1. Sarebbe troppo facile paragonare la promessa di 800.000 posti
stabili di lavoro del Ministro Padoan (grazie al Jobs Act) con l’analoga
promessa (di poco superiore) di un milione di posti di lavoro fatta da
Berlusconi esattamente 20 anni fa. L’analogia non sta solo nei numeri ma
soprattutto nella non corretta informazione (quindi mistificazione)
degli strumenti che si vorrebbero utilizzare per raggiungere l’obiettivo
dichiarato.
2. Berlusconi all’epoca aveva affermato che era sufficiente che un
imprenditore su cinque assumesse una persona e immediatamente si
sarebbero creati un milione di posti di lavoro. Una banale constatazione
che aveva il suo appeal comunicativo (ed elettorale) se il futuro nuovo
governo operava a favore dell’economia di mercato e della stessa
attività imprenditoriale, in un contesto di espansione economica. E
infatti l’argomentazione ebbe il risultato sperato, mettendo in un
angolo le scarse contro-argomentazioni dell’allora avversario Achille
Occhetto. Peccato che nessuno (e men che meno Occhetto) aveva fatto
rilevare che in Italia gli imprenditori non erano 5 milioni, ma solo
400.000 e quindi se uno su cinque (il 20%) assumeva una persona il
massimo dell’occupazione possibile era di 80.000 unità. Per imprenditore
si intende infatti colui che ha tre gradi di libertà (seppur
vincolata): libertà di decidere come, quanto e a che prezzo
produrre. Dei 5 milioni di lavoratori “indipendenti”, infatti, il 40%
circa (2 milioni) è composto da lavoratoti autonomi e partite Iva che
lavorano su commessa altrui (quindi eterodiretti), 20% sono liberi
professionisti iscritti agli albo di settore, 15% sono soci di
cooperative, 15% sono ditte familiari (dati Istat). I veri imprenditori
sono quindi meno del 10%. E infatti, il milione di posti di lavoro
divenne una chimera.
3. In un contesto economico del tutto diverso, l’attuale governo
promette 800.000 posti di lavoro a tempo indeterminato. In realtà non si
tratta di vera “creazione” di posti di lavoro, con conseguente calo del
tasso di disoccupazione, ma piuttosto di sostituzione di contratti
precari (cococo, tempo determinato, ecc.) con rapporti stabili di
lavoro, sulla base delle stime (di fonte ignota) relative al futuro
utilizzo del contratto di lavoro a tempo indeterminato con tutele
crescenti. Peccato che ciò oggi non venga ricordato come ai tempi di
Berlusconi non ci si ricordava del vero numero di imprenditori degni di
tale nome.
4. Oggi non ci si ricorda neppure che con la legge 78 approvata in
via definitiva lo scorso 16 maggio, nota come legge Poletti (o Jobs Act,
atto I), si sancisce la totale liberalizzazione del contratto a termine
(CTD) rendendolo a-causale (http://quaderni.sanprecario.info/2014/07/job-act-dal-diritto-del-lavoro-al-lavoro-senza-diritti-di-giovanni-giovannelli/).
Viene fittiziamente posto un limite massimo ai rinnovi possibili
(cinque), ma poiché i rinnovi non sono applicabili alla persona ma alla
mansione, basta modificare quest’ultima per condannare una persona al
lavoro intermittente a vita. La precarietà è stata così completamente
istituzionalizzata.
5. Come uno specchietto per allodole, a mo’ di compensazione, con il
testo approvato con voto di fiducia, si istituisce il contratto da
lavoro dipendente a tutele crescenti, in relazione all’anzianità di
servizio. Si tratta di un particolare “contratto a tempo indeterminato”
che dà la possibilità al datore di lavoro di interrompere il rapporto in
qualunque momento e senza motivazione nei primi tre anni. In pratica,
in questo lasso di tempo, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non
si applica. Inoltre, poiché nel testo non si dice se tale tipo di
contratto andrà a eliminare i contratti in essere, esso si aggiunge alla
normativa già esistente. Ci si dovrebbe allora domandare: se già si può
assumere (nel caso si voglia assumere) un lavoratore o una lavoratrice
con un contratto a termine senza alcuna giustificazione, perché mai un
datore di lavoratore sarebbe incentivato a utilizzare questo nuovo
contratto “a tutele crescenti”? Ebbene, potrebbe essere disposto a farlo
nel caso in cui avesse estrema necessità delle competenze e della
professionalità del lavoratore/trice. Ma grazie alla “tutela crescente”,
invece, potrà sottoporre a un periodo di prova, lungo la bellezza di
tre anni, anche coloro che hanno questi requisiti. Si tratterebbe quindi
di un contratto di lavorio di serie B, come evidenziano anche Boeri e
Garibaldo (http://www.lavoce.info/quali-tutele-quanto-crescenti/). Il capolavoro è compiuto, il futuro incerto.
5. Ci viene detto che liberalizzare il mercato del lavoro è
condizione necessaria e sufficiente per mettere un piede nel mercato del
lavoro, soprattutto a vantaggio delle giovani generazioni. Non è vero.
In primo luogo, tali politiche del lavoro sono sempre accompagnate da
politiche di riduzione dei costi di produzione delle imprese con effetti
di ridurre la domanda via austerity. La legge di stabilità 2015
presentata dal governo è un ottimo esempio. Diminuzione delle tasse
delle imprese (Irap), dei contributi sociali per i neo assunti a tempo
indeterminato, taglio di parecchi miliardi per la spesa degli enti
locali e centrali (giustificati demagogicamente dalla volontà di ridurre
gli sprechi, che, pure, ci sono, ma non di tale entità): provvedimenti
che vanno a sostegno dell’offerta, sostenuti dall’idea che aumentare i
profitti riducendo i costi faciliterà l’aumento degli investimenti e
quindi della produzione e dell’occupazione. Non vi è nessun
provvedimento serio a sostegno della domanda, se non gli insufficienti –
e non per tutti – 80 euro di elettorale memoria. Non viene introdotto
né un salario minimo, né un reddito minimo. Una seria riforma del
welfare a sostegno dei redditi più poveri non viene neppure presa in
considerazione. Non è necessario essere degli esperti economisti per
comprendere che se non vi sono stimoli seri e duraturi (strutturali)
alla domanda, anche in presenza di costi minimi, nessun imprenditore
sano di mente rischia di investire per aumentare la produzione se si
aspetta che poi le merci o i sevizi prodotti non verranno acquistati. Ne
consegue che il Pil langue e il rapporto deficit/pil non può ridursi se
il denominatore del rapporto non cresce, ma addirittura diminuisce.
6. In secondo luogo, oggi dopo vari anni di precarizzazione del
mercato del lavoro e di politiche di austerity siamo in grado di
misurare la loro efficacia. Qualche dato: nel corso dell’ultimo anno,
sono stati persi più di 200.000 posti di lavoro: è il saldo tra le
dismissioni e le assunzioni (dati Istat). Si tratta dell’effetto, mai
ricordato, che sono stati cancellati più di 550.000 posti stabili di
lavoro (grazie anche alle facilitazioni della riforma Fornero del giugno
2013 che ha introdotto il licenziamento individuale per motivi
economici) e sostituiti da 350.000 circa posti di lavoro precario (in
maggioranza a tempo determinato). Non solo l’occupazione è peggiorata in
quantità ma anche in qualità! Ma non solo. Se guardiamo all’occupazione
giovanile (dati Ocse), negli ultimi 5 anni la quota di giovani precari
sul totale dei giovani occupati è passata dal 43% al 55%. Eppure,
nonostante l’aumento della flessibilizzazione, il tasso di
disoccupazione giovanile è aumentato di oltre 10 punti percentuali, sino
a sfiorare il 45%. Infine, l’indice di protezione dell’impiego (un
indice che calcola la rigidità del lavoro) negli ultimi 10 anni è
diminuito di quasi un terzo in Italia (sempre dati Ocse), mentre la
disoccupazione è aumentata. A riprova che la causa prima della
disoccupazione non risiede solo nelle condizioni interne a mercato del
lavoro e men che mai nella sua presunta rigidità ma piuttosto nella
debolezza della domanda finale.
7. Quando il ministro Padoan ha dichiarato che verranno creati
800.000 posti di lavoro, forse voleva riferirsi anche al fatto che con
il piano Garanzia Giovani, introdotto nel Jobs Act Atto I e
finanziato dalla Comunità Europea, si introducono avviamenti al mercato
del lavoro per i giovani basati su stage sotto-remunerati, lavoro
volontario e servizio civile. Il paradigma del lavoro gratuito si sta
sempre più diffondendo nel nostro paese come modalità illusoria di poter
mettere appunto un piede nel mercato del lavoro e distogliere i nostri
giovani dalle sirene dell’ozio e della fannullaggine. L’evento Expo2015
testerà questa operazione. Ci saranno risultati? Difficile crederlo. Non
si sazia un affamato, invitandolo alla tavola più o meno imbandita di
un ristorante ma senza ordinargli nulla da mangiare!
8. Si dice che Renzi abbia inventato una nuova branca dell’economia
politica: l’economia dell’annuncio. Probabilmente è vero, anche perché
oggi l’annuncio caratterizza la svolta linguista della politica
economica, come ci ricorda Christian Marazzi. Ma purtroppo ad alcuni
annunci seguono fatti concreti, assai preoccupanti. Se guardiamo
l’insieme dei provvedimenti che compongono il Jobs Act (atto I e atto
II), crediamo che l’obiettivo sia di ridurre il mercato del lavoro
italiano in tre segmenti principali, in grado di procedere ad una
razionalizzazione della rapporto di lavoro precario, che ne consenta la
strutturalità e la generalizzazione, in una condizione di ricatto (e
sfruttamento) continuo:
a. si punta a fare del CTD il contratto standard per tutti/e, dai 30
anni all’età della pensione. Tale contratto, basato su un rapporto
individuale, ricattabile e subordinato deve diventare il contratto di
riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a
tempo indeterminato. A tale contratto si aggiungerebbe il contratto a
tutele crescenti (presentato a mo’ di pannicello caldo), che verrebbe
applicato soprattutto a coloro che presentano livelli di professionalità
medio-alti.
b. per i giovani con minor qualifica, l’ingresso nel mercato del
lavoro diventa il contratto di apprendistato, ora trasformato, in
seguito alle “innovazioni” introdotte dal Jobs Act (atto I), in semplice
contratto di inserimento a bassi salari (- 30%) e minor oneri per
l’impresa. Il target di riferimento sono essenzialmente i giovani al di
sotto dei 29 anni che non hanno titoli universitari (trimestrale e
magistrale).
c. per i giovani under 29 anni che invece hanno qualifica medio-alta
(laurea o master di I e II livello) entra in azione invece il piano
“garanzia giovani”, che, utilizzando i fondi europei del progetto 2020
(1,5 miliardi di euro stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di
quest’anno, su base regionale), intende definire una piattaforma di
incontro tra domanda e offerta di lavoro, con intermediazione di società
pubblico-private garantite a livello regionale, in cui si delineano tre
percorsi di inserimento al lavoro in attesa di poter essere poi assunti
con CTD o, ora, con il contratto a tutele crescenti: servizio civile
(gratuito), stage (semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il
modello è quello delineato dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo
di Milano, che ora viene esteso a livello nazionale. L’obiettivo è
aumentare – come si dice nel linguaggio europeo – l’occupabilità (employability),
ovvero definire occupati a costo zero circa 600.000 giovani (se tutto
funziona!), così da toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione
giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che nel 2015 il
tasso di disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!
Altro che aumento dell’occupazione!
Ne consegue che questa ristrutturazione del mercato del lavoro
sancisce la completa irreversibilità della condizione precaria,
confermandone la natura esistenziale, strutturale e generalizzata. Una
condizione che è tra le prime cause della stagnazione economica
dell’Italia: chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà
perisce.
9. Negli spot pubblicitari della Cgil che annunciano la
manifestazione di sabato 25 ottobre, per la prima volta si dichiara che
si vuole combattere la precarietà e non solo la disoccupazione, in nome
del diritto al lavoro e della dignità. Siamo nel 2014 a 30 anni esatti
dall’introduzione in Italia del primo contratto precario, il contratto
di formazione-lavoro del 1984. Meglio tardi che mai e benvenuti tra noi!
Ma non sarà un po’ tardi? Non si cerca di chiudere la stalla, quando i
buoi sono già scappati? E a quando la richiesta da parte sindacale di un
salario minimo e di un reddito minimo di base?
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