passaggio a un sistema esclusivamente contributivo, è di fondamentale importanza una previdenza complementare che vada a integrare quella erogata dallo Stato: “Allo stato attuale delle cose,  ma è molto probabile che cambino da qui al 2030,  la pensione è inferiore al 50% dell’ultimo stipendio percepito“.
Secondo l’esperto, infatti, potrebbero cambiare i coefficienti legati alla speranza di vita, così come non sono da escludere nuovi interventi sulle pensioni. “Non credo che i futuri governi interverranno sull’età a cui poter andare in pensione, perché la riforma Fornero prevede già che nel 2050 si possa andare in pensione a 70 anni, però non sono affatto da escludere interventi sui coefficienti, in modo da ridurre l’enorme costo del sistema previdenziale“, conclude Bussino. Insomma, anche i ricchi piangono ma i poveri di più.

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