lunedì 9 febbraio 2015

Il laboratorio greco e il diritto all'insolvenza di Marco Bertorello




Quello che sta accadendo in Grecia, per quanto complesso e forse contraddittorio, apre qualche spazio nella riflessione politica a sinistra in Europa e persino in Italia. Trascurando chi prova a salire sul carro del vincitore ellenico esclusivamente per rilanciare strumentalmente la propria presenza sbiadita dentro e fuori le istituzioni e senza avere molto a che spartire con ciò che avviene al di là dell'Adriatico, i temi concreti che pone Syriza fanno ripartire un dibattito economico. Il problema che emerge è che spesso tale dibattito rischia di essere unicamente economico, espunto cioè di una logica politica essenziale proprio per mettere in discussione l'economia dominante. Sembra banale affermarlo, ma senza la politica l'economia rimane pericolosamente scienza esatta, immodificabile nei suoi contorni di fondo.

L'affermazione di Syriza, al di là delle difficoltà che realisticamente incontrerà (a partire da un'ulteriore fuga di capitali, un indebolimento del sistema bancario e un aumento dei tassi sui debiti) e delle pressioni che subirà per un modesto accordo al ribasso sul debito, imprime una messa a punto alle politiche di austerità e può aprire dinamiche interessanti. Mentre i nuovi rappresentanti greci si apprestano a misurarsi con Troika e autorità internazionali, in Italia la novità ellenica viene tradotta dentro un processo che ne ridimensiona immediatamente la portata. Troppi, anche a sinistra, anche tra i sostenitori di Tsipras, collocano le scelte di Syriza nell'alveolo nazionale, sottolineando come non siano esportabili. Sarebbero rivendicazioni valide, ma solo per Atene.

Che esista una specificità del caso greco appare evidente, ma quando questa si trasforma in unicità, allora il discorso diventa meno condivisibile. Non considerare la Grecia la punta estrema di politiche economiche adottate a vari gradi in tutto il panorama europeo, significa sottovalutare le dinamiche economiche continentali e addirittura globali. Isolare la Grecia non fa bene alla Grecia, ma può risultare dannoso anche per gli altri paesi.

Mettere sotto i riflettori il debito, anziché la moneta

Sottolineare come il caso italiano sia differente da un lato appare esercizio ovvio, ma dall'altro rischia di disinnescare le potenzialità del laboratorio ellenico, tanto più se si trasforma la disputa tra Europa e Grecia in affar loro, al massimo in una contesa a cui bisogna guardare con simpatia e solidarietà per la parte più debole.

Ciò appare ancor più incomprensibile se si accetta il terreno di scontro a livello continentale. Tsipras non ha mai rivendicato l'uscita dall'euro, implicitamente riconoscendo che il quadro della contesa deve, per quanto possibile, restare sovranazionale. Per tale atteggiamento tanti si sono complimentati, ma ora occorre un protagonismo attivo dei potenziali alleati dei greci. Non basta fare il tifo sugli spalti, bisogna scendere in campo e giocare la partita, cercando di individuare quali possano essere le tattiche di gioco vincenti. Mettere in sordina l'uscita dall'euro significa giocare su questo terreno, non tornare immediatamente a riflettere sui propri dilemmi nazionali, pensando magari di drenare nuovi consensi solo perché irraggiati dalla vittoria anti-austerity realizzata altrove.

Se non è la moneta lo strumento per sottrarsi alle politiche di austerità, allora il tema su cui incentrare interesse e iniziativa resta il debito. Viviamo in un'economia fondata sul debito, innanzitutto privato, il quale quando va in crisi scarica le proprie difficoltà sulle casse dello Stato, ingigantendo il debito sovrano. Quando l'economia reale non funziona come dovrebbe, si effettuano molteplici politiche economiche tutte fondate sulla promozione di debiti privati e pubblici, si stampa moneta, che rappresenta una diversa forma di creare debito, in sostanza si rimanda indefinitamente la chiusura del circuito tra debitore e creditore, rendendo il saldo del debito impossibile, se non come risultato di una crescita economica straordinaria che non è data da molto tempo ormai.

Luigi Pandolfi definisce il debito sovrano una «dittatura» sulla società e conclude che «al punto in cui è arrivato, il debito europeo, almeno per una sua parte (e segnatamente in alcuni paesi), è impagabile. Esso si è strutturato ormai come un debito perpetuo, in continua crescita, che genera profitti soltanto per i grandi investitori, le banche, i fondi speculativi (i piccoli risparmiatori, le famiglie, ne detengono solo una minima parte). Abbiamo visto come si è formato in questi decenni e come è diventato ipertrofico negli ultimi anni»[1]. Come dargli torto. Esso rappresenta, dunque, una costante spada di Damocle sulla testa degli europei, e non solo, a causa sua vengono giustificate politiche di sacrifici, controriforme strutturali che continuano a scommettere sulla trasformazione competitiva degli assetti produttivi al prezzo di una riduzione dei costi, nell'illusoria ambizione di migliorare le rispettive quote di esportazione su scala internazionale. Un giochetto che non si comprende come possa non essere a somma zero, finendo per avere paesi che nel loro diventare più competitivi sottraggono spazi di esportazioni ai vicini dentro una corsa al ribasso delle condizioni di produzione e di vita.

Se l'economia a debito è il cuore dell'economia contemporanea allora non si può non ripartire dai debiti sovrani, dalla loro funzione economica e politica, dal loro strabordante peso nel definire le politiche economiche di tutti i paesi. Siano essi più o meno debitori. Va considerato che dall'esplodere della crisi i debiti pubblici dei paesi dell'eurozona sono passati dal 66.2% al 92.6% del Pil[2]. La Grecia è un laboratorio, ma non è l'eccezione. Non è un caso che tra le richieste di Syriza vi sia la ristrutturazione del proprio debito nazionale. Se vogliamo fare un paragone tra penisola ellenica e italiana basti pensare che con la crisi il debito sovrano nel primo caso è salito dal 107 al 175% e nel secondo dal 104 al 133%. L'entità in termini assoluti è ben diversa (337 contro 2160 miliardi di euro), le percentuali in riferimento al Pil sono anch'esse differenti, ma non può sfuggire il comune senso di marcia, la dimostrazione della fallacia delle medesime politiche di austerità.

Certo esistono anche altre differenze, indubbiamente ormai la gran parte dei titoli pubblici di Atene sono in mano a istituzioni statali o alla Bce, mentre tanta parte del debito italiano è detenuto da finanza privata. Ma ciò non può far concludere che una ristrutturazione del debito greco sarebbe possibile, poiché in sostanza non danneggerebbe nessuno e dunque sarebbe ritenuta sopportabile dal sistema[3], mentre quella del debito italiano verrebbe inibita a causa dei danni alla finanza privata e in particolar modo a quella legata al segmento bancario. E che tale colpo a cascata produrrebbe un effetto stagnazione per l'intero sistema economico, magari come quello affermatosi negli anni Novanta in Giappone[4].

Questo ragionamento è un'implicita estensione della logica “troppo grandi per fallire” e rende il sistema bancario intoccabile, se non per essere salvato con soldi pubblici dalle sue sregolatezze quando necessario. Se un debito sovrano è ormai insostenibile, resta con tali caratteristiche anche se a detenerne i titoli è la finanza privata. Anzi, per certi versi l'autoriduzione del debito potrebbe rappresentare non solo una manovra per dare fiato al corpo sociale, ma, se effettuata in maniera selettiva e democratica, potrebbe costituire una sorta di patrimoniale che aggira il limite delle patrimoniali, cioè la mobilità della ricchezza, la sua dose di inafferrabilità, in quanto si tratterebbe di non restituire una quota di ricchezza anziché di andarla a cercare per tassarla. Tale operazione dovrebbe essere realizzata in funzione del grado di ricchezza dei detentori di titoli pubblici, tutelando il piccolo risparmio e rifiutando il principio dei tagli lineari.

È chiaro che una ristrutturazione dei debiti sovrani abbia un costo e anche molteplici difficoltà da affrontare, che necessiti di vari passaggi per renderla credibile (uno dei quali consiste in una rinazionalizzazione, almeno parziale, del sistema bancario), ma, a fronte dello scenario di crescente dittatura dei debiti sull'intero sistema economico, bisogna pur misurarsi su tale terreno. La stessa Syriza altrimenti rischia di essere spinta verso una rapida contesa con le istituzioni della Troika per una soluzione del debito parziale e che non metta in discussione le coordinate nelle relazioni tra creditori e debitori. L'isolamento contribuisce a depotenziare le indicazioni popolari emerse dal voto greco e favorisce una soluzione circoscritta. Il rischio, quindi, è quello di un ritorno nei ranghi e soluzioni di piccolo cabotaggio o illusorie.

Una proposta keynesiana

Così in Italia si pone l'accento su altre soluzioni. L'approccio moneto-centrico, che individua nell'euro la principale causa dei mali dei paesi periferici, rientra dalla finestra attraverso altri espedienti di carattere sempre monetario. È il caso della richiesta di costituire una sorta di seconda moneta da affiancare all'euro, una moneta statale[5] che dovrebbe essere costituita non da effettiva nuova moneta circolante, ma mediante un'emissione da parte dello Stato di una cifra pari a 200 miliardi in nuovi titoli pubblici di credito fiscale in un determinato arco di tempo (si ipotizza tre anni). Tali titoli non dovrebbero essere destinati alle banche, ma direttamente a cittadini e imprese in forma gratuita. Insomma verrebbero immessi 200 miliardi in Certificati di Credito Fiscale (CCF), ad uso differito e con scadenza a due anni da utilizzare per poter pagare tasse, contributi, ma anche per circolare come una quasi moneta, per il valore che rappresentano.

I proponenti immaginano così di aggirare i vincoli dell'eurozona, in quanto questi titoli sono titoli di credito e non di debito, non aumenterebbero il debito pubblico, sarebbero emessi a livello nazionale e non continentale, sarebbero titoli statali e non moneta vera e propria. Allo stesso tempo fornirebbero un rapido potere d'acquisto per cittadini e imprese, migliorando la competitività di queste ultime, e produrrebbero un deciso aumento del Pil e quindi dell'occupazione. Il risultato sarebbe la capacità di riacciuffare la crescita, ri-oliare la macchina, recuperare l'equilibrio delle partite commerciali.

Tale ripartenza consentirebbe poi di riaggiustare il rapporto debito-Pil, raffreddando stabilmente la crisi da eccesso di debito sovrano. Utilizzo il condizionale poiché si tratta di una proposta in qualche misura squisitamente keynesiana e dunque che rischia di non fare i conti con un contesto fortemente mutato. Naturalmente nessuno mette in discussione l'assunto che sia necessario un aumento di spesa pubblica per rafforzare lo Stato sociale. Ma in questo caso il presupposto è che, essendo i problemi riconducibili unicamente a un deficit di domanda, si tratta di iniettare risorse pubbliche su quel versante per far ripartire le consuete modalità di mercato. Lasciando inalterati i meccanismi di fondo, come se automaticamente potessero tornare a essere sani ed efficienti, come se i processi di finanziarizzazione e dilatazione dell'economia a debito fossero semplicemente una degenerazione del sistema, non la conseguenza del suo mancato funzionamento.

Economia reale versus quella finanziaria

Le trasformazioni economiche di questi ultimi decenni hanno fronteggiato il crescente rallentamento dell'economia reale e contestualmente hanno consentito di recuperare comando e valorizzazione dei capitali a danno del lavoro, cambiando notevolmente i rapporti di forza tra le classi.

Questo recupero del primato dei profitti, siano finanziari o industriali, è il frutto e la causa allo stesso tempo di un indebolimento del lavoro, di una sua perdita di potere contrattuale realizzata attraverso la disoccupazione e la destrutturazione del mercato del lavoro e avvenuta a seguito della sua sconfitta sul piano politico e sindacale. Ipotizzare di lanciare moneta dagli elicotteri, cioè darla gratuitamente, rischierebbe di mettere in discussione questo primato. Dare più denaro al lavoro, infatti, non solo gli può consentire di aumentare i propri consumi, ma gli fornisce un maggiore potere contrattuale. Esattamente ciò che è stato negato a partire dalla controrivoluzione liberista della fine degli anni Settanta. Ma la globalizzazione complica notevolmente il contesto (e qui sta la principale ragione di ostilità del pensiero liberista e delle classi dirigenti internazionali verso un'opzione keynesiana), rendendo incerta e non garantita la chiusura del circuito virtuoso rappresentato dall'equazione spesa pubblica=aumento domanda=aumento offerta=recupero fiscale.

In effetti, stante l'attuale contesto, appare molto rischioso puntare tutto su un effetto moltiplicatore prodotto da un aumento di spesa statale che potrebbe riversarsi in mille rivoli fuori dai confini e solo in parte sul proprio territorio. In tempi di mercato globale e competizione internazionale non esistono garanzie che a trarne vantaggio siano gli stessi paesi che emettono maggiore spesa pubblica. Con il risultato, se si lasciano invariati gli assetti di mercato dominanti, di un'esplosione ulteriore del debito pubblico e un effimero vantaggio per consumatori e cittadini.

Difficile, dunque, che questa soluzione non sia “intravista” dall'impresa, difficile pensare che l'opzione keynesiana produrrebbe vantaggi per tutti gli attori socio-economici, ma non venga compresa per la sue effettiva portata positiva dalle attuali classi dirigenti. In realtà problemi politici ed economici inducono le classi dominanti a stare alla larga da una tale ipotesi. I rischi connessi a una proposta keynesiana sono tali da non farla ritenere praticabile dai principali soggetti del capitalismo contemporaneo.

Non esistono, dunque, soluzioni indolori per tutti, o meglio vantaggiose per tutti, dove nessuno paga il conto. Meglio allora primariamente ipotizzare una ristrutturazione del debito pubblico nella chiara prospettiva di utilizzare la ristrutturazione stessa come una «leva», come sostiene l'economista francese Chesnais[6], per provare a cambiare ben più in profondità gli attuali assetti, consapevoli che non potrebbe che essere un inizio. Scelte politiche e nuove alleanze, dunque, per cambiare l'economia.


NOTE

[1]Pandolfi L., La dittatura del debito e le possibili vie di fuga, in www.economiaepolitica.it, 29 gennaio 2015.
[2]Istat, elaborazione su dati Eurostat, aprile 2014.
[3]Grazzini E., La moratoria del debito italiano è un'illusione, MicroMega, 28 gennaio 2015.
[4]Pastrello G., Ristrutturare il debito si può, in «il manifesto», 5 gennaio 2015.
[5]Si veda www.monetafiscale.it, Uscire dalla depressione con l'immissione di “moneta statale” a circolazione interna, Manifesto proposto tra gli altri da Cattaneo, Gallino, Grazzini, Sylos Labini.
[6]Chesnais F., Debiti illeggittimi e diritto all'insolvenza, DeriveApprodi, Roma, 2011.

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