I dati ufficiali, rilasciati dall’Istat e riguardanti l’inflazione di settembre, confermano la tendenza alla deflazione in Italia. Tali dati sono importanti per valutare la natura della crisi in atto e delle politiche delle istituzioni europee.
L’Istat usa due indici per calcolare l’inflazione, il NIC, riferito ai consumi dell’intera comunità nazionale e il FOI, riferito ai consumi di operai e impiegati. Il NIC registra a settembre 2014 un calo dei prezzi del -0,2% rispetto a settembre 2013 e del -0,4% rispetto ad agosto 2014. Risultati pressoché identici sono registrati con il FOI, che diminuisce del -0,1% rispetto all’anno precedente e del -0,4% rispetto al mese precedente. Tali risultati rientrano in una tendenza di fondo caratterizzata dal calo progressivo dell’inflazione, che parte dal +0,9% (NIC) di settembre 2013 e arriva alla deflazione attuale. La deflazione, ad ogni modo, non si limita all’Italia: nell’Eurozona si è registrato un calo del -1,4% dei prezzi alla produzione industriale ad Agosto 2014 sullo stesso mese dell’anno precedente.
Quali sono le ragioni del calo dell’inflazione e del presentarsi della deflazione? Secondo l’Istat la deflazione dipende in gran parte dai beni energetici, i cui prezzi calano del -4,5% tra settembre 2014 e settembre 2013. Comunque, ad essere in calo sono i beni in generale (-0,6%), soprattutto, oltre a quelli energetici, i beni durevoli, i tabacchi, e gli alimentari non lavorati, mentre i servizi crescono (+0,6%). Quindi, la ragione della deflazione è, almeno in parte, dipendente dal calo dei prodotti energetici, ben rappresentato dal crollo del prezzo del petrolio greggio, che da 147 dollari per barile del 2008 è passato, per il Brent, a 88,11 dollari, rischiando di scendere sotto i 70 dollari.
Ma perché il prezzo del greggio è calato? In parte, ciò è dipeso dall’apprezzamento del dollaro, la valuta con cui vengono commercializzati a livello mondiale il petrolio e le altre principali materie prime. In parte, è dipeso da una combinazione di aumento dell’offerta e di calo della domanda. L’offerta è aumentata perché i produttori, avendo fatto enormi investimenti negli ultimi anni e potendo sfruttare giacimenti meno economici, grazie agli alti prezzi raggiunti dal greggio, hanno incrementato la produzione. La domanda, invece, è calata per vari fattori, come il miglioramento delle tecniche di risparmio energetico e il fatto che gli Usa, i maggiori consumatori mondiali, hanno diminuito le loro importazioni, grazie allo sfruttamento di giacimenti shale interni.
Ma la ragione principale del calo dei prezzi del petrolio è più strutturale, essendo imputabile alla fase che sta vivendo l’economia mondiale, cioè al fatto che la produzione industriale ha subito un crollo e, malgrado l’ottimismo sulle presunte riprese, non è ancora ritornata ai livelli precedenti al 2008. Del resto, il calo dei prezzi non si registra solo nel petrolio, ma anche nel carbone, nei minerali di ferro e nei cerali, i cui prezzi, in calo per il quarto anno consecutivo, sono ritornati ai livelli del 2009, cioè al periodo più nero della recessione. Inoltre, come abbiamo visto dai dati Istat, la deflazione non colpisce solo i prodotti energetici, ma anche i prodotti dell’industria manifatturiera, segno di una difficoltà più generale, evidentemente collegata al crollo dei consumi, a sua volta connesso con il calo dei salari e dell’occupazione.
Anche l’andamento altalenante e l’apprezzamento recente del dollaro è strettamente collegato alla crisi. Infatti, i governi Usa – sia di Bush sia di Obama – hanno affrontato la crisi e l’avrebbero risolta (il condizionale è d’obbligo), immettendo una enorme liquidità nel sistema economico, attraverso contributi alle imprese e acquisti di titoli del Tesoro da parte della Fed. L’aumento della liquidità ha svalutato il dollaro che, però, quando il governo Obama e la Fed hanno deciso di chiudere i rubinetti della liquidità, si è rapidamente rivalutato. Il risultato è che l’economia mondiale è sottoposta a shock continui, che dimostrano non solo che l’economia mondiale non si è ancora ripresa, ma che la “ripresa” è stata in gran parte artificiale e determina effetti indesiderati devastanti.
La deflazione è un indicatore della gravità della crisi. Quando l’inflazione cala per un periodo di tempo lungo e arriva a trasformarsi in deflazione significa che la crisi è tutt’altro che congiunturale. La deflazione, però, non è solo un effetto della crisi, bensì retroagisce su di essa con conseguenze pesanti. Infatti, la deflazione è un problema per il capitale, perché erode, attraverso il calo dei prezzi, i livelli di profitto in proporzione agli investimenti (saggio di profitto). Di conseguenza, le imprese sono ancora più stimolate a ridurre o a tagliare i nuovi investimenti, a assumere solo se possono licenziare liberamente (in base dell’andamento della congiuntura a breve) e a mantenere alto il saggio di profitto attraverso la riduzione della parte del valore prodotto che va ai lavoratori, cioè riducendo il salario e il welfare. Questa è la logica che sta dietro il Job act. Allo stesso tempo, i capitali tendono a fuggire nelle attività speculative e nei settori che consentono di praticare prezzi alti, perché risultato di attività condotte in regime di monopolio. E questa è la logica che sta dietro le privatizzazioni. A trarre profitto di queste misure e dalla svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro saranno le imprese grandi e esportatrici, quasi sempre multinazionali, che possono anche giocare sulle variazioni dei cambi valutari internazionali.
Lo scenario che si presenta non lascia intravvedere una evoluzione positiva della crisi. L’eccesso di accumulazione di capitale, sotto forma di mezzi di produzione, che è alla base della crisi del 2008, appare tutt’altro che risolto e non cessa di manifestare le sue conseguenze negative. L’ultimo esempio potrebbe verificarsi nell’industria estrattiva e petrolifera, visto che gli investimenti effettuati potrebbero risultare sempre più in “eccesso”, se i prezzi continueranno a declinare, rendendo sempre più difficile ripagarli e ottenere il profitto atteso. Mettendo per ora da parte, in questa sede, le conseguenze potenzialmente catastrofiche del calo dei prezzi del petrolio e del gas per molti Paesi extra europei che vivono del loro export e l’accentuazione della competizione, che si sta già scatenando (anche militarmente), per compensare profitti in calo con quote di mercato più ampie, ritorniamo all’Italia e all’Europa.
Gli ultimi dati sulla deflazione dimostrano, semmai ce ne fosse ancora bisogno, l’inadeguatezza della struttura della Bce e dei meccanismi di integrazione europea portati avanti da Commissione Europea e Consiglio europeo. Oggi il problema non è costituito dall’inflazione ma dalla recessione. Così, mettere al primo e pressoché unico posto tra gli obiettivi della Bce il controllo dell’inflazione risulta avere sempre meno senso. E ha ancor meno senso praticare politiche di austerity e di pareggio di bilancio, che sono corresponsabili del crollo dei consumi di massa interni e della deflazione. Le modalità con cui la Bce sta apprestandosi ad immettere liquidità nell’economia europea andranno a favore delle grandi banche, con risultati simili a quelli già visti in precedenza quanto a capacità delle banche di trasferire liquidità a famiglie e piccole imprese.
Anche parlare di nuovi investimenti europei, se questi sono misti privati-pubblici e se quelli pubblici sono condizionati alla compartecipazione dei privati, rappresenta un non senso. In un periodo di sovrapproduzione e di eccesso di accumulazione di capitale come si può pensare che i privati siano disposti a dare un contributo sensibile agli investimenti? È necessario l’intervento statale, ma non certo nella forma del sussidio alle imprese private. L’unica logica razionale è la sostituzione dell’investimento pubblico a quello privato, anche attraverso la statalizzazione, specie di attività bancarie. Quindi, l’unica proposta politica seria consiste nell’allargamento del perimetro della partecipazione statale, in modo da permettere il rilancio di settori industriali strategici e di ammodernare e ampliare le infrastrutture. Per fare questo, però, è chiaro che bisogna mettere in discussione la direzione neoliberista delle politiche pubbliche degli ultimi trenta anni, il che, nello specifico dell’Italia e dell’Europa, vuol dire essere determinati a mettere in discussione radicalmente il processo di unificazione economico e valutario europeo.
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