mercoledì 29 dicembre 2010

I silenzi e le contraddizioni del Pd di fronte a Marchionne

Ottimo. Benino. Inaccettabile. E se fosse... Tre posizioni (o trecento) sono peggio che una. E il Pd - di fronte all'accordo di Mirafiori che facendo carta straccia degli elementari diritti sul lavoro diventa la questione politica che riguarda tutti - ancora una volta è maestro nel non procedere (in disordine sparso).
Se il giuslavorista Pietro Ichino, senatore del Pd, quasi si mette a fare salti di gioia auspicando che la Fiom adesso non si trasformi in un «maxi-Cobas», il sindaco Sergio Chiamparino, pur arrivando a dire che «si tratta di un'intesa positiva non solo per la fabbrica ma per l'interà città», fuori tempo massimo - e con il sottofondo di Piero Fassino - ha almeno il buon cuore di augurarsi che «nella gestione dello stabilimento venga coinvolto anche chi non ha firmato». Poi c'è Stefano Fassina, il responsabile dell'Economia del partito, uomo di Bersani, che senza se e senza ma parla apertamente di «accordo regressivo che apre alla negazione della democrazia sindacale». E ancora Cesare Damiano, capogruppo Pd in Commissione lavoro alla Camera ed ex ministro, che definisce «opportuna» la filosofia di Marchionne a proposito dell'aumento dei carichi di lavoro e, nello stesso tempo, «inaccettabile la clausola che conferisce la possibilità di avere rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro soltanto se firmatari dell'accordo». Come se una cosa fosse indipendente dall'altra.
Ma la sintesi, come si conviene ad ogni segretario che si rispetti, tocca a Bersani, che cerca invano di non perdere l'equilibrio su un'infilata di se e anche : «L'iniziativa della Fiat è molto forte. Se porterà, come spero, a sollecitare una riforma, che ci vuole, dei meccanismi di partecipazione e di rappresentanza del mondo del lavoro, sarà un fatto che avrà un esito buono; se invece porterà, come è anche possibile, ad una disarticolazione dei rapporti sociali, allora sarà un fatto molto negativo». Morale? «Ne discuta il parlamento».
Insomma, forse è poco per immaginare il primo partito dell'opposizione impegnato a contrastare un accordo che, per dirla con Susanna Camusso, non un Cobas, significa un ritorno agli anni Cinquanta (ma senza i '60 alle porte).
Logico che tocchi al ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, suonare la carica per spingere «un accordo che farà scuola». Ecco il dito nella piaga: «All'interno di cornici di carattere generale, l'azienda è destinata ad essere il luogo nel quale si stabiliscono accordi che devono consentire alle parti di condividere il futuro e la crescita dell'azienda: fatiche ma anche risultati». E tocca ancora a Stefano Fassina (sarà la linea?) attaccare Sacconi, «in una fase così difficile per l'economia dire che l'accordo farà scuola è da irresponsabili».
Dentro quella «scuola», caldeggiata da un ampio fronte antidemocratico che non si limita al governo Berlusconi, non finiranno solo i lavoratori della Fiat, eppure è presto per capire quale politica riuscirà ad aggregare forze in grado di mettere in piedi una mobilitazione generale (che non è «solo» uno sciopero), per contrastare un modello di sviluppo che non prevede un futuro decente per le persone che lavorano. Pezzetti del Pd, forse. Il Prc, che chiama alla mobilitazione generale. Il Pdci, che parla di «medioevo» e «accordo indegno di un paese civile». E l'Italia dei Valori, «è un accordo illegittimo perché vìola il principio costituzionale secondo cui i sindacati devono essere liberi e autonomi». Questo è quanto. L'impressione è che ora tocchi alla Cgil fare politica, e sindacato.
di Luca Fazio,Il Manifesto

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