Da varie
settimane prosegue l’attacco da parte dei miliziani estremisti sunniti
dell’ISIS (Stato Islamico della Siria e dell’Iraq) contro Kobane, uno dei tre
cantoni a maggioranza kurda della Siria posti al confine con la Turchia. Questo
attacco, che ha già provocato la fuga di almeno 200.000 civili verso la
vicina Turchia, ha conquistato per molti giorni le prime pagine dei mass-media
occidentali che non dedicano invece spazio agli accaniti combattimenti che
continuano ad infuriare da tre anni in varie zone della Siria tra l’Esercito
Nazionale e la galassia delle formazioni jihadiste (ISIS, Jabhat Al-Nusra,
Fronte Islamico, Al-Sham, ecc.) che tentano di destabilizzare il paese.
Ma perché
tanta attenzione sull’ISIS e sulla coalizione (formata da Stati Uniti, Turchia,
Arabia Saudita, Qatar e un’altra ventina di paesi arabi, della NATO, e persino
l’Australia) che avrebbe deciso di combattere questo movimento armato che negli
ultimi mesi è dilagato nelle zone sunnite dell’Iraq ? Perché questa coalizione
non si è formata prima dopo che l’ISIS aveva già occupato da oltre un anno gran
parte del Nord-Est della Siria (le province di Raqqa e Deir-es-Zor traversate
dallo storico fiume Eufrate)? Come spiegare il (presunto) voltafaccia della
Turchia che, dopo aver
finora
appoggiato gli attaccanti impedendo ai militanti kurdi presenti in Turchia di
correre in aiuto degli assediati e vietando anche il passaggio di armi e
munizioni (rifornendo anzi sotto banco l’ISIS), ha nei giorni scorsi promesso
di far passare i “peshmerga” kurdi dell’Iraq?
L’ISIS, come
del resto gran parte delle formazioni jihadiste che combattono in Siria, è una
creatura dell’Arabia Saudita eterodiretta in particolare dall’ex
responsabile dei servizi segreti sauditi Bandar bin Sultan, per anni
anche ambasciatore saudita a Washington e grande amico di George Bush. Nelle
sue fila convergono militanti e mercenari provenienti da Pakistan, Turchia,
Arabia Saudita, Tunisia, Libia, Cecenia, Sinkiang cinese, ecc. Spesso si tratta
di ex-galeotti liberati ad hoc dalle carceri USA e dai paesi musulmani più
reazionari. L’ISIS è cresciuto incamerando uomini e armi da parte delle
formazioni più “moderate” (o estremiste concorrenti dell’ISIS) finanziate in
passato dagli stessi membri dell’attuale coalizione anti-ISIS, il cui
scopo rimane sempre quello di provocare la caduta del governo di Bashar Assad e
la disgregazione della Siria.
I
bombardamenti americani – peraltro molto limitati – sulle posizioni dell’ISIS
sono iniziati solo dopo che il mostro era andato fuori controllo ed aveva
attaccato i “peshmerga” del Nord-Iraq legati al clan Barzani e al partito PDK,
stretto alleato di USA, Turchia e Israele, e già utilizzato per abbattere il
governo di Saddam Hussein e tenere sotto “controllo” il successivo governo
sciita di Bagdad. In questo modo gli USA si stanno facendo belli spacciandosi
come difensori dei Kurdi e tentando di coinvolgere anche i Kurdi siriani nella
crociata anti-Assad.
La Turchia
fin dall’inizio della crisi aveva sottoposto ad embargo tutte le zone kurde
della Siria, considerando come pericolosi avversari i Kurdi siriani (riuniti
nel partito PYD) in quanto alleati con i Kurdi della Turchia riuniti nel
partito marxista PKK fondato da Ocalan e autore di una lunga guerriglia
indipendentista negli anni ’80 e ’90. La presunta “svolta” turca consiste nella
promessa di far passare i “peshmerga” iracheni filo-turchi e filo-americani, ma
non i combattenti del PKK, in modo da mettere indirettamente sotto controllo
turco i difensori di Kobane, accusati di trattare sotto banco con il governo
Assad da cui avrebbero ricevuto aiuti.
Il
governo turco di Erdogan e Davutoglu inoltre insiste nella richiesta di creare
una zona occupata dall’esercito turco all’interno della Siria ed imporre una
“no-fly zone” vietata agli aerei dell’Esercito Siriano. Ciò dimostra
chiaramente come la caduta del governo Assad rimanga lo scopo principale di
Erdogan, nonostante che questa politica sia impopolare nella stessa Turchia.
Da parte
loro i Kurdi siriani hanno fatto sapere ufficialmente di non essere alleati né
del governo né della presunta formazione “moderata” ESL (Esercito Siriano
Libero) ormai di fatto quasi smobilitata, visto che i suoi militanti hanno
trasmigrato in massa nelle formazioni estremiste jihadiste. Di fatto il PYD
siriano e le sue milizie armate femminili e maschili (JPG, YPG) da oltre due
anni non combattono contro l’Esercito Nazionale ed hanno dichiarato di seguire
una “terza via” basata sull’autonomia “democratica”, mentre invece hanno subito
continui attacchi concentrici da tutti i gruppi jihadisti (oltre l’ISIS)
e dagli stessi “fratelli” iracheni del partito di Barzani.
Nessuno in
quel caso è corso in loro aiuto. Nessuno ricorda inoltre nelle cancellerie
occidentali e nelle sedi dei grandi mass-media che finora è stato solo il
governo siriano di Assad a combattere aspramente su tutti i fronti con tutte le
formazioni jihadiste, ISIS compresa. Le sanguinose battaglie che l’esercito
siriano ha dovuto affrontare anche recentemente a Tabka nella provincia di
Raqqa, a Deir-es-Zor, e a Est di Palmira contro le orde dell’ISIS, e a Kuneitra
e nella zona di Qalamoun contro i miliziani di Al Nusra e altri gruppi
jihadisti, stanno a testimoniarlo (vedi, ad esempio, qui).
Se e quando
questa terribile crisi finirà e la Siria sarà riuscita a preservare la propria
identità e sovranità, è auspicabile un accordo tra governo siriano e Kurdi,
basato su una forte autonomia delle zone kurde. Il Baath siriano e il partito
kurdo PYD sono entrambi nazionalisti ma hanno in comune una visione laica con
tendenze socialiste e il riconoscimento dei diritti delle donne. Il dialogo è
possibile. Fin dall’inizio della crisi il governo aveva cercato di venire
incontro ad alcune richieste kurde concedendo la cittadinanza a molti Kurdi
immigrati che fino ad allora erano considerati apolidi illegali. Ma qualsiasi
accordo di questo genere presuppone la sconfitta delle formazioni jihadiste e
la fine dell’ingerenza di USA, Turchia, NATO, Arabia Saudita, Qatar negli
affari interni della Siria.
Vincenzo Brandi
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