La mia attività diventa merce,
io sono in tutto e per tutto venale
(K. Marx).
TEORIA
Nell’accezione marxiana del concetto l’ideologia rimanda a un pensiero che capovolge il rapporto fra la realtà delle cose e le cose come le vorrebbe il filosofico soggetto della conoscenza sulla scorta di certe idee, di determinati principi etici, politici e via di seguito. La realtà “nuda e cruda” delle cose viene sostituita, attraverso un procedimento “astrattivo” che possiamo definire appunto ideologico, da una realtà fittizia che esiste solo nella testa di chi la pensa e la proietta all’esterno, creando un mondo puramente ideale, assolutamente soggettivo – sempre in un’accezione filosofica del termine. Inutile precisare che il soggetto in questione è lungi dall’essere cosciente di un simile procedimento, e anche questo è un aspetto centrale nel concetto marxiano di ideologia.
Quando ho fatto riferimento a una «realtà “nuda e cruda”» non ho inteso affatto postulare un approccio passivo, puramente ricettivo, da parte del soggetto della conoscenza al mondo oggettivo, che il primo si limiterebbe a riflettere (o rispecchiare) più o meno fedelmente; infatti «la concezione materialistica del mondo non è priva di presupposti ma osserva i presupposti materiali come tali ed è perciò, essa sola, la concezione del mondo realmente critica» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca). L’approccio al reale da parte del materialismo storico marxiano non è passivo (come vorrebbe la metafora dello specchio) ma appunto critico, ossia pregno di presupposti concettuali idonei a decodificare in una forma peculiare il mondo che ci circonda. Proprio questa griglia concettuale, che è al contempo presupposto e prodotto della relazione del soggetto con la realtà, consente al materialista storico di osservare «i presupposti materiali come tali», senza avvertire il bisogno di presentarli a se stesso e agli altri sotto mentite spoglie. Qui si intuisce la valenza critico-rivoluzionaria del «nuovo materialismo» marxiano, la cui genesi si sostanzia in una lotta corpo a corpo, senza compromessi, contro tutte le ideologie apologetiche (vedi gli economisti «triviali» post-classici) e piccolo borghesi – vedi Proudhon e Lassalle.
Nell’Ideologia tedesca si legge: «Max Stirner crede veramente al dominio delle idee astratte dell’ideologia nel mondo attuale, egli crede, nella sua lotta contro i “predicati”, i concetti, di attaccare non già un’illusione, ma le reali potenze dominanti nel mondo. Da ciò il suo sistema di mettere tutto a testa in giù, da ciò l’enorme credulità con cui prende per oro colato tutte le false illusioni, tutte le affermazioni ipocrite della borghesia». Il mondo che ha in testa l’ideologo è popolato soprattutto di idee, di concetti, di predicati, ed egli prende sul serio questa realtà illusoria almeno quanto il sasso che se gli cadesse su un piede lo farebbe imprecare contro la cattiva oggettività. Dalla teoria alla prassi!
PRASSI
Un saggio di Luciano Gallino porta questo titolo davvero ideologico: Il lavoro non è una merce. Piuttosto sarebbe legittimo affermare che il lavoro non dovrebbe essere una merce, ma che posti i vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento esso deve essere, con tetragona necessità, una merce. Perché negare un presupposto materiale così macroscopico? Ma leggiamo Gallino: «Tra la concezione del lavoro come merce, e quella che ad esso si oppone, le differenze sono sostanziali» (Il lavoro non è una merce, p. 60, Laterza, 2012). Come si vede per il nostro ideologo ciò che “fa premio” non è la realtà nuda e cruda del lavoro salariato, ma la «concezione del lavoro come merce». Se ne ricava che chi intende affermare il principio del lavoro come libera attività umana non deve lottare contro il rapporto sociale capitalistico che fa, necessariamente, del lavoro una merce, bensì contro una maligna concezione.
E difatti per il nostro progressista si tratta di aderire non a una coerente concezione anticapitalista, la quale riconosce come insulsa la posizione di chi accetta la causa (il Capitalismo sans phrase) ma piange sugli effetti “negativi” di essa, ma «al principio per cui il lavoro non è una merce». Ancora una volta: non è o non deve più essere? E dunque: rivoluzione culturale o rivoluzione sociale? Il presente del dominio o il futuro della liberazione? Ideologia antiliberista o pensiero critico-radicale?
«Se il lavoro è una merce, viene naturale pensare alla separazione del lavoro stesso dalla persona del lavoratore e parlare di mercato – il mercato del lavoro – dove la merce stessa viene scambiata e venduta allo stesso titolo di ogni altra merce». Pensare, parlare: il carattere alienante e reificante del lavoro salariato, così come la realtà del mercato capitalistico mondiale del lavoro, perdono ogni consistenza storica e sociale, e diventano per l’essenziale i cascami oggettivi di una cattiva ideologia, quella liberista. Quando Marx scriveva nei suoi appunti sul Salario del 1847 «Salario = prezzo della merce. L’attività umana = merce», lo faceva perché aveva sposato il punto di vista del lavoro come merce, o perché, sulla scorta di certi presupposti concettuali (teorici e politici), aveva compreso l’intima essenza della società capitalistica, ossia la sua disumana tendenza a fare di ogni cosa un oggetto di compravendita in vista di un profitto? «La ricchezza della società nella quale predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci»: nell’epoca in cui il rapporto sociale capitalistico non «predomina» ma piuttosto sussume in modo sempre più stringente e totalitario l’intera prassi sociale degli individui, su scala planetaria, perfino il noto incipit marxiano ci appare riduttivo.
La violenta separazione dei mezzi di produzione dal produttore immediato, delle condizioni oggettive del lavoro dalle sue condizioni soggettive, con quello che ne segue sull’intera esistenza del lavoratore, realizza il presupposto storico del Capitalismo che si rinnova sempre di nuovo. Questa scissione è un fatto così essenziale per la sopravvivenza del Capitalismo, e la sua genesi storica rimonta così lontano nel tempo, da apparire al pensiero comune (e alla scienza economica borghese) alla stregua di un presupposto naturale, di un fatto banale su cui è ozioso riflettere. Per questo Marx definì volgare l’economia politica che assumeva il Capitale (in quanto potenza sociale, e per questo scritto con la c maiuscola) come un mero dato di fatto, che non aveva bisogno di alcuna spiegazione storico-sociale. Ma ritorniamo al nostro scienziato sociale antiliberista.
Scrive Gallino: «La pressione volta ad abbassare i salari e le condizioni di lavoro nell’ultimo quarto di secolo [in Usa come in altri paesi] è ben più d’un riflesso della competitività crescente, del declino americano, o di mercati del lavoro ingolfati [...] È in parte il risultato d’una strategia concertata del capitale, del governo e della destra politica per tagliare i guadagni ottenuti dal movimento dei lavoratori a metà del XX secolo». Per il progressista duro e puro il diavolo della «destra politica» è sempre al centro del complotto ai danni dell’umanità in generale e dei lavoratori in particolari. Che l’aumento della produttività del lavoro e la sua relativa svalorizzazione siano l’alfa e l’omega del Capitale, a prescindere dal colore politico dei governi pro tempore, allo Scienziato sociale è qualcosa che sfugge. Il responsabile del complotto contro l’umanità e i lavoratori ha un solo nome: Capitale. La politica ovviamente non rispecchia meccanicamente i processi che si sviluppano a livello «strutturale», ma in ultima analisi essa non può fare a meno di assecondarne la possente spinta, cercando di gestire al meglio le contraddizioni sociali e le molteplici magagne che necessariamente il Moloch economico genera sempre di nuovo. L’imbrigliamento del Capitale da parte della «buona ed etica politica» è la chimera che il progressista non si fa mai mancare.
Gallino associa il lavoro-merce alla flessibilità e alla precarietà, mentre il concetto marxiano di lavoro salariato gli è del tutto estraneo, e difatti egli crede alla ridicola favola secondo cui dal secondo dopoguerra fino «alla metà degli anni Settanta» si è assistito, almeno in Europa, a un processo di «de-mercificazione del lavoro», mentre con l’avvento del liberismo, incarnato – manco a dirlo – da Margaret Thatcher, «è tornato a prevalere il principio per cui, dopo tutto, il lavoro non è altro che una merce. A un periodo di de-mercificazione del lavoro è dunque seguito, e prosegue tuttora, un periodo di accentuata ri-mercificazione del medesimo».
Si può essere ammalati di ideologia più di così? D’altra parte, piangere sul latte versato, ossia sulle continue quanto necessarie accelerazioni nel processo di aggressiva espansione (geopolitica, sociale ed esistenziale: è il solo concetto di globalizzazione che mi sembra adeguato ai tempi) del dominio capitalistico, e ovviamente sulle inevitabili contraddizioni e sofferenze che tutto ciò mette in campo, è tipico del progressista.
Il «mutamento di cultura» avvenuto nella seconda metà degli anni Settanta appare qui non come l’espressione di processi materiali spiegabili alla luce della concezione che vede nella ricerca del massimo profitto il motore fondamentale dell’economia e dell’intera prassi sociale in regime capitalistico, ma piuttosto come la causa ultima di questi stessi processi, secondo quell’inversione di causa-effetto che faceva tanto malignamente sorridere l’avvinazzato di Treviri.
Un intero periodo storico (la cosiddetta epoca d’oro del Capitalismo) e il processo di ristrutturazione capitalistica seguito alla chiusura del lungo ciclo espansivo postbellico (reso possibile, detto per inciso, non dalle politiche keynesiane ma dall’immane distruzione di capitale realizzata dalla guerra), trova insomma una lettura ideologica da parte dell’autorevole professore, secondo il quale oggi possiamo salvarci dal «mantra liberista» solo percorrendo la strada della de-mercificazione del lavoro e della de-finanziarizzazione dell’economia. Ma si tratta di salvarci dal “mantra” capitalistico, di uscire cioè fuori dalla dimensione storico-sociale che fa degli individui «capitale umano» al servizio di una potenza sociale che nessuno (nemmeno il Leviatano degli statalisti) potrà mai controllare. Per mutuare una vecchia (ideologica?) formula, il Moloch si annienta, non si riforma.
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