sabato 4 dicembre 2010

La borghesia cambia spalla al suo fucile

Così, siamo prossimi al finale di partita. Si tratta di sapere “come”, non “se”, perché è ormai chiaro che la borghesia nazionale, il gotha industriale e finanziario, ha già archiviato la lunga stagione del caudillo e - per rievocare un’espressione antica, ma quanto mai appropriata - si sta apprestando a «cambiare spalla al suo fucile». Basta leggere giornali come il Corriere della Sera o come La Stampa per capire che il dado è tratto, il de profundis già recitato, e che anche Berlusconi sta andando incontro al suo 25 luglio. Con la differenza che, con tutta evidenza, non siamo ai prodromi del riscatto resistenziale, ma si sta piuttosto preparando una nuova forma di dominio delle classi dominanti, forse meno feudale e parafascista, ma certo non menoed anzi per certi versi ancora più acuta di oppressione classista. Questo non significa - lo dico a scanso di equivoci - oscurare l’importanza dell’imminente tramonto politico di Berlusconi, purché si abbia ben chiaro lo scenario nel quale si sta giocando la partita del futuro del Paese, cosa vieppiù necessaria perché la sinistra possa svolgere, nella crisi imminente, un ruolo autonomo e non inconsapevolmente gregario o subalterno a progetti altrui.Il primo dato da tenere ben saldo è che sta per abbattersi sull’Italia il colpo di maglio imposto dall’Unione europea, mallevadori l’onnipotente Fondo monetario internazionale e la Banca centrale. In pratica, questo significa una manovra finanziaria correttiva di svariate decine di miliardi che verrà precipitata su un Paese sfibrato, da tempo orfano di una politica economica, con gli asset strategici dell’industria fuori competizione e con una condizione sociale regredita a livello di povertà o di semipovertà, di cui è arduo rintracciare precedenti nella storia repubblicana, se non nell’immediato periodo post-bellico. In una simile situazione, qualunque governo che inscriva le proprie scelte dentro le coordinate offerte, quelle di un monetarismo spinto, di una Maastricht riveduta e corretta in peggio, non potrà che riversare un possente volume di fuoco sui salari e su ciò che rimane del nostro derelitto welfare, con l’obiettivo di ottenere un forzato rientro dal debito. E poiché tali misure sono pesantemente impopolari, vedrete che si dispiegherà il tentativo di cooptare in un esecutivo emergenziale, o di “solidarietà nazionale” (come si usa ipocritamente dire) quante più forze siano disponibili a farsi carico dell’ingrato fardello: seduzione che suscita non poche tentazioni in un’area politica “riformista” priva di una sola idea propria, e da tempo usa a navigare in un’area culturale liberista, del tutto interna ai dogmi monetaristi, come Padoa Schioppa ci fece largamente capire nelle due finanziarie che portarono il suo nome, quando diresse il ministero delle Finanze nell’ultimo governo Prodi. Imparammo presto e a nostre spese «di che lagrime gronda e di che sangue» una strategia che salva la culla e ammazza il bambino che c’è dentro. Di più: fummo resi esperti del fatto che se abbatti il debito e contemporaneamente seghi investimenti, redditi e consumi sociali, è pacifico che il rapporto dedito/pil non solo non diminuisce, ma aumenta. Dunque, la crisi e la speculazione che qualche predicatore aveva dato per addomesticate ripresenta ora il conto e c’è da scommettere che le medicine somministrate saranno tutte della stessa cucina: Grecia e Irlanda insegnano.Ora, in un quadro siffatto accadono due cose, non proprio beneauguranti.La prima è che la Fiat, come un rullo compressore, estende, persino peggiorandolo, il modello Pomigliano a Mirafiori, previo l’ennesimo, scontato consenso sul merito di Fim, Uilm e Fismic. La rottura (del tutto momentanea) del negoziato imposta da Marchionne è unicamente dovuta al diniego dell’Ad della Fiat di fare qualsiasi pur larvato riferimento al contratto nazionale separato sottoscritto dai sindacati “collaborativi”, i quali mendicavano una concessione puramente formale, per poter nascondere l’ignobile cedimento sotto una foglia di fico. Ma Marchionne ora non si accontenta più di niente, batte il pugno di ferro e maltratta, come in un consumato copione, anche i propri servizievoli interlocutori.L’abolizione del contratto collettivo di lavoro e la sostituzione di esso con contratti individuali sottoscritti da ciascuno degli interessati fanno tabula rasa non soltanto di un sistema di relazioni industriali, ma dell’intera storia sindacale italiana. Ecco allora che il nuovo paradigma consegnato all’imitazione di tutto il padronato spiana la strada all’annichilimento di ogni capacità di reazione dei lavoratori, da rendere docili o, piuttosto, impotenti e rassegnati di fronte alla scure che calerà inesorabilmente su di essi.La seconda è che la neo-segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, ha corrisposto all’imponente manifestazione di sabato scorso e a quella del 16 ottobre, chiedendo e ottenendo dal Comitato direttivo della sua organizzazione il mandato a chiudere entro dicembre l’accordo con Confindustria in materia di produttività. Dove, come è noto, la sola piattaforma esistente è quella dei padroni, i quali chiedono - per l’appunto - deroghe al contratto nazionale e ancora maggiore flessibilità del lavoro, in un contesto già drammaticamente caratterizzato dalla dispersione produttiva, dallo spettacolare frastagliamento del mercato del lavoro e dalla precarietà. Davvero impegnativo credere che da quel tavolo possa sortire qualcosa di diverso da soluzioni gravemente compromissorie, questa volta legittimate col sigillo della Confederazione generale del lavoro.Serve altro, come vanno spiegando urbi et orbi Maurizio Landini, la Fiom e il sindacalismo di base, che alla reiterata richiesta di promuovere lo sciopero generale, reclamato in ogni piazza, si sono nuovamente sentiti rispondere in modo totalmente elusivo. Con queste premesse l’esito di quel confronto è già scritto.Tutta la storia del conflitto tra capitale e lavoro è lì a ricordare che i padroni non hanno mai ceduto un palmo del loro potere se non quando vi sono stati costretti dalla forza e dalle lotte del movimento operaio.
Dino Greco, Liberazione

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