giovedì 26 febbraio 2015

La carriera dorata del parlamentare, una legislatura frutta 800mila euro



13pol1f01-camera-legge-elettorale-tabellone-EIDON_1034263-Non si può certo dire che in que­sti anni il par­la­mento e le altre assem­blee elet­tive siano stati esenti da cri­ti­che severe. Li si è, al con­tra­rio, fre­quen­te­mente (e molto spesso a ragione) fusti­gati per i com­por­ta­menti cen­su­ra­bili dei loro com­po­nenti (basti pen­sare alla fac­cenda dei rim­borsi facili). Sulla que­stione dei «costi della poli­tica» si sono costruite pic­cole e grandi for­tune di opi­nio­ni­sti e forze poli­ti­che inter­preti della pro­te­sta «antipolitica».
Il punto è che sem­pre il discorso si ferma sulla que­stione dei soldi, cioè in super­fi­cie o a metà strada. Si denun­cia il mal­co­stume degli sti­pendi d’oro e degli innu­me­re­voli pri­vi­legi, ma ci si guarda bene dall’interrogarsi sulle cause del pro­blema, sulla sua natura.
Il grande impu­tato in tutti que­sti discorsi è l’immoralità del ceto poli­tico. Che indub­bia­mente c’è e incide. Tant’è che var­rebbe la pena di doman­darsi se sia ancora accet­ta­bile, dopo tante espe­rienze disa­strose, che i par­la­men­tari deci­dano in totale auto­no­mia delle pro­prie remu­ne­ra­zioni e del cor­redo di bene­fici (vita­lizi, rim­borsi ed esen­zioni, coper­ture assi­sten­ziali ecc.) di cui godono. Non è, que­sto, il meno odioso dei nume­rosi con­flitti d’interesse che ci afflig­gono. Resta che, limi­tando il discorso al mal­co­stume dei poli­tici, sfugge la sostanza.
Ciò che non per caso si omette di con­si­de­rare è che sti­pendi d’oro e pri­vi­legi sono essen­zial­mente stru­menti per la cor­ru­zione di quanti ne godono. Cor­ru­zione che deve essere – oltre che denun­ciata – inda­gata nella sua ratio poli­tica. Qui il discorso si salda a quello, avviato qual­che giorno fa su que­ste pagine, sul tra­sfor­mi­smo par­la­men­tare. A guar­dar bene, anzi, si tratta di un unico discorso. Pro­prio come il tra­sfor­mi­smo, gli sti­pendi d’oro e i pri­vi­legi dei par­la­men­tari ser­vono in primo luogo ai governi per ridurre in sog­ge­zione il par­la­mento. Che ciò avvenga con l’attiva con­ni­venza dei par­la­men­tari mede­simi non è un’obiezione. Ciò rende que­sti ultimi com­plici di un pro­cesso letale per la demo­cra­zia. Ma la sostanza evi­den­te­mente resta. E chia­ri­sce la natura poli­tica della «que­stione morale», sulla quale aveva cer­cato di attrarre l’attenzione ai suoi tempi Enrico Ber­lin­guer, restando ovvia­mente inascoltato.
C’è una prova incon­fu­ta­bile di que­sto nesso: la pro­gres­sione sto­rica degli emo­lu­menti dei par­la­men­tari, da leg­gersi in stretto rap­porto con il modi­fi­carsi del rap­porto tra par­la­mento e governo all’alba della «seconda Repub­blica». La car­riera dei par­la­men­tari diventa un affare d’oro in senso stretto pro­prio negli anni Novanta, quelli delle rovi­nose «riforme isti­tu­zio­nali» (mag­gio­ri­ta­rio e bipo­la­ri­smo) che avreb­bero dovuto dare effi­cienza al sistema per garan­tire la «gover­na­bi­lità» del paese. C’è un filo rosso (o nero) a col­le­gare tutte que­ste riforme, un filo che ne dichiara l’anima pidui­sta. Il par­la­mento doveva essere messo in mora: biso­gnava a tutti i costi ridurne l’autonomia e la capa­cità di inter­fe­rire cri­ti­ca­mente nell’azione di governo. A que­sto fine si è prov­ve­duto a «sem­pli­fi­care» la com­po­si­zione poli­tica delle Camere (tagliando soprat­tutto «l’ala sini­stra» dello schie­ra­mento poli­tico) e a con­se­gnare alle segre­te­rie dei par­titi il potere di nomina degli «eletti». Men­tre si è venuta con­fe­rendo al governo anche gran parte della fun­zione legislativa.
Ebbene, non è un caso che, pro­prio men­tre si intro­du­ce­vano tali modi­fi­che (che smon­ta­vano di fatto il sistema par­la­men­tare dise­gnato in Costi­tu­zione), si siano ver­sati fiumi di denaro nelle tasche degli «eletti», con il risul­tato di tra­sfor­mare lo sta­tus del par­la­men­tare in una con­di­zione di asso­luto pri­vi­le­gio, con­ser­vare la quale è dive­nuto per tanti un fine in sé, di gran lunga prio­ri­ta­rio rispetto ai com­piti pre­scritti dal ser­vi­zio della rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica
Oggi lo sti­pen­dio netto di un par­la­men­tare ita­liano è circa 14 volte quello medio di un ope­raio e 11 volte quello di un inse­gnante, men­tre fino alla metà degli anni Novanta il rap­porto era rispet­ti­va­mente di 8 e di 6 a 1 (già molto ele­vato ma forse non ancora scan­da­loso). La retri­bu­zione media netta dei par­la­men­tari ita­liani si è rad­dop­piata in ter­mini reali, pas­sando dall’equivalente di 7mila euro men­sili alla bel­lezza di 14mila euro. Ragion per cui oggi, a un sem­plice par­la­men­tare, una legi­sla­tura frutta almeno 800mila euro, incom­pa­ra­bil­mente di più di quanto possa por­tare a casa in un’intera vita di lavoro un ope­raio o un impie­gato che abbia la for­tuna di lavo­rare continuativamente.
In que­sto sce­na­rio va letta anche la norma che regola la con­ces­sione dei vita­lizi. Era cer­ta­mente inac­cet­ta­bile quanto avve­niva in pas­sato, quando si per­ce­piva il vita­li­zio non appena si ces­sava dalla carica, a qua­lun­que età e indi­pen­den­te­mente dal periodo tra­scorso in par­la­mento. Per ovviare allo scon­cio si è giu­sta­mente dif­fe­rita l’erogazione del vita­li­zio al com­pi­mento del ses­san­ta­cin­que­simo anno di età e la si è con­di­zio­nata alla per­ma­nenza in carica per almeno un’intera legi­sla­tura. Ma l’effetto per­verso è che tenere in vita le legi­sla­ture è quindi diven­tato un fine in sé, indi­pen­dente da qual­siasi ratio poli­tica. Il par­la­mento in carica pre­serva se stesso per garan­tire i pri­vi­legi agli «eletti», senza che ciò abbia neces­sa­ria­mente rap­porto con la dia­let­tica poli­tica tra le forze rappresentate.
Se tutto que­sto è vero, appare evi­dente come que­sta ver­go­gnosa «poli­tica dei red­diti» dei par­la­men­tari sia stata la via regia della cor­ru­zione, per­cor­rendo la quale è stato con­se­guito (senza modi­fi­care la Costi­tu­zione for­male) un risul­tato ana­logo a quello che il fasci­smo aveva otte­nuto per via legi­sla­tiva tra il 1925 e il ’26. Anche con que­sti mezzi (oltre che modi­fi­cando leggi e rego­la­menti) si è riu­sciti a ridurre il par­la­mento al rango di col­la­bo­ra­tore subor­di­nato del governo, a sua camera di rati­fica. In que­sto stesso qua­dro si col­loca il tra­sfor­mi­smo par­la­men­tare. Del quale è pos­si­bile com­pren­dere la ricor­renza e misu­rare gli effetti poli­tici sol­tanto tenendo pre­sente tale sce­na­rio complessivo.
Moti­vati dai ric­chi emo­lu­menti e dai pri­vi­legi dello sta­tus, molti par­la­men­tari vogliono soprat­tutto per­si­stere nel pro­prio ruolo. Di qui la forte pro­pen­sione a cam­biare col­lo­ca­zione poli­tica, al duplice scopo di «sta­bi­liz­zare» la legi­sla­tura e di garan­tire a se stessi rela­zioni più pro­fi­cue in vista della rie­le­zione. Avva­len­dosi di tale stato di cose, i governi a loro volta si sba­raz­zano di un potere auto­nomo con­cor­rente, dive­nendo arbi­tri mono­cra­tici della dina­mica poli­tica. In que­sto qua­dro dav­vero la dia­let­tica par­la­men­tare si riduce a un’opera di tea­tro: alla litur­gia di un par­la­mento che simula lo svol­gi­mento delle pro­prie fun­zioni. Denun­ciare tale stato di cose non è, come forse si ritiene, mora­li­smo. È il solo modo alla nostra por­tata per con­tra­stare l’agonia della demo­cra­zia parlamentare.
 
Alberto Burgio - il manifesto

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