«Io credo che la lotta di classe non sia finita: al contrario, oggi è più attuale che mai. Solo che una parte è perdente perché non ha gli strumenti politici e culturali per produrla ». Luciano Gallino, professore emerito di Sociologia all’Università di Torino, risponde così all’amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne, al ministro del Welfare Sacconi, alla Confindustria e perfino ad alcuni sindacati che vorrebbero inaugurare un’era del «Dopo Cristo », dove i conflitti tra capitale e lavoro sparirebbero, lasciando spazio alla «collaborazione», o meglio ancora alla «complicità». «Siamo davanti a una grande sconfitta che è maturata da una trentina di anni - riprende Gallino - Dal 1980 la pressione sui sindacati, sullo stato sociale, sui salari, sulle condizioni di lavoro è stata crescente, in Italia come all’estero, ma la capacità di contrastarla è stata limitata. Dunque la lotta di classe c’è, ma chi la conduce sono i vincitori».
Gli interessi di lavoratori e imprese cioè sono sempre distinti? E lo rimarranno sempre?
Ma figuriamoci, ovvio che restano distinti. Sono interessi diversi, per certi versi opposti. Nei 30 anni del secondo dopoguerra il cosiddetto «compromesso fordista» ha fatto sì che gli interessi delle due parti, seppure in conflitto, trovassero un punto di composizione piuttosto alto. È stata la stagione dei contratti, del prolungamento delle ferie, della riduzione di orario, degli aumenti salariali, del diritto del lavoro. Tutte cose che oggi si cerca di reprimere, di riportare indietro.
Ma allora perché questo tema non è più al centro della politica?
Una ragione è che non esistono più i partiti di sinistra. Spettava a loro parlare di classi e di conflitto, di modi per ottenere che la parte più debole acquisisse una certa forza. Ma o sono scomparsi o sono stati ridotti ai minimi termini, come in Italia. Manca la facoltà espressiva, una forza che porti nei parlamenti le istanze che vengono dal basso.
Il sindacato questo non riesce a farlo?
Il sindacato è sotto attacco da 30 anni: dai tempi della Tatcher contro i minatori, a quelli di Reagan che se la prese con i controllori di volo, è stato un susseguirsi di sconfitte. Dovute anche, probabilmente, alla ristrutturazione della produzione in catene sempre più lunghe e frammentate, che rendono difficilissimo fare sindacato.
Cisl e Uil dicono che si deve essere «collaborativi». La Cgil sta nel guado. La Fiom è più conflittuale. Quale modello è più adatto alle sfide di oggi?
Un sindacato che, partendo dagli interessi in conflitto, sia pronto a condurre vertenze dure, forti, usando i mezzi di cui dispone, per affermare quegli interessi. Pensi alla questione della distribuzione dei redditi, che ha gravemente danneggiato i dipendenti negli ultimi 25-30 anni. Sono stati persi molti punti di Pil a favore dei redditi da capitale: 25 anni fa il lavoro dipendente otteneva circa il 65% del Pil, oggi è al 55%. Si tratta di oltre 10 punti: questa perdita è l’espressione più netta e categorica dell’esistenza del conflitto di classe. Il sindacato, soprattutto attraverso i contratti nazionali, dovrebbe battersi per modificare questa distribuzione dei redditi. Naturalmente il contratto nazionale non può essere l’unico mezzo: servirebbe anche una politica fiscale che invece di essere favorevole ai redditi più alti, lo sia per quelli più bassi o medio-bassi.
Il contratto nazionale non è dunque un residuato del passato? Secondo le imprese in Italia è troppo rigido, e per questo motivo dicono di preferire la delocalizzazione all’estero. L’ultimo che vorrebbe lasciare il nostro Paese è Sergio Marchionne...
Va sempre ricordato che i salari netti dei lavoratori italiani sono tra i più bassi dell’Eurozona. In Francia e Germania sono almeno il 10, ma io direi anche il 20-25% più alti come netto. E allora come mai i capitali non fuggono dalla Francia e dalla Germania? Non è per il costo del lavoro e il contratto nazionale, ma vanno altrove per le infrastrutture, per l’esistenza di altre aziende complementari, i trasporti, una migliore formazione professionale, meno lavoro nero, meno evasione fiscale e meno corruzione. Per questo le imprese lasciano l’Italia.
Anche la Fiat fugge per questi motivi?
Il problema della Fiat è che ha deciso di insistere sulla produzione di piccole vetture, e il Nel mondo politico, e per certi versi anche sindacale italiano, io non lo vedo, se non in una piccolissima minoranza. È un carattere più italiano questa «incoscienza », magari dovuto a 30 anni di cultura e televisione berlusconiana, o vede questo stesso smarrimento anche nel resto d’Europa? Vi sono differenze, ma l’appartenenza sindacale è scesa comunque in tutta Europa. Il calo di iscrizioni al sindacato è un segno di sconfitta e anche di debolezza. Questo è un fenomeno che l’Italia condivide con altri paesi, in particolare con Francia, Regno Unito e in qualche modo con la Spagna. Un po’ meno con la Germania, perché per quanti difetti possa avere la partecipazione alla gestione delle aziende, comunque il sindacato è più informato e più presente, anche se non ha poi quel grande potere. Però sta dentro il centro di comando, sa immediatamente cosa succede. Si pensi all’accordo firmato di recente alla Siemens. Ma di intese di questo genere ce ne sono state parecchie negli ultimi 4-5 anni. Nascono dai consigli di sorveglianza dove per legge sono presenti i sindacati: nelle aziende di una certa dimensione il Cds deve essere formato per il 50% da rappresentanti dei sindacati. L’Italia, insomma, non è sola in questo arretramento dei diritti, perché negli ultimi 8-10 anni oltre alla pressione delle grandi aziende multinazionali, c’è stata anche quella dei governi di centro-destra in quasi tutti i paesi. E non dimentichiamo la Commissione europea: è un organo che si può collocare piuttosto a destra che a sinistra, ha un peso molto importante e continua a scrivere rapporti sull’importanza del lavoro flessibile, sul limitare le pensioni e sulla moderazione salariale. piccolo, per bene che vada, dà poco guadagno: devono andare a costruire perciò nei paesi a basso salario, come fanno Volkswagen e Renault con i modelli della stessa gamma. In Brasile, Argentina, Turchia, Polonia, e non in Italia. Marchionne ha detto in sostanza: io posso produrre vetturette anche in Italia, ma a condizioni di lavoro polacche, argentine, brasiliane. Al contrario, dovrebbe puntare su altri modelli industriali, non solo sulle auto piccole, seppure di buona qualità, come la Panda.
Un altro grosso problema che affligge gli italiani è il precariato. È stato spinto più dal mercato o da leggi come il Pacchetto Treu o la legge 30?
Il Pacchetto Treu è stato un notevole passo in direzione della precarizzazione, perché ha inventato il lavoro in affitto; ha affermato il principio che per un’economia sana, flessibile, in crescita, servono i lavori atipici, le collaborazioni. In seguito la legge 30 e il decreto applicativo 376, hanno portato a oltre 40 le forme di contratto esistenti, e ovviamente le imprese ne hanno approfittato. Oggi l’affitto si chiama pudicamente «in somministrazione ». Ma non possiamo neanche ignorare che da decenni abbiamo un altro immenso bacino di lavoro flessibile, che è il lavoro irregolare o in nero: in termini di unità lavorative, sono 3 milioni di lavoratori a tempo pieno, di cui 1 milione sono persone fisiche, e altri 2 milioni sono «statistici», cioè fatti da circa 5 milioni di persone fisiche che fluttuano da un impiego a un altro. Questo vuol dire contributi evasi, non solo le tasse. Va aggiunto infine che spesso molti dipendenti svolgono un secondo o terzo lavoro in nero, ma in epoca di crisi e bassi salari credo sia difficile rifiutarlo quando te lo offrono. Da noi il lavoro nero è tra il doppio e il triplo di qualsiasi altra economia sviluppata.
Come vede il Collegato lavoro che ha introdotto l’arbitrato?
È solo l’ultimo attacco ai diritti in ordine di tempo. Il punto più critico di quella legge è che essa interviene nel momento di massima debolezza: ti chiede di firmare una clausola compromissoria secondo la quale devi rinunciare al giudice del lavoro, e non puoi più tornare indietro. È un ricatto: la minaccia sottintesa è che non verrai assunto se non firmi. L’arbitro non deciderà più secondo le leggi, ma «per equità», cioè alla fine di testa sua.
Lei è sicuramente in contatto con molti giovani, visto che è docente universitario. I ventenni di oggi hanno una coscienza di classe? E le questioni del lavoro, la solidarietà con gli altri, hanno spazio?
Io vedo questa coscienza in misura piuttosto ridotta, perché, con la crisi, i giovani ragionano così: «O il lavoro va a me, o va a un altro e io resto senza». La disoccupazione mette in conflitto i lavoratori tra loro. I nazionali contro gli immigrati, ad esempio, e le persone sono insicure, perché non sanno se tra 2 mesi o 2 anni avranno ancora un salario. E poi soprattutto non hanno punti di riferimento: chi oggi, tra i partiti, fa un discorso articolato, comprensibile, però fondato su un’analisi reale delle cose?
Nel mondo politico, e per certi versi anche sindacale italiano, io non lo vedo, se non in una piccolissima minoranza. È un carattere più italiano questa «incoscienza », magari dovuto a 30 anni di cultura e televisione berlusconiana, o vede questo stesso smarrimento anche nel resto d’Europa?
Vi sono differenze, ma l’appartenenza sindacale è scesa comunque in tutta Europa. Il calo di iscrizioni al sindacato è un segno di sconfitta e anche di debolezza. Questo è un fenomeno che l’Italia condivide con altri paesi, in particolare con Francia, Regno Unito e in qualche modo con la Spagna. Un po’ meno con la Germania, perché per quanti difetti possa avere la partecipazione alla gestione delle aziende, comunque il sindacato è più informato e più presente, anche se non ha poi quel grande potere. Però sta dentro il centro di comando, sa immediatamente cosa succede. Si pensi all’accordo firmato di recente alla Siemens. Ma di intese di questo genere ce ne sono state parecchie negli ultimi 4-5 anni. Nascono dai consigli di sorveglianza dove per legge sono presenti i sindacati: nelle aziende di una certa dimensione il Cds deve essere formato per il 50% da rappresentanti dei sindacati. L’Italia, insomma, non è sola in questo arretramento dei diritti, perché negli ultimi 8-10 anni oltre alla pressione delle grandi aziende multinazionali, c’è stata anche quella dei governi di centro-destra in quasi tutti i paesi. E non dimentichiamo la Commissione europea: è un organo che si può collocare piuttosto a destra che a sinistra, ha un peso molto importante e continua a scrivere rapporti sull’importanza del lavoro flessibile, sul limitare le pensioni e sulla moderazione salariale.
Gli interessi di lavoratori e imprese cioè sono sempre distinti? E lo rimarranno sempre?
Ma figuriamoci, ovvio che restano distinti. Sono interessi diversi, per certi versi opposti. Nei 30 anni del secondo dopoguerra il cosiddetto «compromesso fordista» ha fatto sì che gli interessi delle due parti, seppure in conflitto, trovassero un punto di composizione piuttosto alto. È stata la stagione dei contratti, del prolungamento delle ferie, della riduzione di orario, degli aumenti salariali, del diritto del lavoro. Tutte cose che oggi si cerca di reprimere, di riportare indietro.
Ma allora perché questo tema non è più al centro della politica?
Una ragione è che non esistono più i partiti di sinistra. Spettava a loro parlare di classi e di conflitto, di modi per ottenere che la parte più debole acquisisse una certa forza. Ma o sono scomparsi o sono stati ridotti ai minimi termini, come in Italia. Manca la facoltà espressiva, una forza che porti nei parlamenti le istanze che vengono dal basso.
Il sindacato questo non riesce a farlo?
Il sindacato è sotto attacco da 30 anni: dai tempi della Tatcher contro i minatori, a quelli di Reagan che se la prese con i controllori di volo, è stato un susseguirsi di sconfitte. Dovute anche, probabilmente, alla ristrutturazione della produzione in catene sempre più lunghe e frammentate, che rendono difficilissimo fare sindacato.
Cisl e Uil dicono che si deve essere «collaborativi». La Cgil sta nel guado. La Fiom è più conflittuale. Quale modello è più adatto alle sfide di oggi?
Un sindacato che, partendo dagli interessi in conflitto, sia pronto a condurre vertenze dure, forti, usando i mezzi di cui dispone, per affermare quegli interessi. Pensi alla questione della distribuzione dei redditi, che ha gravemente danneggiato i dipendenti negli ultimi 25-30 anni. Sono stati persi molti punti di Pil a favore dei redditi da capitale: 25 anni fa il lavoro dipendente otteneva circa il 65% del Pil, oggi è al 55%. Si tratta di oltre 10 punti: questa perdita è l’espressione più netta e categorica dell’esistenza del conflitto di classe. Il sindacato, soprattutto attraverso i contratti nazionali, dovrebbe battersi per modificare questa distribuzione dei redditi. Naturalmente il contratto nazionale non può essere l’unico mezzo: servirebbe anche una politica fiscale che invece di essere favorevole ai redditi più alti, lo sia per quelli più bassi o medio-bassi.
Il contratto nazionale non è dunque un residuato del passato? Secondo le imprese in Italia è troppo rigido, e per questo motivo dicono di preferire la delocalizzazione all’estero. L’ultimo che vorrebbe lasciare il nostro Paese è Sergio Marchionne...
Va sempre ricordato che i salari netti dei lavoratori italiani sono tra i più bassi dell’Eurozona. In Francia e Germania sono almeno il 10, ma io direi anche il 20-25% più alti come netto. E allora come mai i capitali non fuggono dalla Francia e dalla Germania? Non è per il costo del lavoro e il contratto nazionale, ma vanno altrove per le infrastrutture, per l’esistenza di altre aziende complementari, i trasporti, una migliore formazione professionale, meno lavoro nero, meno evasione fiscale e meno corruzione. Per questo le imprese lasciano l’Italia.
Anche la Fiat fugge per questi motivi?
Il problema della Fiat è che ha deciso di insistere sulla produzione di piccole vetture, e il Nel mondo politico, e per certi versi anche sindacale italiano, io non lo vedo, se non in una piccolissima minoranza. È un carattere più italiano questa «incoscienza », magari dovuto a 30 anni di cultura e televisione berlusconiana, o vede questo stesso smarrimento anche nel resto d’Europa? Vi sono differenze, ma l’appartenenza sindacale è scesa comunque in tutta Europa. Il calo di iscrizioni al sindacato è un segno di sconfitta e anche di debolezza. Questo è un fenomeno che l’Italia condivide con altri paesi, in particolare con Francia, Regno Unito e in qualche modo con la Spagna. Un po’ meno con la Germania, perché per quanti difetti possa avere la partecipazione alla gestione delle aziende, comunque il sindacato è più informato e più presente, anche se non ha poi quel grande potere. Però sta dentro il centro di comando, sa immediatamente cosa succede. Si pensi all’accordo firmato di recente alla Siemens. Ma di intese di questo genere ce ne sono state parecchie negli ultimi 4-5 anni. Nascono dai consigli di sorveglianza dove per legge sono presenti i sindacati: nelle aziende di una certa dimensione il Cds deve essere formato per il 50% da rappresentanti dei sindacati. L’Italia, insomma, non è sola in questo arretramento dei diritti, perché negli ultimi 8-10 anni oltre alla pressione delle grandi aziende multinazionali, c’è stata anche quella dei governi di centro-destra in quasi tutti i paesi. E non dimentichiamo la Commissione europea: è un organo che si può collocare piuttosto a destra che a sinistra, ha un peso molto importante e continua a scrivere rapporti sull’importanza del lavoro flessibile, sul limitare le pensioni e sulla moderazione salariale. piccolo, per bene che vada, dà poco guadagno: devono andare a costruire perciò nei paesi a basso salario, come fanno Volkswagen e Renault con i modelli della stessa gamma. In Brasile, Argentina, Turchia, Polonia, e non in Italia. Marchionne ha detto in sostanza: io posso produrre vetturette anche in Italia, ma a condizioni di lavoro polacche, argentine, brasiliane. Al contrario, dovrebbe puntare su altri modelli industriali, non solo sulle auto piccole, seppure di buona qualità, come la Panda.
Un altro grosso problema che affligge gli italiani è il precariato. È stato spinto più dal mercato o da leggi come il Pacchetto Treu o la legge 30?
Il Pacchetto Treu è stato un notevole passo in direzione della precarizzazione, perché ha inventato il lavoro in affitto; ha affermato il principio che per un’economia sana, flessibile, in crescita, servono i lavori atipici, le collaborazioni. In seguito la legge 30 e il decreto applicativo 376, hanno portato a oltre 40 le forme di contratto esistenti, e ovviamente le imprese ne hanno approfittato. Oggi l’affitto si chiama pudicamente «in somministrazione ». Ma non possiamo neanche ignorare che da decenni abbiamo un altro immenso bacino di lavoro flessibile, che è il lavoro irregolare o in nero: in termini di unità lavorative, sono 3 milioni di lavoratori a tempo pieno, di cui 1 milione sono persone fisiche, e altri 2 milioni sono «statistici», cioè fatti da circa 5 milioni di persone fisiche che fluttuano da un impiego a un altro. Questo vuol dire contributi evasi, non solo le tasse. Va aggiunto infine che spesso molti dipendenti svolgono un secondo o terzo lavoro in nero, ma in epoca di crisi e bassi salari credo sia difficile rifiutarlo quando te lo offrono. Da noi il lavoro nero è tra il doppio e il triplo di qualsiasi altra economia sviluppata.
Come vede il Collegato lavoro che ha introdotto l’arbitrato?
È solo l’ultimo attacco ai diritti in ordine di tempo. Il punto più critico di quella legge è che essa interviene nel momento di massima debolezza: ti chiede di firmare una clausola compromissoria secondo la quale devi rinunciare al giudice del lavoro, e non puoi più tornare indietro. È un ricatto: la minaccia sottintesa è che non verrai assunto se non firmi. L’arbitro non deciderà più secondo le leggi, ma «per equità», cioè alla fine di testa sua.
Lei è sicuramente in contatto con molti giovani, visto che è docente universitario. I ventenni di oggi hanno una coscienza di classe? E le questioni del lavoro, la solidarietà con gli altri, hanno spazio?
Io vedo questa coscienza in misura piuttosto ridotta, perché, con la crisi, i giovani ragionano così: «O il lavoro va a me, o va a un altro e io resto senza». La disoccupazione mette in conflitto i lavoratori tra loro. I nazionali contro gli immigrati, ad esempio, e le persone sono insicure, perché non sanno se tra 2 mesi o 2 anni avranno ancora un salario. E poi soprattutto non hanno punti di riferimento: chi oggi, tra i partiti, fa un discorso articolato, comprensibile, però fondato su un’analisi reale delle cose?
Nel mondo politico, e per certi versi anche sindacale italiano, io non lo vedo, se non in una piccolissima minoranza. È un carattere più italiano questa «incoscienza », magari dovuto a 30 anni di cultura e televisione berlusconiana, o vede questo stesso smarrimento anche nel resto d’Europa?
Vi sono differenze, ma l’appartenenza sindacale è scesa comunque in tutta Europa. Il calo di iscrizioni al sindacato è un segno di sconfitta e anche di debolezza. Questo è un fenomeno che l’Italia condivide con altri paesi, in particolare con Francia, Regno Unito e in qualche modo con la Spagna. Un po’ meno con la Germania, perché per quanti difetti possa avere la partecipazione alla gestione delle aziende, comunque il sindacato è più informato e più presente, anche se non ha poi quel grande potere. Però sta dentro il centro di comando, sa immediatamente cosa succede. Si pensi all’accordo firmato di recente alla Siemens. Ma di intese di questo genere ce ne sono state parecchie negli ultimi 4-5 anni. Nascono dai consigli di sorveglianza dove per legge sono presenti i sindacati: nelle aziende di una certa dimensione il Cds deve essere formato per il 50% da rappresentanti dei sindacati. L’Italia, insomma, non è sola in questo arretramento dei diritti, perché negli ultimi 8-10 anni oltre alla pressione delle grandi aziende multinazionali, c’è stata anche quella dei governi di centro-destra in quasi tutti i paesi. E non dimentichiamo la Commissione europea: è un organo che si può collocare piuttosto a destra che a sinistra, ha un peso molto importante e continua a scrivere rapporti sull’importanza del lavoro flessibile, sul limitare le pensioni e sulla moderazione salariale.
di Antonio Sciotto, Il Manifesto
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