martedì 14 ottobre 2014

In fuga dall’Italia 30 miliardi al mese



downloadAnna Lombroso per il Simplicissimus
Sarà colpa dell’articolo 18? Sarà colpa dell’eccesso di prerogative, che ostacola la vocazione delle imprese a investire in produzioni, sicurezza, tecnologia, facendo preferire altre forme e altre geografie per incrementare la redditività? Sarà colpa di tutte le tipologie che caratterizzano l’attività dei gufi, dei disfattisti, quelli che fermano le grandi opere, fanno ricorso ai Tar per impugnare appalti e incarichi opachi? Sarà colpa della natura degli italiani, indifferenti, poco solidali, ingrati   nei confronti di magnati, Paperoni, professionisti, luminari, dai quali gradirebbero fatture trasparenti  e scrupolose denunce dei redditi?
Fatto sta che il sistema Target 2 della BCE, che controlla periodicamente  i rapporti di credito-debito tra i paesi membri dell’Eurozona, ha registrato per il mese di agosto un deflusso di capitali dall’Italia di 30,3 miliardi. E a settembre, il dato è peggiorato: -37 miliardi. In soli due mesi, sono emigrati dall’Italia, insieme a cervelli, pizzaioli, gelatai e aziende impacchettate durante il weekend e de localizzati, armi, bagagli, macchine e cassa, anche capitali  per oltre 67 miliardi. Si tratta dei dati peggiori dai tempi  che parevano i più bui della crisi dell’euro, quelli compresi tra la metà del 2011 e la metà del 2012, quando i mercati finanziari scommettevano sull’imminente scomparsa della moneta unica.
Possiamo scommettere almeno che la colpa non è delle avverse condizioni atmosferiche che espongono il Bel Paese a eventi meteorologici sfavorevoli e persuadono a scegliere destinazioni esotiche e confortevoli per il gruzzoletto di insospettabili e soliti sospetti. E infatti gli  italiani provinciali e frustrati, cui piace pensare che criminali tradizionali, quelli di nuovo conio, tycoon, imprenditori, manager, professori, fiscalisti, scelgano il sole  e il mare, porti affollati di yacht, isole caraibiche, insomma i paradisi che hanno popolato immaginario, cinepanettoni, intercettazioni, settimanali di gossip, saranno delusi: certo le Bahamas contano 400 banche, le Cayman hanno uno sportello ogni 30 abitanti, e sono le destinazioni preferite da 47 banche delle 50 più importanti e influenti del mondo.
Ma se si vuole essere certi della protezione del paravento degli unici diritti custoditi, quello alla riservatezza, al segreto, alla privacy, allora è meglio restare in Europa, in Olanda, in Austria, in Lussemburgo, location preferita da 16 banche italiane, che ospita 250 istituti e dove ogni richiesta di accesso viene in tempo reale comunicata al titolare. E qualcuno magari, più casalingo, decide di restare sul suolo patrio, a San Marino, in Vaticano, che poi costituire società schermo mica è reato e lo sarà sempre meno, se diventa un’arma legittima e legalizzata per “semplificare”, combattere la burocrazia, far circolare denaro, aiutare lo sviluppo. E infatti, sempre secondo Target 2, dei 67,3 miliardi fuggiti dall’Italia, circa la metà avrebbe preso la via della Germania, mentre il  resto con ogni probabilità sarebbe stato dirottato verso il Nord Europa, che proprio negli ultimi mesi sta registrando un apprezzamento delle sue valute, tanto che le banche centrali di paesi come Danimarca, Svezia e Norvegia hanno iniziato ad adottare una politica monetaria più accomodante per evitare che le loro corone forti creino un contraccolpo all’export scandinavo.
Il Fmi che  va a rilento nella comunicazione di dati “sensibili” calcola che ammontino a cinquecento miliardi di dollari l’anno, diecimila miliardi con i depositi, secondo fonti indipendenti. Le nostra banche contribuiscono a questo festoso export con oltre 220 sportelli nei paradisi offshore, dai  quali passano più di cinquemila miliardi di  dollari provenienti dal nostro Paese, secondo le stime delle autorità monetarie internazionali.
Si aggiungono poi nuovi “istituti” e strumenti a quelli già collaudati come l’Anstalt, il format di diritto societario presente in Lichtenstein che conta una media di 2,5 società per abitante, in Austria e in Germania, o ai trust: oggi gli investitori si rivolgono al mercato associativo, tramite compagnie che fittiziamente coprono i rischi, in realtà servono ad effettuare formidabili movimentazioni di denaro. Ma la principale forma di circolazione resta il brand dei fondi di investimento gestito da società offshore, che muovono azioni e obbligazioni, in quell’aereo e immateriale gioco d’azzardo che è diventato il turbo capitalismo.
E ancora una volta si può verificare il ruolo egemonico svolto  dai vecchi e  nuovi sacerdoti della giurisprudenza, quel ceto costituito da giuristi e avvocati, dai grandi studi internazionali che predispongono principi, valori e regole del diritto globale su incarico delle multinazionali, in grado di trasformare una mediazione tecnica in una procedura sacralizzata, a difesa della religione del profitto. E che producono misure che favoriscono anonimato, che promuovono le scatole cinesi necessarie a rendere impenetrabile il mistero sulla proprietà dei patrimoni e la rintracciabilità. Quegli stessi che in condizioni “particolari” studiano le modalità per indulgenti condoni, per generosi scudi, per garbate sanatorie. Come quel voluntary disclosure, “dichiarazione volontaria” o, se preferite “auto-smascheramento”,  che, dopo essere stata approvata dalla Commissione Finanza della Camera dei Deputati, è ormai prossima a passare l’esame dell’Aula.
Nello spirito del tempo pare proprio che a fronte di tante inique differenze, a essere uguali sono i modi e i protagonisti del business più colossale, fatto di evasione, riciclaggio, trasferimento di capitali. Ormai si assomigliano fino a coincidere, malavitosi e manager, mafiosi e professionisti, clan e imprese che trovano una sponda propizia in assenza dello stato di diritto e in latitanza degli Stati.
E possono stare tranquilli, anche le vecchie mete restano sicure. Proprio  l’altro ieri  la Ministra delle Finanze svizzera, Eveline Widmer-Schlumpf, ha fatto una solenne lavata di testa al suo collega italiano,   Padoan, a causa dei ritardi  nel concludere quell’ accordo fiscale con Berna che verte  sui circa 120 miliardi di euro che i cittadini italiani  detengono, illegalmente, nelle banche svizzere, principalmente in quelle ticinesi. “Ho detto a Padoan che la mia pazienza ha un limite, gli ho ricordato il numero dei ministri delle finanze italiani con i quali ho parlato, con i quali ogni volta ho dovuto ricominciare da capo rispondendo ogni volta alle stesse domande”, avrebbe detto  la Ministra svizzera. Aggiungendo che la sua pazienza ha un limite e   che bisogna trovare una soluzione, “entro e non oltre la primavera prossima”. In caso contrario a farne le spese sarebbero i nostri 60 mila transfrontalieri, le cui imposte sono riversate  nei comuni d’origine.  “Senza accordo fiscale in tempi brevi, senza quella convenzione,niente più riversamento delle imposte”. Ecco sarò malfidente, ma sospetto che a Padoan, al governo che non ha annoverato nelle tappe del cammino dei 1000 giorni nessuna “riforma” antievasione, nessuna norma antiriciclaggio, della sorte di 60 mila emigranti e di 67 miliardi emigrati importi poco. Vengono dalle uniche tasche nelle quali sono risoluti a non mettere le mani.

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