Tutto è cominciato con la guerra che Saddam Hussein, in nome
e con i soldi dell'occidente, scatenò contro l'Iran nel 1981. L'esito
del conflitto, terminato nel 1988, non fu solo il rafforzamento dei
mullah al potere a Teheran, ma la crisi finanziaria dell'Iraq, che, nel
1990 invase il Kuwait, il principale paese creditore. La guerra del
1991, le sanzioni, l'invasione anglo-americana del 2003, la guerriglia e
il conflitto tra sunniti e sciiti hanno finito per distruggere lo stato
iracheno, spianando la strada all'estremismo sunnita, ad Al-Qaeda e
all'Isis.
L'Iraq rappresenta la prova della fallimentare strategia americana
nel mondo arabo e islamico dopo il 1989. Se Osama bin Laden è stato il
risultato della reazione americana all'invasione russa dell'Afghanistan,
il Califfo è la conseguenza diretta dell'appoggio dei neo-cons a
chiunque combattesse i cosiddetti «stati canaglia», ovvero l'Iraq e la
Siria. Le fotografie del senatore Mc Cain accanto ai ribelli siriani,
con cui ha avuto diversi incontri, spiegano meglio di qualsiasi analisi
una specialità della politica americana: allearsi con i propri nemici.
D'altronde, è noto che i pilastri del sistema di alleanze degli Usa,
l'Arabia Saudita e il Pakistan, hanno sempre fatto il doppio gioco. I
sauditi finanziano in tutto il mondo i salafiti e i servizi segreti
pachistani appoggiano da sempre i talebani afghani in funzione
anti-Kabul. In ultimo, al fronte dei filo-fondamentalisti alleati degli
Usa si è aggiunto Erdogan, che ha fatto di tutto per sabotare la
resistenza curda nella Siria del nord, mentre gli americani bombardavano
l'Isis.
Una specie di franchising
La cecità strategica degli Usa è figlia di diversi fattori:
un'interminabile ossessione anti-russa, che si è inasprita dopo l'era
Eltsin, e l'ostilità verso l'Iran (russi e iraniani hanno sempre
appoggiato Assad), l'alleanza storica con l'Arabia Saudita, gendarme del
petrolio nel golfo persico, lo spostamento dell'asse globale verso il
Pacifico e soprattutto un'assenza di visione generale che si è tradotta
in una politica ondivaga e contraddittoria. Poco prima di accorgersi che
l'Isis è la principale minaccia nell'area, Gli stati Uniti si
preparavano a bombardare Assad, insieme a inglesi e francesi, reduci
dall'intervento in Libia, probabilmente l'iniziativa più stupida e
auto-lesionistica di cui gli stati occidentali si siano resi
responsabili negli ultimi decenni.
Tutto ciò contribuisce a spiegare l'ascesa apparentemente
irresistibile dell'Isis, lo Stato islamico della Siria e dell'Iraq, che
ora si è spinto fino alle coste della Libia e cerca alleanze, in regime
di franchising, in mezzo mondo, dal Ciad alla Nigeria di Boko Haram, dal
sud della Tunisia e dell'Algeria al Sinai e allo Yemen. Come spiega
molto bene Patrick Cockburn in L'ascesa dello stato islamico. Il ritorno
del Jihadismo (Stampa alternativa, febbraio 2014), il dilagare dello
jihadismo sarebbe incomprensibile senza il ruolo trentennale
dell'occidente nei sussulti di un mondo che va da Tangeri alla Cina. Più
di altri saggi che stanno uscendo in queste settimane (Domenico
Quirico, Il grande califfato, Neri Pozza, e Maurizio Molinari, Il
Califfo del terrore, Rizzoli), Cockburn insiste sull'implicazione di
fattori micro e macro nel «sorprendente» successo del Califfo.
Se l'Isis si nutre di una concezione medievale dell'Islam (peraltro
identica a quella dei sauditi) ed è capace di amministrare bene, come
sostiene Molinari, cioè di imporre l'ordine assoluto nel territori
conquistati, è anche vero che le armi e i denari necessari alla
conquista provengono dalla Turchia, dal Qatar e dall'Arabia Saudita (e
indirettamente dall'occidente). Non c'è alcuna meraviglia nel fatto che
iracheni e siriani, stremati da guerre civili interminabili,
preferiscano alla morte quotidiana l'ordine cupo ma stabile del Califfo.
Lo stesso era successo in Afghanistan con i talebani prima dell'11
settembre 2001. Ma quello che conta è che il petrolio iracheno e
siriano, e i tank e gli Humvee destinati all'esercito di Baghdad,
finiscono nelle mani del Califfo.
Coreografia del terrore
Un altro aspetto decisivo dell'analisi di Cockburn è sfatare la
leggenda del «primitivismo» dell'Isis. Il fanatismo, le esecuzioni dei
prigionieri, le decapitazioni degli ostaggi, l'applicazione selvaggia
della sharia sono del tutto compatibili con un uso sapiente dei mezzi di
comunicazione, dei video e soprattutto dei social network. Se i video
raccapriccianti, immediatamente diffusi in tutto il mondo, hanno
l'effetto di terrorizzare e demotivare i soldati governativi e nemici,
iracheni, siriani e oggi libici, Twitter e Facebook sono piattaforme
ideali per la propaganda e il reclutamento. I messaggi che spingono
ceceni, tunisini, libici e sunniti di ogni origine (ma anche francesi,
inglesi, americani) ad arruolarsi nell'Isis saranno semplicistici (il
sacrificio di sé in nome di Dio, l'odio per la corruzione occidentale e
per l'erotismo e così via), ma potenti e soprattutto efficaci. Così, con
un paradosso apparente, l'occidente offre ai suoi nemici l'impiego
della stessa tecnologia e degli stessi mezzi di comunicazione. E questo
vale anche per l'estetica e la coreografia.
Le file di uomini in nero, mascherati e anonimi, che conducono al
macello le vittime a capo chino vestite d'arancione, o le bandiere nere
che garriscono in cima a una collina o sul tetto degli edifici, sono uno
straordinario richiamo per chiunque cerchi un'esperienza limite, la
trance dell'uccidere e dell'essere uccisi, sia che combatta nella steppe
siriane e irachene, sia che s'illuda di farlo nelle strade di una
metropoli europea.
A questa capacità comunicativa e visionaria dell'Isis corrispondono
in occidente la disinformazione e la confusione di desideri e realtà.
Per mesi, americani ed europei hanno ignorato ciò che avveniva tra Siria
e Iraq (in sintesi, l'unificazione sotto l'Isis di una vasta zona di
confine). E soprattutto hanno creduto a quello che desideravano credere,
e cioè l'esistenza di un'opposizione siriana laica e filo-occidentale.
Questa è stata attiva nei primi mesi della rivolta, ma, composta com'era
da intellettuali e ceto medio urbano, non ha mai avuto alcun peso
militare. Come ha riconosciuto cinicamente un leader Usa, «in mezzo, tra
Assad e l'Isis ci sono solo i bottegai». La realtà è che, mentre in
occidente si faceva il tifo per un'opposizione che non c'era, l'Isis
eliminava la concorrenza, come il Free Syrian Army, e fagocitava
al-Nusra e altri gruppi filo-qaedisti.
La sventatezza delle due cooperanti italiane Greta e Vanessa è ben
poca cosa rispetto a quella delle cancellerie e dell'opinione pubblica
occidentali. Come dice Cockburn, «intendendosi di propaganda, hanno ben
compreso che conveniva loro presentare le rivolte come sollevazioni
innocue, 'rivoluzioni di velluto' guidate da un'avanguardia di blogger e
utenti di twitter, anglofoni e beneducati, per convincere i cittadini
dei paesi occidentali che i rivoluzionari mediorientali fossero persone
in tutto e per tutto simili a loro e che quanto stava accadendo nel 2011
fosse un fenomeno simile alle rivolte anticomuniste e filoccidentali
esplose nell'Europa orientale a partire dal 1989». Lo stesso si può dire
della Libia. Nel 2011 mi è capitato spesso di discutere con colleghi e
conoscenti di sinistra che spergiuravano sulla vittoria delle
rivoluzionai arabe, senza porsi il problema di chi le finanziava e
soprattutto dei rapporti di forza internazionali. Ho ancora in mente
reportage di inviati improvvisati inebriati dall'avanzata dei giovani
rivoltosi su Tripoli, ma che non si chiedevano chi avesse fornito loro
blindati e mitragliatrici pesanti.
L'antidoto ai vaneggiamenti
Anche la stampa mainstream ha alimentato ogni tipo di leggenda,
attribuendo alle truppe di Gheddafi orrori che non avevano commesso e
tacendo poi pudicamente sulla spaventosa fine del dittatore. Per non
parlare di chi incitava alla guerra sulle prime pagine dei quotidiani e
oggi tace non avendo alcunché da dire sugli sviluppi recenti, se non
riproporre le solite giaculatorie sulla rimozione della guerra in
occidente. Il libro di Cockburn fa giustizia della bolla di
disinformazione, pregiudizi ideologici e dilettantismo che ha avvolto da
noi la conoscenza delle guerre in Libia e in Siria, nonché l'ascesa
dell'Isis.
L'autore, già corrispondente del Financial Times e poi di The
Independent, dimostra che si può fare ottimo giornalismo senza ricorrere
al facile colore del sangue e del macabro, che pure abbondano in questa
vicenda, e senza conformarsi all'opinione dominante. La lettura del suo
libro è un antidoto alle sciocchezze che si sono lette in questi ultimi
anni. Invece di vaneggiare su guerre da combattere in Libia, i nostri
ministri farebbero bene a dargli un'occhiata.
di Alessandro Dal Lago, Il Manifesto
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