lunedì 27 dicembre 2010

Le due vite di un capitano Achab sorridente

Paolo Vinti lo conoscevano in tanti, anche fuori dalla sua città. Ma è certo nella sua relazione simbiotica con Perugia, segnata dalla presenza costante sullo scenario del centro storico, che si è costruito il suo personaggio, così intensamente e affettuosamente ricordato in questi giorni.
Sarà l’effetto della distanza dalla dinamiche quotidiane della città (non vivo a Perugia da quindici anni), sarà il velo di nostalgia con cui si scruta la giovinezza, ma mi è sembrato che il tributo a Paolo, concentrato sugli ultimi anni della sua breve e ricca esistenza, abbia in qualche modo trascurato il periodo precedente. In ogni caso credo che l’importanza di Paolo risieda anche nell’avere vissuto, attraverso prove dolorose e traumatiche, fasi diverse: forse una vita sola non bastava per uno come lui.
Ho avuto a che fare la prima volta con Paolo nell’autunno del 1978, nelle assemblee degli studenti medi. Si viveva la coda della grande stagione dei movimenti, tuttavia la partecipazione si contava ancora in centinaia. Lui emergeva come leader naturale, affascinava a partire dall’aspetto: alto, asciutto, riccioluto, sorriso ironico; impermeabile bianco sopra la giacca di velluto, polacchine e occhialetti tondi. Lo stesso passo strascicato, lascito di un malattia infantile, si trasformava in un’andatura disinvolta, che mai avrebbe suscitato pietà. Solo più tardi avrei saputo che alla sala dei Notari, durante i giorni di Moro, mentre cercava di prendere la parola, avversari inferociti gli gridavano “Storpio!”.
Più di tutto conquistava la sua oratoria, ricca di citazioni, complessa, ma anche sferzante, diretta, trascinante. Non è facile neanche adesso pensare che avesse solo 18 anni. Per circa un decennio ho condiviso con Paolo l’esperienza di Democrazia Proletaria, il residuo più cospicuo di quella che era stata la “nuova sinistra”. La militanza perdeva credito, dovevamo remare controcorrente, mentre cedevano i riferimento teorici e le stesse forme dell’agire politico, e non aiutavano certo gli schiaffi del terrorismo e dell’eroina, il primo visto di riflesso, la seconda ben presente anche in provincia. Nel piccolo gruppo di militanti demoproletari (cito alcuni in ordine sparso: Carlo Baioletti, Luciano Tiecco, Marcello Ricci, Angelo Caporali, Amedeo Zupi, Enrico Mascolini, Gianluca Pignatta, Paolo Gentili, Massimo Camerieri, Stefano Pecugi; i “romani” di agraria e veterinaria: Jean-Claude Saroufim, Rossella Santolamazza, Piero Sunzini, Vincenzo Vizioli) Paolo continuava a spiccare, attento tanto alla lettura dei classici, quanto a problematiche inedite, come l’occupazione dell’opera Pia Marzolini a Prepo, guidata dal “Comitato per una migliore qualità della vita” (autunno 1979). E’ il caso dell’attività giornalistica, tra cui spicca la breve stagione di “L’orizzonte” (in qualche misura antenato di “micropolis” nella lettura critica dei temi locali). Scriveva bene quanto parlava, con la stessa carica immaginifica.
Un nitido ricordo di quegli anni è il congresso nazionale di Dp del 1982, per cui fummo insieme delegati, con Luigino Ciotti e Giorgio Filippi. L’atmosfera da finale di partita era accentuata da una Milano torrida e deserta, dal concomitante svolgimento dei Mondiali e, manco a farlo apposta, da un sciopero della stampa lungo quanto il congresso. Ma ciò non bastava a smussare la contagiosa verve di Paolo, brillante dal palco congressuale come nei giri per la città.
La cifra di Paolo era la curiosità umana e intellettuale, l’inesauribile ottimismo della ragione, che lo portava a porsi continuamente nuovi obiettivi politici ed esistenziali. Ecco i viaggi, ecco la frequentazione della Germania (ha scritto per la Tageszeitung, e frequentato la Freie Universität di Berlino), da dove trasmetteva idee e ipotesi. Qualcosa si ruppe in questo continuo alzare la posta. Proprio in Germania, verso la fine degli anni ’80.
Il Paolo Vinti tornato a Perugia è stato a lungo imprigionato in un disagio che colpiva di più perché deformava il suo splendido eloquio: la capacità di citare a memoria e insieme di creare immagini inedite che poi tutti usavamo (per anni abbiamo ripetuto il suo saluto-esortazione “daje giù a rotta di collo”, che diceva provenire da Pavese), ridotta ad espressioni ripetute, spezzate. Ho conosciuto pochi segni così crudi dell’insensatezza della vita, e non riesco a non pensare a quanto la sua sofferenza alludesse al destino toccato a tante nostre speranze.
Ma Paolo era davvero un fuoriclasse, capace di fare la mossa del cavallo e darsi una nuova dimensione. Comincia così la sua “seconda vita”: non più il predestinato ad una luminosa carriera politica, ma un attore cittadino fuori da copioni prestabiliti: con meno sicurezze, più fragile ed esposto, ma più imprevedibile. Colto e curioso come sempre, ma meno aduso a schemi onnicomprensivi, più portato a domande brucianti. Ne ho fatto la prova nel novembre del 2005 alla presentazione della raccolta delle mie recensioni su “micropolis”. Tra i non molti presenti lui c’era, e non ha mancato di spiazzarmi: - Compagno Bobby (l’appellativo che mi aveva dato vent’anni prima), l’analisi è giusta. Ma qual è la linea? Figurati, Paolo, se ho la risposta.
So che senza il tuo ottimismo della volontà, senza la tua carica, il tuo spirito di Achab allegro, senza di te insomma, è più difficile anche porsi le domande giuste. Ma non faremo a te il torto e ai nemici di sempre il piacere di smettere di farci domande, di lottare, e di restare, nonostante tutto, allegri."
di Roberto Monicchia,

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