Proviamo a fare un primo bilancio della battaglia sull'università, all'indomani del voto della camera sulla cosiddetta riforma Gelmini. Che si tratti di una legge pessima non vale la pena di ripeterlo. Dovesse andare in vigore (se il governo sopravvivrà e avrà tempo e forza per varare i decreti attuativi), ci troveremmo un'università ancor più autoritaria (tutto il potere ai rettori e agli amministratori, tutti i concorsi in mano agli ordinari), ancora più classista (per l'ulteriore aumento delle tasse di iscrizione), ancora più privatizzata (per l'ingresso delle imprese nei consigli di amministrazione e nelle fondazioni), ancora più ostile nei confronti dei giovani (tutti precarizzati) e ancora più sbilanciata a favore della ricerca applicata (a detrimento dei saperi «inutili» distanti dal mercato). Questo lo sappiamo, e del resto parlano da sé lo scomposto attivismo della Crui e le pressioni della Confindustria coi suoi organi di stampa (in questo caso il Corriere della sera ancor più del Sole-24 Ore). Agli industriali dell'università non è mai interessato altro che poter sfruttare gratuitamente laboratori e saperi per i propri affari. Questa «riforma» glielo promette, il resto è retorica. Ciò che nonostante tutto sorprende è lo spreco di menzogne sparse a piene mani lungo tutto l'iter della legge (circa due anni). Bugie sui fondi disponibili, bugie sulla lotta ai baroni, bugie sulla sorte dei ricercatori. L'unico sussulto di sincerità - a tutti càpita a volte di sbagliare - la sedicente ministra l'ha avuto qualche giorno fa quando, sicura ormai del voto favorevole, ha detto che la sua «riforma» l'avrebbe finalmente fatta finita con «l'egualitarismo del '68». Se pensiamo alla divisione della ricchezza in questo Paese, non si sa se ridere o infuriarsi. Questo revanscismo di una oligarchia di mediocri e di ignoranti barricati nel privilegio e orgogliosi della propria arroganza è l'aspetto più vergognoso di questa vicenda indecente. Anche se lo stenografico del senato non ne reca traccia (chissà poi perché), la gaffe della ministra che sbaglia accento su egida (pronunciò «egìda», tra il divertito sconcerto dell'aula) resta un paradigma. E un monumento alla meritocrazia di cui costei ama riempirsi la bocca.
Già, la meritocrazia. Tutti zelanti custodi del merito in Italia. Nessuno o quasi sembra accorgersi che premiare i meriti è giusto se non comporta la violazione di diritti (e studiare e formarsi è un diritto che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini), se a tutti è data la possibilità di dare il meglio di sé e se si dispone di seri criteri di valutazione. Dove queste condizioni non sono assicurate, la meritocrazia è solo la foglia di fico del darwinismo sociale. Come disse l'amicone di Putin al fedele Vespa, occorreva por fine allo sconcio di un Paese in cui anche i figli degli operai sognavano di diventare dottori. In verità quel sogno era sfumato già da molto tempo, ma certo una legge ad hoc è una bella soddisfazione. E una garanzia.
Il punto, oggi, è capire come si sia arrivati a questo risultato. Non nel lungo periodo, questo lo sappiamo: la Gelmini compie l'opera di distruzione avviata dai suoi predecessori, Berlinguer, Zecchino e Moratti in primis. No: la questione è come mai il ddl ha superato lo scoglio delle commissioni ed è arrivato indenne al voto della camera, mentre il governo, paralizzato, sprofonda tra discariche e festini selvaggi. Fino al crack del Popolo della libertà la domanda non si sarebbe nemmeno posta. Ma il giocattolo si è rotto e da mesi il governo traballa su ogni provvedimento, tant'è che la camera ha dovuto chiudere i battenti sino al 14 dicembre. Anche sull'università il governo è andato sotto su qualche emendamento, al punto di riaccendere le speranze degli studenti e di quella parte del corpo docente che, una volta tanto, è uscita dal suo tradizionale - e complice - torpore. Però il disegno di legge ce l'ha fatta. Come mai? Che cosa l'ha protetto in tutti questi mesi nel disastro generale della maggioranza e ancora in questi giorni, mentre la rivolta infuriava? Quale forza gli ha permesso di arrivare in fondo, in un parlamento blindato come un bunker?
L'unica risposta onesta - almeno evitiamo ipocrisie - è che questa è una «riforma» bipartisan. E che a sponsorizzarla c'è anche il presidente della Repubblica. Il segretario del Partito democratico è salito fin sul tetto di Architettura. Ha lamentato la carenza di fondi per l'università. Ha detto che il governo ha sbagliato a incaponirsi e, finalmente, ha votato contro martedì alla camera. Ma questo dissenso, vero o simulato, non sposta di una virgola il fatto che nel merito la «riforma» realizza un progetto in gran parte concepito dagli "esperti" del Pd. Che vede di buon occhio l'ingresso dei privati e la precarizzazione dei ricercatori. Che cavalca la retorica «modernizzatrice» della meritocrazia. E che considera un inservibile vecchiume l'idea costituzionale di una università pubblica al servizio del «progresso intellettuale di massa», come dimostra la brillante formula della «concorrenza tra gli atenei», quasi si trattasse di supermercati o di compagnie di assicurazione. Ciò che la Gelmini dice sull'egualitarismo del '68 sono in tanti a pensarlo anche tra i suoi sedicenti oppositori. Che costoro non abbiano nemmeno il coraggio di ammetterlo pubblicamente ha molto a che fare col disastro di questo Paese.
di Alberto Burgio, il manifesto 04/12/2010
Già, la meritocrazia. Tutti zelanti custodi del merito in Italia. Nessuno o quasi sembra accorgersi che premiare i meriti è giusto se non comporta la violazione di diritti (e studiare e formarsi è un diritto che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini), se a tutti è data la possibilità di dare il meglio di sé e se si dispone di seri criteri di valutazione. Dove queste condizioni non sono assicurate, la meritocrazia è solo la foglia di fico del darwinismo sociale. Come disse l'amicone di Putin al fedele Vespa, occorreva por fine allo sconcio di un Paese in cui anche i figli degli operai sognavano di diventare dottori. In verità quel sogno era sfumato già da molto tempo, ma certo una legge ad hoc è una bella soddisfazione. E una garanzia.
Il punto, oggi, è capire come si sia arrivati a questo risultato. Non nel lungo periodo, questo lo sappiamo: la Gelmini compie l'opera di distruzione avviata dai suoi predecessori, Berlinguer, Zecchino e Moratti in primis. No: la questione è come mai il ddl ha superato lo scoglio delle commissioni ed è arrivato indenne al voto della camera, mentre il governo, paralizzato, sprofonda tra discariche e festini selvaggi. Fino al crack del Popolo della libertà la domanda non si sarebbe nemmeno posta. Ma il giocattolo si è rotto e da mesi il governo traballa su ogni provvedimento, tant'è che la camera ha dovuto chiudere i battenti sino al 14 dicembre. Anche sull'università il governo è andato sotto su qualche emendamento, al punto di riaccendere le speranze degli studenti e di quella parte del corpo docente che, una volta tanto, è uscita dal suo tradizionale - e complice - torpore. Però il disegno di legge ce l'ha fatta. Come mai? Che cosa l'ha protetto in tutti questi mesi nel disastro generale della maggioranza e ancora in questi giorni, mentre la rivolta infuriava? Quale forza gli ha permesso di arrivare in fondo, in un parlamento blindato come un bunker?
L'unica risposta onesta - almeno evitiamo ipocrisie - è che questa è una «riforma» bipartisan. E che a sponsorizzarla c'è anche il presidente della Repubblica. Il segretario del Partito democratico è salito fin sul tetto di Architettura. Ha lamentato la carenza di fondi per l'università. Ha detto che il governo ha sbagliato a incaponirsi e, finalmente, ha votato contro martedì alla camera. Ma questo dissenso, vero o simulato, non sposta di una virgola il fatto che nel merito la «riforma» realizza un progetto in gran parte concepito dagli "esperti" del Pd. Che vede di buon occhio l'ingresso dei privati e la precarizzazione dei ricercatori. Che cavalca la retorica «modernizzatrice» della meritocrazia. E che considera un inservibile vecchiume l'idea costituzionale di una università pubblica al servizio del «progresso intellettuale di massa», come dimostra la brillante formula della «concorrenza tra gli atenei», quasi si trattasse di supermercati o di compagnie di assicurazione. Ciò che la Gelmini dice sull'egualitarismo del '68 sono in tanti a pensarlo anche tra i suoi sedicenti oppositori. Che costoro non abbiano nemmeno il coraggio di ammetterlo pubblicamente ha molto a che fare col disastro di questo Paese.
di Alberto Burgio, il manifesto 04/12/2010
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