Così
canta Ligabue nel suo ultimo pezzo, scritto proprio pensando alle tante
proteste di questi anni… E così dobbiamo cantare anche noi. Perché in
questo paese sta succedendo qualcosa. Qualcosa che, nonostante le
televisioni di regime, nonostante non abbia ancora molta presenza
mediatica, sta riuscendo a rompere il “muro del suono”.
Quel muro che troppo spesso consegna al
silenzio la vita di milioni di persone che soffrono e lottano perché
hanno perso un lavoro, perché il lavoro non ce l’hanno, perché lavorano
troppo e male…
Sta succedendo qualcosa, dicevamo. Scioperi spontanei e tante vertenze attraversano il paese. A Torino migliaia di operai sono scesi in piazza, a Bergamo hanno contestato Confindustria e Renzi, a Terni hanno fischiato le dirigenze sindacali e bloccato le strade (abbiamo fatto riferimento solo a qualche esempio recente,
attraverso il nostro sito raccogliamo ogni giorno testimonianze di
centinaia di lotte – piccole o grandi – che fioriscono spontaneamente e
che aspettano solo di essere messe in connessione). Per non parlare dei movimenti studenteschi che hanno preso le strade il 10 ottobre, il 16 in occasione dello sciopero della logistica,
il 24 per lo sciopero del sindacato di base, o delle contestazioni al
Governo che da Palermo a Milano sono arrivate a scontrarsi con le forze
dell’ordine.
È evidente ormai a tutti – persino ai prefetti che scrivono a Renzi segnalando il problema – che nelle ultime settimane sta crescendo una mobilitazione sociale nuova.
Una mobilitazione al cui centro non ci sono solo quelli che la stampa
di solito dipinge come “antagonisti”, ma anche i lavoratori, la “gente
normale”, quelli che Renzi pensava di aver calmato con i suoi 80 euro…
Anche se non si può ancora parlare di un vero e proprio movimento, i segnali per un risveglio della nostra classe, dei nostri, ci sono tutti. Di sicuro è stato rotto – ad esempio a Livorno dov’è nato un comitato di lavoratori autorganizzato e intersindacale forte di centinaia di operai, o negli store di Eataly dove per la prima volta siamo riusciti a fare sciopero – quel misto di individualismo e “tirare a campare” che spesso sentiamo.
Individualismo che non deriva da un’indifferenza dei lavoratori alle
questioni sociali e politiche, ma dalla paura, da un sentimento di poco
sostegno da parte delle strutture sindacali, degli altri colleghi… Ma in
questi giorni chiunque abbia frequentato le assemblee sindacali della
penisola ha potuto vedere facce nuove, ha potuto sentire un’esigenza
di confronto, e la volontà di unirsi, una disponibilità all’ascolto che
fa sì che i lavoratori si interessino a tutto quello che accade anche
dalle parti, dei movimenti sociali, degli studenti e dei cosiddetti precari…
Ma cosa ha determinato questa reazione? Di
certo c’è il peso della crisi di questi ultimi sei anni, il fatto che
non se ne veda la fine, anzi: che se ne preveda un peggioramento nei prossimi mesi.
Ma c’è qualcosa di più. L’attacco portato
dal Governo Renzi e da buona parte della borghesia italiana punta
direttamente al cuore della nostra classe. Questo lo capisce
chiunque viva i posti di lavoro: l’articolo 18 non è per nulla un
feticcio, è un elemento materiale di resistenza che riguarda dieci
milioni di lavoratori. Serve a formalizzare dei rapporti di
forza fra due classi che sono sempre in contrasto, serve a “coprire”
l’azione sindacale dei delegati combattivi, perciò non è barattabile.
Ecco l’elemento scatenante e che deve ancora
scatenarci del tutto: l’arroganza dei padroni e di questo Governo. Non
vogliono più trattare su nulla. E se la burocrazia sindacale non si era
mossa nemmeno per riforme gravi come quelle della Fornero o quella delle
pensioni, ora ha dovuto, per quanto tiepidamente, per quanto costretta
dalla pressione della base, fare per forza qualcosa: è a rischio la sua
stessa esistenza!
Anche per questo sotto un attacco così forte
e frontale del Governo Renzi si stanno unendo piano piano settori
sociali differenti. Nonostante il Governo continui a fare leva sulla
divisione fra giovani e vecchi, fra “non garantiti” e “garantiti”, fra
occupati e disoccupati, fra italiani e immigrati, molti stanno
capendo che la sua è solo retorica: che gli interessi che abbiamo in
comune sono molti di più delle nostre differenze.
Ma cosa produrrà questa situazione? Quale piega può prendere? E quali compiti ci pone? Che dobbiamo fare? Come sempre, il futuro non è scritto, e non è indipendente da quello che decidiamo di fare noi.
Quindi qui proviamo a rispondere a queste domande sapendo che in
quest’autunno dobbiamo puntare più sull’ottimismo della nostra volontà
che sul pessimismo dell’intelligenza.
Prima considerazione: ci dobbiamo credere.
Nessuna squadra vince se non crede in se stessa, nelle sue
potenzialità, nei motivi che la spingono a giocare davvero. È del tutto
evidente che le cose possono cambiare, che di fatto cambiano sempre.
L’articolo 18 non c’è sempre stato, lo Statuto dei Lavoratori non c’è
sempre stato, lo hanno conquistato. Anche oggi la partita è aperta, e
c’è un mare di diritti e di ricchezza da andarci a prendere da chi ce la
leva.
Certo, molti pessimisti diranno: la riforma del lavoro è già passata. Inutile fare troppe storie. Ma, c’è da rispondergli,
noi cosa abbiamo da perdere a lottare? Cosa possiamo sperare di
conservare in questa situazione che ormai vira al peggio? La miseria
della nostra vita? La guerra fra poveri a cui ci costringono? E
comunque nella storia del movimento operaio non ha mai contato troppo
come andasse alla fine la lotta. Si può vincere o si può perdere, quello
che però conta è l’organizzazione e la consapevolezza che maturano
nella nostra classe, organizzazione e consapevolezza che ci faranno
vincere al prossimo giro… Quale occasione migliore di una mobilitazione
come questa per conoscerci, discutere, metterci stabilmente in contatto?
E comunque, deve essere chiaro che
si può vincere anche perché il fronte padronale non è così coeso. In
questo momento c’è una lotta intestina alla borghesia italiana, e noi
dobbiamo approfittarne. Se il Governo Renzi può contare sul
sostegno di De Benedetti, degli Agnelli, e della saldatura con il blocco
berlusconiano, altri agenti importanti del capitale come Della Valle e
Montezemolo o testate rappresentative come il Corriere della Sera hanno
attaccato frontalmente Renzi. Altro che “partito della nazione”: la
borghesia italiana in questo momento non ha alcun progetto complessivo
in testa, riesce solo a fare quello che ha sempre fatto – ovvero
spremerci di più – e mangiarsi il mangiabile. Di fronte alla nuova crisi
che arriva la borghesia reagisce con un grande “si salvi chi può”. Ecco
perché tornano le grandi opere, le privatizzazioni di quello che resta
di imprese pubbliche, i tagli agli enti locali.
Solo che Renzi da questa abbuffata ha tagliato fuori qualcuno, che ora
potrebbe strumentalmente rallentarlo. Dobbiamo sapere inserirci nelle
loro contraddizioni.
Ovviamente, e qui arriviamo alla
seconda considerazione, per vincere ci dobbiamo attrezzare, dobbiamo
prepararci. Che vuol dire? Che dobbiamo collegare il nostro ristretto
gruppo, di fabbrica, di azienda o territoriale, con gli altri gruppi,
collegare la conflittualità latente all’interno delle aziende con tutto
quello che sta fuori, legarci con le lotte degli studenti e degli altri
soggetti sociali, mettendo al centro le esigenze comuni. Utilizzare
tutte le reti esistenti per sferrare un attacco unitario contro un
obbiettivo chiaro e a portata di mano: il Governo Renzi e i nostri
padroni, che sono gli artefici materiali delle politiche che
stiamo subendo. Come Clash City Workers abbiamo provato a incentivare
questa messa in relazione dei lavoratori e delle vertenze tra di loro,
ma anche del mondo del lavoro con il cosiddetto “movimento”, con gli
studenti, con chiunque lotti per una maggiore giustizia sociale. Non
ci
interessa l’area di appartenenza e nemmeno la tessera sindacale,
attraverso pratiche concrete vogliamo ricostruire quel tessuto che i
padroni tentano ogni giorno di smembrare.
È quello che abbiamo provato a fare con la vertenza di Eataly e con
tante altre lotte che quotidianamente portiamo avanti al fianco dei
lavoratori: laddove i vertici latitano o esitano, ripartiamo dal basso,
per conoscerci e riconoscerci in una causa comune. Attraverso un lavoro
di inchiesta, di mappatura e di organizzazione delle lotte vogliamo
tornare non solo ad essere, ma a sentirci classe.
Ultima considerazione. Nonostante i
dirigenti sindacali – che dicono che il corteo “non è contro il
Governo”, che vedono ancora una sponda nella minoranza del PD, che
premerebbero subito sul freno della protesta in cambio di una legge
sulla rappresentanza che gli garantisse magari la sopravvivenza – questa
non è una lotta vertenziale, ma propriamente politica, attiene ai
rapporti di forza complessivi fra le classi. Questo implica che non
combattiamo contro il singolo provvedimento, ma contro un provvedimento
che è fatto da un Governo e inquadrato in una visione politica. Verso un
intero modello sociale che ci viene proposto. Quel modello
Renzi-Marchionne-Farinetti, che vuole lavoratori disciplinati,
competitivi fra loro, fregati e magari anche contenti… Quando Squinzi,
presidente di Confindustria, dice alla stampa che “si sta avverando il
mio sogno”, sta ammettendo senza più pudore di chi Renzi sta facendo gli
interessi. Così, se la borghesia arriva a porre la questione di tutto
un modello sociale, non possiamo accettare quel modello per moderarlo un
po’, ma dobbiamo invertire complessivamente il segno. Rilanciare ed estendere i diritti, dire che bisogna lavorare meno e lavorare tutti a parità di salario.
Oggi siamo centinaia di migliaia in piazza,
ma domani che si fa? Si fa che da domani dobbiamo costruire un movimento
autonomo dei proletari, che ecceda le strutture sindacali esistenti,
che metta insieme tutte le vertenze e le lotte, che abbia la capacità di
trovare una base comune, una piattaforma rivendicativa che non si ponga
solo nell’ottica del rifiuto del Jobs Act, ma inizi a prefigurare nelle
sue “richieste” l’insostenibilità di tutto questo sistema, che inizi a
costruire una vera rappresentanza dei nostri interessi…
Per quanto ottimisti, sappiamo bene
che questa cosa non si fa dall’oggi al domani. È un percorso lungo, di
cui quest’autunno sarà solo una tappa, ma è un lavoro che va
necessariamente iniziato. E comunque, anche quest’autunno,
abbiamo già altre giornate di mobilitazione da riempire, finché non ci
sentiranno, finché non saranno costretti ad arretrare…
Strappiamo alle dirigenze
confederali lo sciopero generale, partecipiamo alla data di
mobilitazione nazionale già indetta dai movimenti sociali per il 14
novembre!
Se Ligabue cantava che “chi doveva pagare non ha mai pagato”, noi diciamo che è tempo di fargliela pagare. Supportiamo la resistenza, prepariamo l’offensiva!
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