giovedì 26 febbraio 2015

L'ipocrisia di Bruxelles sui debiti di Atene



di Luigi Pandolfi

A proposito della trattativa tra Atene e Bruxelles ci sono dei “non detti” che, obiettivamente, impediscono un discernimento consapevole della reale posta in gioco. Da più parti è stato sostenuto, a ragione, che la partita è tutta politica, che la stessa travalica i confini della Grecia e rimanda all’attuale modello di costruzione Europea. Tutto vero. Ci sono elementi, tuttavia, che potrebbero corroborare tale assunto? Si, vediamo quali.

In campagna elettorale Syriza aveva rivendicato il diritto della Grecia a chiedere una moratoria sul proprio debito. La tesi era questa: il paese non è più nelle condizioni di sopportare politiche di austerità per garantire la sostenibilità di un debito che per gran parte, ormai, è da considerarsi impagabile. Anziché pretendere ulteriori salassi a danno del popolo greco, le istituzioni Europee farebbero bene, pertanto, a prendere in considerazione l’ipotesi di un taglio del suo valore nominale, ovvero quella di una sua generosa ristrutturazione. Idea peregrina o soluzione plausibile?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare qualche passo indietro, riportando alla luce un paio di passaggi cruciali, illuminanti, di questa vicenda.

Nel 2012 il debito greco supera i 360 miliardi di Euro, è il picco più alto dall’inizio della crisi. La sua composizione, tuttavia, è molto diversa da quella attuale. Più del 50per cento (200 miliardi circa) ce l’hanno in mano banche private, fondi di investimento ed altri investitori privati, compresi i famigerati hedge fund. Il resto è diviso tra Bce e banche centrali estere.

Siamo a febbraio, l’Eurogruppo ha appena licenziato il secondo pacchetto di “aiuti” al paese per un valore di 110 miliardi, ed ecco che prende il via una gigantesca operazione di ristrutturazione del debito che vede coinvolto l’intero settore privato, anche i piccoli investitori. E’ il cosiddetto PSI (“Private sector involvement”), un’operazione di scambio di titoli di stato (swap) che ha consentito alla Grecia di abbattere del 50 per cento circa il valore nominale di oltre la metà del suo debito.

In concreto, l’offerta del governo di Atene prevedeva di scambiare per ogni 1000 Euro di valore nominale di un titolo 315 Euro di nuove obbligazioni nazionali a scadenza trentennale e 150 Euro di obbligazioni del Fondo Salva stati (Efsf). 1000 Euro contro 465 Euro, una un taglio netto del 53,5 per cento. Di fronte alla minaccia di totale insolvenza del paese, l’adesione dei creditori fu, com’era prevedibile, massima, pari al 95per cento. Tanto più che per gran parte di essi uno scudo protettivo era arrivato direttamente dalla Bce, con i due Ltro (Long-term refinancing operation), i piani di rifinanziamento bancario che tra il 2011 ed il 2012 fecero affluire oltre 1000 miliardi nella casse delle banche Europee, salvandole dal collasso.

Passano poco più di quattro mesi e un’altra operazione della Bce ha di nuovo la Grecia come riferimento. Siamo ad agosto del 2012, 3,2 miliardi di titoli detenuti da Eurotower vanno a scadenza, ma il paese non è nelle condizioni di riscattarli. Draghi, in un primo momento, nega sia una dilazione del pagamento, sia un nuovo intervento finanziario. Nondimeno, insistere su questa strada avrebbe significato portare la Grecia al default, uno scenario che non sarebbe giovato certamente all’Europa né alla tenuta dell’Euro.

Ecco allora una soluzione di emergenza: La Bce concede al Tesoro greco di emettere titoli a brevissima scadenza (3-6 mesi), il cui valore è pari a zero, data la condizione di insolvibilità del paese. Tali titoli il Tesoro li vende alla banche del paese, che, a loro volta, con la garanzia di un fondo creato dalla Bec (l’ormai noto Ela, Emergency liquidity assistance), li girano alla Banca centrale, che li accetta come collaterale per stampare nuova moneta che lo stato utilizzerà per chiudere i conti con la Bce stessa.


Chiaro? Di fronte al rischio di un default tecnico, certificato, del paese, che avrebbe avuto effetti devastanti sull’Euro, La Banca centrale Europea ha, di fatto, concesso alla Grecia di battere moneta per pagare i suoi debiti. Ciò, è bene ricordarlo, dopo che nell’ottobre del 2011, e prima che l’allora premier socialista George Papandreou annunciasse, a sorpresa, la volontà di indire un referendum sul secondo pacchetto di aiuti, i partner dell'Eurozona avevano addirittura trovato un accordo per cancellare il 50per cento dell’intero debito greco. Incredibile, ma vero.

Arriviamo così ad oggi. A differenza di 3 anni fa, la composizione del debito greco è totalmente mutata. Fino ad allora a detenerlo erano per lo più investitori privati, banche e piccoli risparmiatori. Ora il 70per cento è dato da “Official loans” (“Prestiti ufficiali”) riconducibili ad istituzioni pubbliche (60per cento stati membri Ue - Fondo Salva Stati e 12per cento l’Fmi), il resto è appannaggio della Bce e solo il 15per cento è composto da titoli negoziabili sul mercato in mano a privati. Il tutto fa 317 miliardi di Euro, il 177 per cento del Pil. Più che di “debito pubblico” in senso stretto, si tratta, a ben vedere, di prestiti che la Grecia ha ricevuto dalle stesse istituzioni Europee ed altre istituzioni internazionali, nel quadro degli accordi di “salvataggio” sottoscritti dal paese a partire dal 2010. Ciò spiega anche il perché, ad esempio, la Grecia paga sul proprio “debito” interessi inferiori a quelli della Germania (2,4 per cento il tasso medio ellenico, 2,7 per cento quello tedesco).

Non c’è bisogno di essere economisti, allora, per comprendere che oggi sarebbe più facile una ristrutturazione del debito greco, ovvero la cancellazione di una parte di esso. Molto più facile di 3 anni fa, quando si acconsentì perfino di stampare moneta e la “tosatura” riguardò il solo settore privato. Ma soprattutto: perché ieri si ed oggi no? Perché oggi al governo c’è Syriza e non più gli emissari della Troika. Ieri quelle concessioni avevano come collaterale rigide misure di austerità e servivano a puntellare l’attuale governance Euro-monetaria. Oggi aprirebbero la strada ad un rivolgimento della stessa, decreterebbero la fine di un modello di costruzione Europea che della crisi ha fatto uno strumento per scardinare, ovunque, quello che restava del “modello sociale Europeo”. Ecco perché siamo di fronte ad una partita politica, tutta politica. Ma a fronteggiarsi non sono due squadre con lo stesso numero di giocatori. E’ una partita impari, di diciotto giocatori contro uno, e viceversa.

In questo quadro va letto l’esito della trattativa che Atene ha concluso con gli altri partner Europei. Il successo politico del governo di Alexis Tsipras è indiscutibile, il risultato ottenuto può essere giustificato solo con la necessità della Grecia di prendere tempo, evitando, nell’immediato, un tracollo del sistema bancario nazionale e un default tecnico dello stato. Circostanza che avrebbe aggravato drammaticamente le condizioni di vita della popolazione e, probabilmente, spianato la strada a soluzioni neoautoritarie, per non dire dichiaratamente fasciste. E’ evidente, nondimeno, che il paese non potrà sopravvivere a lungo rimanendo attaccato al polmone artificiale della Bce, delle istituzioni Europee, dell’Fmi. Presto arriverà il momento di scelte coraggiose, ad Atene come a Bruxelles. Ma molto dipenderà dal quadro politico che si andrà a formare in Europa da qui ad un anno.

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