Elezioni
a primavera. Non c’è bisogno di appoggiare l’orecchio alle segrete
porte della politica o di avere strizzate d’occhio da vecchi e
intollerabili marpioni per capirlo: il ricorso alle urne è nella logica
delle cose e nei segni che vengono lanciati ai pescecani di
confindustria, alle mammine, ai grand commis dello stato -affari o nei
ripensamenti sulla legge elettorale. Di certo il gigantesco bluff di
Renzi non può resistere i fatidici mille giorni, ha ancora qualche mese
di vita prima di essere scoperto lasciando il posto all’ira e questo
rende imperativo per il guappo tentare di andare alle urne prima che il
suo castello di carte venga spazzato via dalla tempesta. Cercare di
resistere sulla tolda delle chiacchiere e dei twitter ancora più a lungo
sarebbe un azzardo ed esporrebbe sia il leader che il suo partito –
nazione alla dissoluzione.
Inoltre accelerando la data delle elezioni ci sono dei vantaggi non
indifferenti: impedire che si riaffacci un’opposizione di sinistra
credibile la quale in pochi mesi non potrebbe che ritentare un’ infausta
operazione tipo Lista Tispras, sfruttare il declino del centro destra
ormai sacrificato alle vicende personali del suo padre padrone
Berlusconi, non lasciando tempo per una riorganizzazione e cercando di
evitare che una coalizione sia pure così azzoppata rischi di farcela e
infine far sì che il movimento cinque stelle non si riorganizzi e sia
frantumato dal suo stesso creatore che è riuscito a fare da
catalizzatore a qualcosa di più grande di lui, ma che ora si è
trasformato in un inibitore enzimatico, come si direbbe in biochimica.
Dunque Renzi ha una finestra di sei, sette mesi per mantenere il suo
ruolo di ultima spiaggia. E questo limite è anche la sua ultima
spiaggia.
Naturalmente per ottenere il placet dell’ex cavaliere dovrà
garantirgli tutte le guarentigie possibili per lui e per la sua roba,
dovrà lasciare intatto il suo sistema di potere del quale del resto
Renzi stesso faceva parte. Ma soprattutto deve ottenere il placet
dell’Europa: è qui che si gioca la partita. Perché è vero che il guappo
potrebbe giocarsi sul piano elettorale sia un assenso che uno stop di
Bruxelles alla manovra presa in giro, ma è anche vero che un no della Ue
metterebbe di nuovo in funzione i cannoni dello spread e dei ricatti
finanziari, rimescolando completamente le carte, anche mediatiche che il
premier ha in mano. Così per arrivare alle elezioni senza scossoni
eccessivi e ancora forte di una narrazione che non vale l’inchiostro e i
bit in cui è decantata, deve vendersi il Paese, promettere tutto ciò
che la troika vuole e sperare che nel tempo guadagnato grazie alle urne
si palesi una qualche fantomatica ripresa a salvarlo. O sia possibile
blindare il sistema politico in un definitivo sistema oligarchico di
cui il caudillo della Leopolda sarebbe il perno.
Aspettare anche solo il 2016 significherebbe tenere alta la tensione
mediatica ancora per quasi due anni e veder affondare una dopo
l’altra le barchette di carta di cui è grande ammiraglio. Dare tempo ad
altri di organizzarsi, di compiere la traversata nel deserto e su un
piano più volgare e pratico veder diminuire la fedeltà parlamentare di
fronte alla possibilità di non rielezione. Insomma ha fretta perché le
vesti del riformatore si vanno logorando, lasciando intravvedere i panni
del Masaniello. E ha perfettamente ragione. Infatti si è già mossa la
macchina del ricatto che pone la domanda fine di mondo: ma allora per
chi voti? Senza nemmeno soffermarsi su cosa si vota: purtroppo il peggio
della democrazia è accontentarsi di ciò che sembra il meno peggio.
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