lunedì 3 novembre 2014

Meglio una imposta patrimoniale delle privatizzazioni di Massimo Florio, economiaepolitica.it



Ogni tanto capita di leggere che il problema del debito pubblico italiano potrebbe avere soluzione alienando in blocco buona parte del patrimonio dello Stato e degli enti locali.

Un anno fa, sul Corriere della Sera, “Forza, vendete (e giù le tasse)”, 5 Novembre 2013, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, offrivano la loro versione di questa ricetta. Vendere le quote pubbliche in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, SACE, ST Microelectronics, Poste Italiane, Cassa Depositi e Prestiti “produrrebbe circa 60 miliardi di euro”. Le Ferrovie “secondo alcune stime, altri 36”. Poi ci sono le aziende pubbliche locali: “Roberto Perotti e Luigi Zingales stimano il loro valore in circa 30 miliardi”. Infine, ci sono gli immobili, che “secondo alcune stime” valgono 300 miliardi. Dalle cessioni azionarie lo Stato potrebbe incassare il 6% del Pil e “fino al 15% dalle cessioni immobiliari”. Senza ridurre il debito, pari al 133% del Pil, su cui si pagano 85 miliardi l’anno di interessi, “il 5,4% del Pil”, il default non è escluso, le tasse in queste condizioni non si possono ridurre. Ci sono due sole alternative, o si vende il vendibile del patrimonio pubblico o si tassano i patrimoni privati degli onesti: “intanto i ricchi, preoccupati che la loro ricchezza venga colpita da una patrimoniale una tantum, l’avranno già nascosta all’estero”. Ergo, vendere! Il governo Renzi sembra adesso volere seguire questa strada.

Le privatizzazioni sono la ricetta sbagliata per ridurre il debito. Le principali attività reali di uno Stato, e di chiunque, sono i beni immobili che possiede. Quelle finanziarie sono i diritti che derivano dalla proprietà di azioni e altri titoli. Se lo Stato è proprietario di un’azione dell’ENI, è titolare dei flussi di dividendi che ne derivano nel tempo (ENI da sempre anni paga ottimi dividendi allo Stato). Scambiare i diritti sui dividendi futuri con il prezzo dell’azione oggi può o meno convenire, dipende dal prezzo cui si vende l’azione in rapporto alla previsione dei dividendi (senza considerare il valore strategico di una impresa petrolifera per un paese importatore). Lo stesso vale per i beni immobili, considerando anche l’apprezzamento nel tempo. Occorre quindi fare bene I conti.

Accettiamo pure di ragionare solo sul rapporto debito/Pil. Si consideri il grafico qui sotto. Fra il 1946 e il 1960 è stato di circa il 40%. All’inizio degli anni ‛80 era ancora intorno al 60%, livello considerato in seguito di riferimento dai trattati UE. In poco più di un decennio, fra la seconda metà degli anni ‛80 (grossomodo coincidente con governi ‘pentapartito’) e fino al governo di emergenza di Ciampi, il rapporto debito/Pil raddoppia, giungendo al 120%. Lì rimane, con oscillazioni, negli anni della ‘seconda Repubblica’. Da Monti ad oggi (2011-2014) c’è un ulteriore balzo di altri 12-15 punti ( a seconda di come si fanno I conti). In tutto questo periodo l’avanzo primario (cioè il saldo al netto degli interessi) è positivo: i cittadini (non evasori) pagano più tasse del costo dei servizi che ricevono, buoni o cattivi che siano. Il rapporto fra debito/Pil è in definitiva determinato da un lato dal rapporto fra disavanzo annuo e tasso di interesse sul debito, che influenzano il numeratore, e dall’altro dal tasso di crescita del prodotto che influenza il denominatore. 
Nell’ultimo decennio la crescita del Pil è zero e più recentemente addirittura negativa. Il denominatore non può che restare indietro rispetto al numeratore del rapporto debito/Pil. Se si propone la ricetta ‘privatizzazione una tantum+riduzione delle imposte+riduzione contestuale della spesa pubblica’, l’effetto di crescita (senza cui non c’è verso di ridurre il rapporto debito/Pil per interessi reali maggiori di zero) dovrebbe derivare dal fatto che la riduzione bilanciata della spesa pubblica e delle imposte abbia un effetto positivo sulla domanda.
Ma l’effetto sulla sostenibilità del debito a medio termine facilmente potrebbe non esserci o essere di segno opposto: se non altro perché i mercati finanziari potrebbero non credere all’ipotetico effetti di domanda e comportarsi come creditori che sanno che il loro debitore si è mangiato il patrimonio. Se ci sono squilibri di fondo, (s)vendere il patrimonio dello Stato sposta un po’ in avanti la crisi, e poi la peggiora.

Il debito italiano è espressione di una crisi fiscale profonda, che contrappone da tempo diverse parti (classi, ceti, territori) della società italiana. La soluzione dei governi nella fase finale della ‘prima repubblica’ è stata quella di sedare le tensioni fra chi pagava le imposte e chi no, fra chi otteneva pensioni smisurate rispetto ai contributi versati e chi al contrario pagava più contributi di quanto riceveva, fra delinquenti ed onesti, fra lavoro e rendite, fra imprese e parassiti di ogni tipo, il tutto variamente mescolato, propinando la panacea del debito. Questo conflitto distributivo e civile non solo non è finito, ma è la radice materiale dell’emergenza . La contropartita della crescita del debito pubblico soprattutto negli anni ‛80 è stata la crescita di patrimoni privati da evasione, elusione, e favore fiscale (derivanti dalla cattura dei governi da parte di corposi interessi che non hanno nulla a che vedere con l’impresa e con il lavoro). A fronte del nostro grande debito pubblico, il patrimonio netto dei privati in Italia (o almeno la parte che si riesce a stimare) è nell’ordine di almeno il 450% del Pil, fra i più alti del mondo (la Germania è intorno al 300%, gli Usa al 350%: dati Credit Suisse per il 2010; il Global Wealth Report del 2013 conferma che la ricchezza per ciascun adulto è maggiore in Italia (182mila Euro) che ad es. in Germania, Olanda, Austria, intorno ai 130mila Euro); stime della BCE confermano che l’Italia dispone di una ricchezza privata maggiore della Germania. Dato che il reddito pro-capite in Italia è minore che in Germania, il fatto che il patrimonio privato vi sia maggiore (e anche più concentrato) dovrebbe far concludere che se non si riescono a tassare i redditi, e i consumi lo sono già abbastanza, tassare i patrimoni è in effetti l’unica alternativa al default. Gi strumenti possono essere (a) una imposta patrimoniale che gravi sia sulle persone fisiche che giuridiche (per evitare l’elusione); (b) la reintroduzione dell’imposta di successione. L’imposta patrimonale dovrebbe inizialmente essere straordinaria, con aliquota abbastanza elevata, poi diventare ordinaria, con aliquota contenuta, ed esenzione al di sotto di una certa soglia. Le aliquote dovrebero essere moderatamente progressive. Inoltre, crucialmente, si dovrebbero prevedere regimi diversi per chi può dimostrare l’origine del patrimonio . Alla persona fisica o giuridica che sia intestataria di immobili e di valori mobiliari andrebbe chiesta una dichiarazione esaustiva del patrimonio contestuale alla dichiarazione del reddito, ma anche verrebbe data la scelta fra una tassazione elevata del patrimonio, se non si è in grado di dimostrare lo scostamento fra lo stesso e redditi pregressi dichiarati, eredità o donazioni, oppure una aliquota piu’ tenue se vi è congruità fra reddito e patrimonio. L’imposta di successione e sulle donazioni a sua volta dovrebbe avere aliquota elevata (come in passato) al di sopra di una data soglia esente.

Tenuto conto della distribuzione molto diseguale dei patrimoni all’interno di un paese come l’Italia, la grande maggioranza dei contribuenti sarebbe esente dall’imposta patrimoniale e di successione. Il gettito nel giro di pochi anni si porterebbe il rapporto debito/pil al di sotto della soglia psicologica del 100%, senza ridurre la spesa pubblica ed invece avendo margini per ridurre la tassazione del lavoro e sostenere gli investimenti pubblici. Entrambe le misure avrebbero un sicuro effetto di stimolo della domanda. Non è questa le sede per entrare in dettagli tecnici. Basta avere suggerito la direzione che andrebbe presa. Quanto all’obiezione sulla fuga all’estero dei capitali, e alla prudenza di Piketty a riguardo, che la subordina ad accordi internazionali, se c’è qualcosa di negoziabile con la UE, potrebbe proprio essere l’introduzione per un certo numero di anni di un regime straordinario di controllo dei capitali. Inoltre, una base imponibile che riguardi sia le persone fisiche che giuridiche, se ben congegnata, avrebbe maglie sufficientemente strette per restituire alla finanza pubblica un parte consistente di ciò che le è stato sottratto negli anni. Le privatizzazioni del patriomonio pubblico non hanno nulla a che vedere con la crisi di fondo del patto fiscale, e non ne sono la cura, che va cercata nell’accumulazione anormale di patrimonio privato.
(*) Una parte del testo sintetizza un articolo apparso su Leftwing.

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