sabato 11 ottobre 2014

QUEL CHE NON HA DIRITTO NÉ MAI CE L’AVRÀ di Sebastiano Isaia

St_Francis_in_Ecstasy
Quel che non ha diritto né mai ce l’avrà,
quel che non ha dominio né mai ce l’avrà.
È possibile, o semplicemente concepibile, una vita fuori dal diritto? Si può uscire dalla dimensione del diritto in forma individuale (personale), senza cioè mettere in questione l’ordine sociale colto nella sua compatta universalità? In che rapporto stanno vita e diritto?
Temerarie domande, la cui risposta è del tutto fuori dalla mia portata, lo riconosco. E tuttavia la sfida concettuale che esse lanciano è di quelle che “intrigano” il soggetto inquieto (e magari a volte anche un po’ inquietante!), che lo affascinano, anziché spaventarlo. Almeno è questo l’effetto che quelle abissali domande hanno su chi scrive.
Per cercare di rispondere a queste domande naturalmente occorre mettersi preliminarmente d’accordo, magari solo a grandi linee, sul significato che bisogna attribuire al diritto, concetto peraltro da sempre assai ambiguo. E, come si vede, anche qui non ci muoviamo affatto su un facile terreno, visto che il termine in questione ammette, per così dire, diversi giudizi di valore e molteplici declinazioni: da quelle di natura politica a quelle squisitamente filosofiche (e teologiche), da quelle di natura etica a quelle “freddamente” giuridiche, e così via. Insomma, con tre sole domande ho posto in realtà una complessa costellazione di problemi concettuali, tutti di grande significato.
Come si comprende invito il lettore a muoversi su un terreno non solo pieno di asperità, ma in buona parte del tutto incognito, perché esso promette di condurre chi scrive e chi legge al di là del presente, almeno con il pensiero.
Ma per comprendere le possibilità radicate nell’attualità è forse indispensabile decifrare alcuni segni incisi sulle pagine della storia a noi più remota. Per capire verso quale dimensione esistenziale potremmo dirigerci lasciandoci alle spalle lo stato disumano delle cose forse dobbiamo volgere il viso al passato, come l’Angelus Novus di cui parlò una volta Walter Benjamin, e interrogare «la catastrofe che la storia accumula senza tregua». Almeno così la pensa Giorgio Agamben, sempre che chi scrive non abbia completamente travisato l’intenzione politico-filosofica che pulsa al centro della sua riflessione intorno all’Altissima povertà, che è poi anche il titolo di un suo interessante saggio pubblicato per Neri Pozza nel 2012. È infatti la lettura di quel saggio, dedicato al monachesimo medievale europeo e alla scelta di vita di Francesco d’Assisi, che suggerisco a chi intendesse accettare la sfida intellettuale (e politica, in sommo grado) lanciata dalle impegnative domande d’apertura.
Quel che segue non è una – peraltro tardiva – recensione, ma una “libera riflessione” solo in parte sollecitata dalla lettura del saggio in questione.
san%20francesco%20giottoDalla ricerca di Agamben risulta, sempre posto che la mia interpretazione colga nel segno, che l’altissima paupertas non fu il fine del monachesimo e di Francesco, ma piuttosto il mezzo che alcuni individui usarono per tentare la fuga dalla maligna (questa è una mia valutazione) dimensione del diritto. Si trattò quindi, almeno all’inizio del monachesimo e del francescanesimo, di un tentativo personale, anche se condiviso da un piccolo gruppo che col tempo andrà ampliandosi, testimoniando al contempo il successo e la crisi di una vicenda che se interrogata adeguatamente fornisce risposte che forse possiamo ancora intendere e perfino mettere a profitto, per usare una locuzione molto in sintonia con i nostri tempi.
Si trattò di un’esperienza di vita (la banale locuzione ha qui un significato molto profondo) che non voleva né poteva mettere in questione un ordine sociale che rimaneva saldamente ancorato al diritto, semplicemente perché non poteva farne a meno. E non poteva farne a meno, come non può farne a meno oggi (e qui naturalmente si tratta sempre di mie considerazioni), a ragione della struttura classista della società.
Ed è precisamente in questa condizione materiale che a mio avviso si radica storicamente il diritto, che non a caso faccio coincidere senza residui di sorta con il dominio. Per me il diritto è un altro modo di essere e di nominare il dominio: l’uno e l’altro sono fatti della stessa sostanza storica e sociale e in realtà essi sono, nell’essenza, una sola cosa. Di qui, il carattere di mera apparenza della dialettica che il pensiero crede di cogliere nel rapporto tra diritto e dominio; una falsa dialettica che da sempre inganna anche gli umanisti più sensibili e più aperti alle possibilità che il presente concede all’emancipazione universale. Il diritto può essere umanizzato? Lasciamo per adesso la domanda priva di una risposta.
È la divisione in classi sociali degli individui, che si è prodotta insieme al dominio della natura esercitato dell’uomo (che difatti è continuato senza soluzione di continuità nel dominio dell’uomo da parte dell’uomo), il vero e proprio peccato originale della Civiltà, la cui genesi l’umanità – qui genericamente intesa – ha pagato a carissimo prezzo in termini di vera libertà e di autentica umanità. Nietzsche colse nel segno, sebbene da una prospettiva che forse non sbaglieremmo a definire aristocratica e apologetica, quando individuò il carattere ambiguo e problematico della Civiltà, quando cercò di illuminare il fondo oscuro del percorso che aveva condotto gli uomini fuori delle loro primitive condizioni di esistenza, più prossime alla vita animale che a quella umana descritta già nelle prime forme artistiche di espressione dei concetti e delle passioni. «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura. […] L’illuminismo al servizio del presente si trasforma nell’inganno totale delle masse» (1). L’illuminismo al servizio del Dominio, l’illuminismo sotto la vigenza di rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, mi permetto di chiosare.
Abbiamo imparato a dominare fin nei minimi dettagli la natura, al punto da riuscire a creare nei laboratori e nelle industrie sue perfette copie artificiali, ma rimaniamo sempre più impigliati nella fitta rete di una prassi sociale che, per l’essenziale, non controlliamo e che viceversa ci controlla. Il Moloch che creiamo con le nostre mani e con la nostra testa tutti i giorni ci tiene sempre più strettamente in pugno. Tutti. Anche chi ha la fortuna – diciamo la ventura – di appartenere alle classi dominanti.
Se così stanno le cose, in che senso possiamo parlare di libertà, di responsabilità e di libero arbitrio senza scivolare nell’autoinganno e nell’ideologia? È qui che a mio avviso bisogna collocare la riflessione intorno ai concetti posti sul tappeto, per giungere a una definizione del diritto che sia quanto più fondata e meno arbitraria/soggettiva possibile.
Mi permetto una piccola digressione, che può forse contribuire a chiarire il punto di vista concettuale dal quale approccio la dialettica del progresso e la prospettiva dell’emancipazione degli individui, due “problematiche” che stanno tra loro in un profondo rapporto. Scriveva Zygmunt Bauman in suo saggio di successo di qualche anno fa: «Il termine “individuo” affiorò alla consapevolezza della società (occidentale) nel XVII secolo, agli albori dell’età moderna. Essa esprimeva un compito, non immediatamente intuibile dal nome datogli fin dall’inizio: il termine, di derivazione latina, implica in primo luogo e principalmente – come il greco a-tom – l’attributo dell’indivisibilità. […] Quando oggi si sente pronunciare la parola “individuo” difficilmente si pensa all’”indivisibilità”; al contrario, l’”individuo” (proprio come l’atomo della chimica fisica) fa riferimento a una struttura complessa eterogenea fatta di elementi altamente separabili, raccolti in un’unità precaria e fragile da una combinazione di attrazione e repulsione, di forze centripete e centrifughe, in un equilibrio dinamico, mobile e continuamente instabile. […] Nella fase iniziale di tale trasformazione lo studente Karl Marx osservava che quando il sole tramonta le falene cercano la luce delle lampade, la cui attrazione cresce man mano che sul mondo esterno cala l’oscurità. L’ascesa dell’individualità è stata la spia del progressivo indebolimento – per disintegrazione o distruzione – della fitta rete di legami sociali che avviluppava strettamente la totalità delle attività della vita» (2).
Non c’è dubbio. Tuttavia, nel delineare questa «dialettica dell’illuminismo» occorre sempre ricordare che la totalità sociale andata in frantumi di cui parla Bauman era minata alla base dalla propria inadeguatezza a corrispondere al concetto di «uomo umano», il quale già allora pulsava nel seno della comunità come splendida possibilità. Viceversa, facilmente si cade nel nostalgico mito di una mai esistita età dell’oro. Le società pre-classiste vivevano in una condizione materiale fin troppo precaria, soprattutto perché esposte alle cieche leggi della natura, per non prestare il fianco, per così dire, alla loro evoluzione (o involuzione) in senso classista. Per questo una volta Marx disse che il comunismo praticato in una società economicamente e socialmente non sviluppata avrebbe, presto o tardi, riprodotto «la vecchia merda borghese», in una sorta di coazione a ripetere del dominio. È questo che penso quando rifletto a tutti i tentativi di fuoriuscire dalla dimensione del Dominio attraverso un – a questo punto impossibile – ritorno indietro, magari verso forme di Capitalismo meno sviluppate e più “umane” (basate ad esempio sul lavoro agricolo e l’artigianato).
Questo ovviamente non mi induce a conclusioni di stampo teleologico circa l’inevitabilità del progresso umano così come esso si è concretamente realizzato: l’umanità, nella sua storia, non procede secondo una via razionale determinata in ogni suo momento, come se tutto quello che ci sta alle spalle avesse avuto il solo scopo di rendere possibile il Capitalismo, o il suo superamento, come teorizzano i credenti nell’inevitabilità del Comunismo – peraltro variamente concepito dalle diverse scuole “marxiste”. Per chi scrive la Comunità Umana non è inevitabile (tutt’altro!), benché essa sia radicata saldamente nel cuore stesso del Dominio. Ma qui conviene chiudere la digressione.
Ubi homo, ibi societas. Ubi societas, ibi ius. Ergo ubi homo, ibi ius: il sillogismo proposto da questo celebre aforisma merita il più profondo, il più radicale dei trattamenti critici. Io non smetto di provarci, con esiti che non spetta a me giudicare.
imagesScrive Angelo Falzea: «Bisogna ribadire il nesso biunivoco tra umanità e diritto e riconoscere che come non vi è diritto al di fuori degli uomini non vi sono uomini che, avendo dignità umana, non vivano secondo diritto» (3). Mentre Falzea, sulla scorta del razionalismo filosofico che forse ha in Aristotele il suo più antico esponente, si riferisce a una generica umanità e a un generico uomo, concetti che si prestano bene, ad esempio, a porre la distinzione tra uomo e natura, tra ciò che è umano (ossia frutto della prassi sociale) e ciò che è naturale, la mia riflessione è volta a riempire di contenuti storici, sociali e filosofici quei concetti, i quali prima facie si danno con assoluta semplicità. È la stessa riflessione che ha portato molti filosofi a elaborare il concetto di uomo in quanto uomo, a interrogarsi su ciò che davvero fa di un individuo un uomo nell’accezione più pregnante (umana) del termine, e che costrinse Primo Levi a chiedersi se questo è un uomo. Ebbene, per me questo non è – ancora – un uomo. Capovolgo dunque nei termini che seguono il «nesso biunivoco» stabilito da Falzea: dove c’è l’uomo in quanto uomo non c’è il diritto, e dove c’è il diritto l’uomo in quanto uomo non può respirare. Il Dominio, a cui il diritto è intimamente e inscindibilmente connesso, nega in radice agli individui ogni possibilità di una esistenza autenticamente umana.
Pervengo alla conclusione che umanizzare il diritto equivale a negarlo: la natura stessa del diritto, almeno come lo interpreta chi scrive, non offre altre alternative a chi si pone il problema di umanizzare l’intero spazio esistenziale degli individui. Diritto, Civiltà, Dominio: sono, questi, concetti che a mio avviso si presuppongono e pongono vicendevolmente; l’uno deve necessariamente chiamare in causa l’altro. Solo se si afferra il filo nero che tiene insieme questi concetti è possibile cogliere la complessa dialettica sociale che la realtà a essi sottostante non cessa di produrre.
E qui ritorniamo, per concludere rapidamente, al saggio di Agamben. Tra i tanti e fecondi fili che si possono tirare dalle pagine del libro, ne tiro solo pochissimi (e non è affatto detto che siano quelli in assoluto più interessanti), giusto per stimolare la curiosità del lettore.
L’esperienza francescana che emerge dalle pagine di Altissima povertà appare come il tentativo, non importa quanto “materialisticamente” fondato e razionalmente credibile, di scrollarsi di dosso il diritto, vissuto come un’opprimente corazza di civiltà. Per il Frate d’Assisi si trattò di emanciparsi da questa corazza, di spogliarsene, letteralmente. «In questione, per l’ordine e il suo fondatore, è l’abdicatio omnis iuris, cioè la possibilità di un’esistenza umana al di fuori del diritto. […] Nella prospettiva che qui c’interessa, il francescanesimo può essere definito come il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto» (4). Ancora un passo molto significativo: «Se, da una parte, gli animali sono umanizzati e diventano “frati” (“chiamava tutte le creature col nome di fratelli”), per converso, i frati sono equiparati, dal punto di vista del diritto, a degli animali». Animali che, com’è noto, non conoscono il diritto, né conoscono la politica (vedi la definizione aristoteliana di uomo come animale politico), né tanto meno l’economia (almeno come essa viene concettualizzata dalla scienza economica borghese), né tutto ciò la cui vigenza presuppone e pone sempre di nuovo la divisione in classi sociali degli individui.
chiara_francescoA proposito del tempo concettualizzato e praticato dal monachesimo, Agamben fa un’interessantissima riflessione intorno al “monachesimo” sadico rappresentato nelle 120 giornate di Sodoma. La citazione che segue è forse in qualche (segreto?) modo connessa con quella riflessione: «Justine, la sorella buona, è una martire della legge morale. Quanto a Juliette, è vero, tira le conclusioni che la borghesia voleva evitare: essa demonizza il cattolicesimo come ultima mitologia e con esso la civiltà in generale. […] I comportamenti preistorici, su cui la civiltà ha posto un veto, hanno condotto un’esistenza sotterranea, trasformandosi, sotto il marchio della bestialità, in comportamenti distruttivi. Juliette li esegue, non più come naturali, ma proprio perché vietati. Essa compensa il verdetto contro di essi, infondato come tutti i giudizi di valore, con un giudizio di valore opposto. Quando essa ripete le reazioni primitive, esse non sono più, così, primitive, ma bestiali. Juliette incarna. […] il piacere intellettuale della regressione, l’amor intellectualis diaboli, il gusto di distruggere la civiltà con le sue stesse armi» (5). In effetti, le vie che promettono di condurre oltre la Civiltà sono praticamente infinite, e non c’è dubbio che da sempre la vita degli animali, così aliena da pregiudizi di sorta e da meschine ipocrisie, ha funzionato come modello per molti individui in rotta di collisione con lo status quo esistenziale.
Francesco comprende o, meglio, intuisce che per porsi fuori, hic et nunc, dalla sfera del diritto non è sufficiente assumere nei confronti dello status quo un atteggiamento critico in termini ideologici ed etici: occorre in qualche modo produrre una nuova dimensione esistenziale, generare una nuova vita, opposta a quella che si rigetta sul piano concettuale, emotivo, psicologico. Occorre uscire fuori dello status quo non solo con la testa, cioè in termini razionali (nella fattispecie ponendosi deliberatamente fuori dalla liturgia e dal dogma della Chiesa di Roma) e spirituali, ma anche con il corpo, se mi si concede questa “stratificazione” ontologica che in realtà non ha molto senso e che mi serve solo per rendere chiaro a me stesso il filo del ragionamento. Ma è possibile produrre una nuova vita senza generare immediatamente un nuovo diritto? Una volta Marx disse che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica e allo sviluppo, da essa condizionato, della società» (6). Anche di questo fatto forse dovremmo tener conto per non perderci nella complessità concettuale e reale qui evocata.
Francesco «rompe con il padre per seguire nudo il Cristo nudo», per dirla con Giovanni Lazzati (7). Qui il padre non rappresenta solo gli affetti, ma anche e soprattutto gli averi, quella proprietà che tanto ripugna la sensibilità del figlio. La rottura con il diritto o è radicale o non è: su questo terreno non sono possibili compromessi né scorciatoie. Sotto questo aspetto il problema è posto dalle cose stesse in termini squisitamente materialistici, per così dire. La nudità del corpo testimonia il carattere radicale del gesto francescano, ma anche la sua intrinseca debolezza. La novitas vitae immaginata e praticata dal frate minore d’Assisi «poteva essere tollerata in un piccolo gruppo di monaci girovaghi (poiché tali erano all’inizio i francescani)», ma «difficilmente poteva essere accettata per un potente e numeroso ordine religioso» (8). A quel punto, infatti, l’oggettività delle cose poneva un inderogabile aut-aut: o l’intero mondo si assoggettava alla novitas vitae, oppure essa doveva scomparire come concreta alternativa, attraverso una sua morta formalizzazione di tipo istituzionale, una sua caduta nella positività, per riprendere un importante concetto hegeliano elaborato in riferimento all’evoluzione delle primitive comunità cristiane (9). Il “dualismo di potere” esistenziale non poteva durare a lungo, e alla fine il compromesso di fatto stabilito doveva risolversi in una sconfitta di una delle due parti in conflitto.
Francesco sceglie la strada dell’uso dei beni e abbandona quella del loro possesso esclusivo (o proprietà privata), perché è il possesso di uomini e cose che fonda il diritto. La massima regola è vivere sine proprio. È questa, per il Frate d’Assisi, la via che conduce alla salvezza della vita. Della vita, non solo alla salvezza dell’anima, che egli non riesce a concepire staccata dal proprio corpo. E difatti il gesto francescano di denudarsi non è meramente simbolico né, tanto meno, provocatorio; come già detto, fuoriuscire dal diritto per Francesco non può avere altro significato che la propria fisica uscita dallo spazio di civiltà che lo rende possibile e concepibile – razionale.
Egli si pone nei confronti della Chiesa e del mondo in una cosciente condizione di minorità, come il figlio che usa i beni del padre senza esserne il proprietario e senza rivendicarne a nessun titolo la proprietà. E difatti, è nei termini di un gesto ingenuo e puerile, forse persino folle («folle in Cristo»), che il mondo del Diritto, sia quello religioso che temporale (anche qui la distinzione è in effetti puramente formale), interpreta il gesto francescano, incomprensibile appunto perché compiuto da un adulto, non da un bambino, né da un vecchio rimbambito. Il nome che il poverello d’Assisi sceglie per il nuovo ordine (Frati Minori) è molto più che un segno di umiltà: è piuttosto un programma, chiamato a preservare le condizioni materiali di una scelta di vita. Come dicevo, Francesco non intese coinvolgere il mondo nella sua difficile scelta pauperista, e anzi invitò chi desiderava seguirlo sull’aspro cammino della povertà, chi, come lui, sceglieva di indossare «abiti che si possono rattoppare con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio», di astenersi dall’inveire contro l’altrui modus vivendi: «ammonisco ed esorto [i Frati] di non disprezzare e di non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usano cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso» (Regola non bollata, 1221). Il sine proprio vale solo per chi sceglie di allontanarsi dagli agi della Civiltà, la quale non va demonizzata ma semplicemente lasciata al suo destino.
Ma è proprio nel gesto che rifiuta per sé la proprietà per delegarla, di fatto, a un’istanza superiore (la Chiesa, il mondo degli adulti e degli assennati), che secondo Agamben insiste l’«ambiguità del gesto francescano», la quale presterà il fianco agli attacchi filosofici, giuridici e teologici dei nemici degli ordini mendicanti, ma anche alla strumentalizzazione della Chiesa Romana, la quale a tempo debito saprà usare molto efficacemente proprio gli ordini pauperistici, così radicati fra la povera gente e così in alto nella considerazione degli individui più sensibili (spesso la sensibilità entra in urto, “oggettivamente”, con l’ordine sociale), nell’opera di controllo sociale e nella spietata lotta contro i movimenti ereticali.«Nell’apologia pauperum, scritta nel 1269 in risposta all’attacco dei maestri secolari di Parigi contro gli ordini mendicanti, Bonaventura distingue quattro possibili relazioni alle cose temporali: la proprietà, il possesso, l’usufrutto e il semplice uso. Di questi, solo l’uso è assolutamente necessario alla vita degli uomini e, come tale, irrinunciabile. […] Francesco è stato più preveggente dei suoi successori, rifiutando di articolare in una concettualità giuridica e lasciando indeterminato il suo vivere sine proprio» (10).
Nel 1279 il pontefice Niccolò III riconosce e ratifica con la bolla Exiit qui seminat la separazione della proprietà dall’uso: «Niccolò III può dichiarare che la proprietà di tutti i beni di cui i frati hanno l’uso spetta al papa e alla Chiesa» (p. 155). Come nota Agamben, Niccolò III introduce nella disputa giuridico-teologica un concetto assai pregnante sia in termini giuridici, sia dal punto di vista filosofico: l’uso del bene «soltanto di fatto» (usus facti) e «non di diritto» (ius utendi). L’uso di un bene non genera automaticamente un diritto, di qualsiasi genere esso sia. La sottile distinzione fra uso di fatto e uso di diritto naturalmente sollevò dubbi e ostilità presso gli avversari della povertà come scelta e regola di vita, e alla fine Giovanni XXII chiuse la partita con il pauperismo militante emanando nel 1322 la bolla Ad conditorem canonum. «Anche Tommaso, di cui Giovanni XXII preparava la canonizzazione, aveva affermato che nelle cose “il cui uso coincide con il loro consumo […] l’uso non può essere separato dalla cosa stessa”» (p. 159).
D’altra parte i beni, ancor prima di essere posseduti e usati, devono venir prodotti, cosa che presuppone quella cattiva (disumana) dimensione esistenziale dalla quale Francesco desiderava fuggire. La stessa carità come mezzo idoneo a procacciarsi cibo e vestiario non può sottrarsi alla maledizione del lavoro sfruttato. Può tutt’al più allungare la filiera delle mediazioni, e così celare l’odiosa verità, ma non può sopprimerla. L’utilità sociale di un bene, e quindi il suo effettivo uso, si afferma tramite la mediazione dei rapporti sociali. Ad esempio, nella società capitalistica il valore di scambio è l’espressione tipica di questa mediazione. Di qui, il bisogno di umanizzare anche la prassi che crea la ricchezza sociale, concetto questo che qui allude alla creazione di beni d’uso, non di valori di scambio, ossia di merci.
Com’è noto, per Marx l’umanissimo salto dal Regno della necessità al Regno della libertà si avrà solo quando il lavoro perderà ogni carattere coattivo e normativo, e acquisterà i caratteri di una libera espressione dell’individuo, di un’attività esercitata liberamente alla stregua di altre attività non finalizzate direttamente alla creazione di valori d’uso strettamente indispensabili alla conservazione della nuda vita degli individui. Nella Comunità regolata dai bisogni, l’uomo «mangia» solo perché egli esiste nella sua qualità di uomo, con ciò che questo concetto presuppone e pone sul terreno della multiforme prassi umana, a iniziare dalla capacità degli individui di padroneggiare completamente le leve essenziali che rendono possibile la loro esistenza. Cosa che nell’odierna società dominata dalle necessità economiche e dalla legge del profitto non è concessa a nessuno, nemmeno alla classe dominante. In questo stretto senso si può ben dire che mai la merce sfamerà l’uomo, compito che spetterà, semmai, al bene, cioè a dire al valore d’uso».
Naturalmente è impossibile comprendere l’inaudito gesto francescano senza collocarlo nel suo contesto storico (basti pensare ai movimenti ereticali del XIII secolo, ai gravi conflitti sociali che attraversavano la società del tempo, alle crepe politiche e teologiche che si aprivano continuamente nella stessa Chiesa Romana), e senza riferirlo alle dolorose esperienze che travagliarono la vita del giovane benestante di Assisi (è sufficiente ricordare la partecipazione di Francesco a diverse spedizioni belliche e, soprattutto, la sua prigionia durata un anno e che molto lo segnò fisicamente, psicologicamente e spiritualmente). Ma tutto questo qui è semplicemente dato per acquisito. Ciò che ho inteso mettere in luce in queste poche righe non è il fatto in “sé e per sé”, ossia l’esperienza del monachesimo (che qui in effetti non ho affrontato) e la scelta di vita di Francesco, ma piuttosto l’acuta interpretazione che di esse ha dato Agamben, e che si compendia appunto nella tentata fuga dal diritto. Tentata e solo in parte riuscita. Ma anche il risultato qui conta poco, mentre il fascio di luce va puntato a mio avviso su quell’umanissimo tentativo, sulle motivazioni che lo resero concepibile e praticabile, sebbene con i limiti e le contraddizioni che Altissima povertà coglie molto bene.

(1) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Concetto di illuminismo, in Dialettica dell’illuminismo, p. 12, Einaudi, 1999.
(2) Z. Bauman, Vita liquida, pp. 7-9, Laterza, 2006.
(3) A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto di diritto, p. 8, Giuffrè, 2008.
(4) G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, p. 136.
(5) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Juliette, o illuminismo morale, in Dialettica dell’illuminismo, p. 100.
(6) K. Marx, Critica al programma di Gotha, p. 42, Savelli, 1975
(7) G. Lazzati, Presentazione a Francesco d’Assisi, Università Cattolica, Milano, 1982.
(8) G. Agamben, Altissima povertà p. 168.
(9) G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, p. 219, Giunta, 1977. Scrive Agamben: «Nella tensione che il francescanesimo instaura fra regola e vita, non c’è posto per qualcosa come una applicazione della legge alla vita, secondo il paradigma dei poteri mondani (fra i quali nel vocabolario dell’epoca poteva essere inclusa più o meno direttamente anche la Chiesa)».Non vivere secondo la regola, ma fare della stessa regola una vita. Senza esperienza vissuta la regola si fa appunto positiva; essa cioè si irrigidisce in una morta forma incapace di parlare al cuore degli uomini. Di qui, la differenza tra Cristo, che si limitò a vivere secondo certe regole, e il movimento che da lui prese il nome che quelle regole cercò di sistemare concettualmente, di spiegare, di giustificare, di propagandare, di difendere.
(10) G. Agamben, Altissima povertà p. 152.

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