Quasi non passa giorno senza che il presidente della Bce, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell’Unione si affannino a rammentarci che in mancanza di "riforme strutturali" l’Italia non riprenderà il cammino della crescita. Le riforme strutturali: espressione ironica della storia. Chi ha memoria del nostro passato ricorderà che la frase «riforme di struttura» è stata coniata da Palmiro Togliatti, diventando uno degli slogan del Pci tra gli anni ’50 e ’60. Alludeva a profonde trasformazioni da realizzare negli assetti dell’economia e nei rapporti di potere tra le classi.
Ora è finita in bocca ai manager finanziari europei, e ai governanti italiani, e serve a dare una accentuazione di radicalità all’intervento invocato, quasi si trattasse di migliorare più profondamente le condizioni del paese.
In realtà, oltre a mascherare il vuoto di prospettiva, essi cercano di nobilitare la sostanza classista della più importante di queste “riforme”: una maggiore flessibilità e una più completa disponibilità della forza lavoro nelle scelte dell’impresa. Il Job Act in cantiere nel governo Renzi, evidentemente non basta. Occorre poter licenziare con più facilità, per attirare i capitali che girano per il mondo. Oggi noi sappiamo bene quanta fondatezza ha la teoria su cui si fonda tale pretesa. Come ha scritto di recente Luciano Gallino, «La credenza che una maggiore flessibilità del lavoro, attuata a mezzo di contratti sempre più brevi e sempre più insicuri, faccia aumentare o abbia mai fatto aumentare l’occupazione, equivale quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la terra è piatta». (Vite rinviate.Lo scandalo del lavoro precario, Laterza 2014).
In realtà, oltre a mascherare il vuoto di prospettiva, essi cercano di nobilitare la sostanza classista della più importante di queste “riforme”: una maggiore flessibilità e una più completa disponibilità della forza lavoro nelle scelte dell’impresa. Il Job Act in cantiere nel governo Renzi, evidentemente non basta. Occorre poter licenziare con più facilità, per attirare i capitali che girano per il mondo. Oggi noi sappiamo bene quanta fondatezza ha la teoria su cui si fonda tale pretesa. Come ha scritto di recente Luciano Gallino, «La credenza che una maggiore flessibilità del lavoro, attuata a mezzo di contratti sempre più brevi e sempre più insicuri, faccia aumentare o abbia mai fatto aumentare l’occupazione, equivale quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la terra è piatta». (Vite rinviate.Lo scandalo del lavoro precario, Laterza 2014).
Ma per la verità noi non abbiamo soltanto questa certezza scientifica, oltre alla prova empirica di una economia capitalistica che continua a generare disuguaglianze, precarietà e disoccupazione. Noi possediamo un inquadramento storico quale forse mai si era raggiunto in età contemporanea per una fase così ravvicinata. Sappiamo come sono andate le cose negli ultimi 30 anni grazie a una letteratura ormai di considerevole ampiezza. E possediamo una lettura strutturale della crisi che nessuna altra ricostruzione di parte capitalistica può minimamente scalfire. Ha cominciato in anticipo Serge Halimi, con il Grande Balzo all’indietro (Fazi 2006, ma uscito in Francia nel 2004) – un testo ricco di informazioni e d’intelligenza politica che meritava un più ampio successo — seguito l’anno dopo dalla Breve storia del neoliberismo ( tradotto dal Saggiatore nel 2007) di D. Harvey, e a seguire una lunga serie di saggi in varie lingue successivi al tracollo del 2008, cui non è neppure possibile far cenno.
Quest’anno si è aggiunto a tanta letteratura storico-analitica – oltre al grande lavoro di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, già sufficientemente osannato — un saggio che merita di essere ripreso per la limpidezza della scrittura e la forza documentaria con cui conferma la lettura del trentennio neoliberista: Chi ha cambiato il mondo? di Ignazio Masulli per Laterza. Masulli mostra con dovizia di tabelle e dati statistici ufficiali le tendenze di fondo che hanno governato lo sviluppo del capitalismo negli ultimi trent’anni: la delocalizzazione industriale (indagata nei suoi effetti nei vari paesi in cui si è insediata), l’innovazione tecnologica basata sull’automazione microelettronica e la finanziarizzazione dell’economia.
Son processi noti ma a cui l’autore aggiunge informazioni spesso sorprendenti. Si pensi alle dimensioni degli investimenti all’estero dei paesi di antica industrializzazione. In Francia essi rappresentavano il 3,6% del Pil nel 1980 e sono arrivati a toccare tra il 60 e il 57% nel 2009 e nel 2012. La Germania da un 4,7% è passata al 45,6% nel 2012. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, passando dall’ 1,6% del Pil del 1980 al 28% del 2012. Dimensioni di investimenti analoghi anche dagli gli altri paesi, con un dato impressionante per la Gran Bretagna, le cui imprese, nel 2010, hanno investito all’estero 1.689 miliardi di dollari, pari a oltre il 75% del Pil».
Dunque, i nostri capitalisti hanno trasferito e investito all’estero ricchezze immense, fondando quasi nuove società industriali fuori dalla rispettiva madre patria, utilizzando a man bassa il lavoro sottopagato e senza diritti dei paesi poveri, facendo mancare risorse fiscali gigantesche ai vari stati. E ora gli strateghi dell’Unione vorrebbero far tornare un po’ di capitali in patria riducendo la classe operaia europea alle condizioni in cui è stata sfruttata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre plaghe del mondo. Ma il quadro delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro mostra ad es. come l’innovazione tecnologica sia servita prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo l’esercito industriale di riserva. Su questo punto forse l’autore sottovaluta l’innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica, soprattutto negli Usa. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato con lo sviluppo delle ferrovie, l’espansione della chimica, l’industria automobilistica del ‘900, quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi.
Mentre la produzione, come sappiamo, è diminuita rispetto ai decenni precedenti il 1980: e qui tutta la gloria del capitalismo neoliberista precipita nell’ignominia di una sconfitta storica. Nel frattempo i salari sono ristagnati, è aumentata la disoccupazione. Ma ovviamente sono cresciuti i profitti. Questi si! Crescita dei profitti, nota l’autore, cui però non corrisponde un aumento del processo di accumulazione, vale a dire guadagni dell’impresa reinvestiti nel processo produttivo. Una parte sempre più consistente di tali profitti se ne è andato e continua ad andarsene in dividendi e pagamento di oneri al capitale finanziario. E così il cerchio si chiude perfettamente, dando un profilo netto alla storia economica degli ultimi 30 anni: asservimento della classe operaia, disoccupazione crescente e lavoro precario, debole crescita economica, ingigantimento del potere finanziario e ampliamento delle disuguaglianze. E’ questa la musica al cui suono danziamo ormai da anni. Mentre la politica degli stati e quella dell’Unione in primo luogo propongono di ripercorre il sentiero che ha condotto al presente disordine mondiale.
Ora, l’aspetto più clamoroso della presente situazione, soprattutto in Europa, è l’ostinazione con cui i dirigenti dell’Unione e soprattutto i governanti tedeschi e nord-europei si ostinano al restar ciechi di fronte alla realtà che trent’anni di storia ci consegnano. Saremmo ingenui se pensassimo solo al dogmatismo fanatico che è nel genio nazionale dei tedeschi. E sappiamo che a ispirare la politica dell’austerità che ci soffoca, come ha ricordato Paul Krugman, è l’interesse dei creditori. Ma io credo che l’Europa di oggi e gran parte degli stati di antica industrializzazione testimonino un mutamento storico finora inosservato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vecchi partiti comunisti, socialisti, socialdemocratici sono stati strappati alle loro radici popolari e guadagnati al campo avversario.
E’ cambiata la forma di razionalità dei governanti. Heidegger diceva che : è la tecnica che non pensa. La ragione tecnica applica dispositivi dottrinari alla realtà, attendendo che essi funzionino perché così accade nei laboratori o nelle simulazioni matematiche. Nella loro ratio se il dispositivo non ha successo è perché si sbaglia nella sua applicazione o questa non è completa. Se il Job Act non funzionerà è perché qualche residua norma impedisce all’imprenditore di licenziare i suoi operai quando più gli aggrada. Dunque, la verità che nessuno vuol dire è che oggi siamo governati da uomini che non pensano. Dove il verbo pensare ha una ricchezza semantica ormai andata perduta nel lessico corrente: significa lo sforzo creativo di rispondere alle sfide della realtà ascoltandone la complessità, cercando soluzioni condivise e di utilità generale con l’arte della politica. I tecnici continuano ad applicare dottrine sconfitte dalla realtà . Ma i politici senza dottrina, come il nostro Renzi e prima Berlusconi, non pensano più dei tecnici. Esercitano l’arte redditizia della comunicazione.
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