Siamo fra i tanti che hanno letto Gomorra. Ci sembrava una lettura delle mafie capace di cogliere il fenomeno nel suo intreccio con la globalizzazione e la struttura capitalistica della società. Il vestito prodotto dal lavoro nero in una piccola fabbrica dell’hinterland napoletano e indossato da Angelina Jolie ci sembrava l’esempio perfetto per cortocircuitare la categoria della legalità, la distanza fra un dickensiano mondo di sotto e lo sfarzo dei vip in mondovisione. Veri o falsi che fossero, a quello e altri episodi descritti nel libro abbiamo attribuito una forte capacità evocativa, una critica esplicita al sistema, lo svelamento di un dispositivo nel quale criminalità organizzata e multinazionali sono dalla stessa parte della barricata. Per questo non ci siamo mai appassionati alle polemiche sulla novità delle rivelazioni di Saviano, sul loro carattere inedito. E nemmeno alla querelle legata all’autenticità. Quello che ci sembrava interessante era la ricontestualizzazione di fatti anche noti dentro una cornice letteraria nuova, capace di esprimere dissenso e critica. Non ci siamo fatti invischiare nelle polemiche nemmeno di fronte alle palesi omissioni di Gomorra o all’assenza di un’analisi storica del rapporto fra unità d’Italia e istituzionalizzazion-e delle mafie. Secondo noi in Italia non ha senso parlare di queste ultime senza evidenziare l’intreccio ora palese ora occulto con pezzi dello Stato. Noi pensiamo due cose. Innanzitutto che i vari Riina, Schiavone e gli altri presunti boss, altro non siano che i vertici di quello che è solo il livello più evidente dell’intreccio politico-affaristico-criminale. E poi, che se anche si arrestassero tutti i mafiosi e i camorristi, senza intervenire sulle cause che danno a questi fenomeni un ampio consenso in alcuni settori della società, non si sarebbe fatto nemmeno un piccolo passo avanti. Arriverebbero altri a prenderne il posto e il gioco ricomincerebbe da capo. Nel corso del tempo abbiamo comunque continuato a tenerci a distanza dalle polemiche, anche quando abbiamo sentito un Saviano sempre più normalizzato tessere le lodi dei “valori antimafia di Almirante”, repubblichino a Salò e fucilatore di partigiani. E lo stesso quando l’abbiamo visto allinearsi alle posizioni dei falchi filoisraeliani convinti “che libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”. Noi, che in Palestina ci siamo andati e abbiamo potuto toccare con mano la condizione di un popolo che vive sotto una feroce occupazione militare. Riteniamo perciò di non poter essere inclusi fra coloro che lo criticano per principio, per partito preso. Tuttavia dopo la sua recente lettera agli studenti pensiamo sia opportuno rompere gli indugi e prendere posizione. Innanzitutto riteniamo inopportuna la sua pretesa di farsi tuttologo. Quali trascorsi di militanza politica ha Roberto Saviano per potersi ergere a giudice dell’operato degli studenti? Chi lo autorizza a parlare di “poche centinaia di idioti” che egemonizzerebbero le proteste, pretendendo di stabilire una divisione fra buoni e cattivi? Se con Gomorra gli abbiamo riconosciuto il merito di una scrittura fresca ed efficace, non possiamo non dire che quella lettera insiste invece su argomenti triti e ritriti che erano già vecchi quando noi, non ancora 99 Posse, occupavamo come semplici studenti le nostre facoltà durante la pantera nel 1990. Quando Saviano invita a non mettersi il casco e sfilare a volto scoperto ignora, non si sa se per scarsa conoscenza o per malafede, le centinaia di manifestazioni pacifiche nelle quali su quelle stesse teste scoperte sono calati pesantemente i manganelli della repressione. Non avevano i volti coperti quelli massacrati alla Diaz e a Bolzaneto e nemmeno quelli che pochi giorni fa sono stati caricati e arrestati mentre solidarizzavano a Brescia con gli immigrati costretti a salire su una gru per rendere visibile al mondo la propria condizione insostenibile. Perciò quando vediamo dei caschi in un corteo non pensiamo a dei vigliacchi che hanno paura di mostrare il volto, ma solo a una legittima forma di autodifesa dei movimenti di fronte alla repressione. Se Saviano ha i suoi motivi per chiamare i carabinieri della sua scorta “i miei ragazzi”, non ne hanno altrettanti Carlo Giuliani o Stefano Cucchi. È una questione di percorsi di vita e talvolta di morte. Noi invece, a differenza di Saviano, i movimenti li conosciamo bene in virtù di un paio di decenni di militanza. Eppure il 14 dicembre ci siamo sentiti vecchi, probabilmente per la prima volta nella nostra vita. Immaginavamo certo che quello che accade in Europa e la tensione che si sta accumulando da mesi in Italia, potessero essere il detonatore di scontri e incidenti, ma non che questi fossero così estesi da trasformarsi in tumulto. Siamo rimasti disorientati e ancora di più quando il giorno dopo si è scoperto che tutti gli arrestati non solo erano giovanissimi e senza precedenti, ma anche senza particolari esperienze di militanza. Altro che i vecchi militanti, i vecchi slogan e le vecchie canzoni di cui parla Saviano. Quello che è accaduto a Roma è inedito e come tutti i fenomeni senza precedenti va analizzato con umiltà e rispetto, soprattutto quando la sua dinamica è straordinariamente simile alle rivolte di Londra e di Atene. C’è un’Europa di persone senza diritti e senza prospettive, di cui i giovani sono l’espressione più avanzata e combattiva, che sta realizzando di essere con le spalle al muro. Privata in maniera progressiva di diritti elementari. Undicimila euro all’anno per iscriversi all’università nel Regno Unito. I costi insopportabili della crisi scaricati su quelli che non hanno partecipato alla grande abbuffata degli anni scorsi in Grecia. La precarietà, le prestazioni di lavoro camuffate da stage gratuiti, gli stipendi da fame dei contratti a progetto, il tentativo di azzerare le conquiste dei lavoratori in Italia. E’ a tutto questo che i giovani europei si stanno ribellando e non ci sorprende che la loro protesta esploda in forme di insubordinazione violenta se la politica non offre più nessun tipo di rappresentazione politica dei loro desideri e dei loro bisogni. All’Asinara, isola sarda un tempo nota per la presenza del carcere speciale, un gruppo di cassintegrati dorme da 296 giorni nelle celle della ex prigione. La loro protesta è pacifica, eppure da quasi un anno restano lì in attesa di risposte concrete che non arrivano. Ci farebbe piacere se Saviano, invece di pontificare su questioni che non conosce e sulle quali nessuno gli ha chiesto di ergersi a guru, sfruttasse il suo enorme potere mediatico per portare all’attenzione dell’Italia queste storie e, soprattutto, ci dicesse se le lotte devono porsi o meno il problema dell’efficacia. Un uovo sulla porta del parlamento non muta le cose, ci dice il Roberto nazionale. Sarebbe interessante che ci dicesse perché dovrebbero cambiarle le proteste che si fermano dove le camionette impediscono l’accesso a quello stesso parlamento nel quale, mentre gli studenti erano in piazza, si scriveva con la compravendita dei deputati una delle pagine più miserabili della storia di questo Paese.
99POSSE, Napoli 17/12/2010
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua