In questa società parcellizzata, disaggregata, «spaesata e cinica», come la descrive il Censis, che peso hanno ancora le manifestazioni di piazza? La domanda è lecita, la risposta non è scontata. L’abbiamo girata allo storico Giovanni De Luna.
«Onestamente credo che abbia un peso poco più che simbolico nel sistema politico italiano come si è strutturato dalla fine degli anni ‘70 in poi, quando il Palazzo ritirandosi in se stesso ha assunto la P maiuscola, come diceva Pasolini: totalmente autoriferito, impermeabile agli umori della piazza dai quali lo divide un baratro. Anche in questi giorni assistiamo a una sorta di rito interno alla classe politica che non intercetta gli umori del paese. Queste piazze servono più all’autorassicurazione, a una testimonianza identitaria che difficilmente può incidere come avvenne con gli studenti del ‘68, gli operai del ‘69 o nella primavera del 1973 quando con Mirafiori occupata è caduto il governo Andreotti, sostituito da Rumor. Allora c’era un movimento operaio capace di incidere sul piano della mobilitazione collettiva e un rapporto diretto tra la piazza e il sistema politico. Adesso questo circuito si è interrotto».
Quali piazze della storia recente sono state più incisive?
Ripercorrendo a spanne il ‘900 si può dire che c’è stata una piazza che ha cambiato la dimensione del parlamento: le “radiose giornate di maggio” impose la guerra a un parlamento neutralista giolittiano. Poi la piazza eversiva fascista che sul piano della contrapposizione al Parlamento ha giocato un ruolo molto forte, con la capacità di farne «un bivacco per i manipoli», tanto per usare un’espressione mussoliniana. Ci sono state poi piazze non di opposizione ma che stabiliscono un circuito virtuoso tra partecipazione e sistema politico: penso a quelle del ‘46, del referendum, al 96% di partecipazione alle elezioni, il voto alle donne, i comizi, i cortei: ecco c’era una febbre della politica che dopo 20 anni di dittatura fascista intercetta sia il sistema partitico nascente che le piazze che lo alimentano. Fino agli anni ‘60 e ‘70 le piazze incidono direttamente sui governi: il passaggio dal centrismo al centrosinistra nasce nelle giornate del luglio ‘60, a Genova e a Reggio Emilia.
Tutto cambia negli anni ‘80. Perché?
Da un lato è il segno della sconfitta delle istanze solidaristiche e di partecipazione che lascia il posto al crollo della militanza, alla sfiducia. E a una sorta di rassegnata condiscendenza alla politica che non sembrava più un territorio su cui investire sul piano morale, etico, del proprio progetto esistenziale. I partiti allora si specializzano nella promozione di un ceto politico più che di idee e di programmi, e si crea una divaricazione: a un sistema politico chiuso in se stesso corrisponde una società che si riorganizza spontaneamente e si dà altri strumenti, tipo le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi o le mamme napoletane contro la droga nell’83-’84.
In quegli anni nasce la Lega…
È una piazza di segno opposto: la Lega intercetta, nel vuoto del sistema politico, queste nuove esigenze sociali di rappresentatività e di identità.
Ma la Lega non ha l’obiettivo di consolidare lo status quo?
Alla fine sì. Magari l’obiettivo non era quello, ma resta il fatto che quelle manifestazioni non incidono sullo status quo. Anche se nelle piazze di destra del biennio ‘92-’94, la Lega che fa sventolare il cappio in Parlamento e che si propone come forza eversiva antisistema scardina la prima Repubblica. È la mobilitazione vittoriosa di ceti emergenti di destra: Di Pietro, che è l’eroe di quegli anni, non è certo un campione di sinistra, come nemmeno gli stessi Falcone e Borsellino. Quel tramestio non coinvolge il movimento operaio.
Anche gli operai si ripiegano in se stessi?
Se si confronta il modo con cui le piazze operaie incidevano negli anni ‘70 con la disperazione che emerge dagli operai sui tetti, dalla Thyssen dove solo il sacrificio estremo dei corpi bruciati vivi fa notizia. È il segno di una perdita di incisività.
Cos’è cambiato: il rapporto tra il dentro e il fuori del Palazzo oppure il rapporto tra segmenti di società?
«Onestamente credo che abbia un peso poco più che simbolico nel sistema politico italiano come si è strutturato dalla fine degli anni ‘70 in poi, quando il Palazzo ritirandosi in se stesso ha assunto la P maiuscola, come diceva Pasolini: totalmente autoriferito, impermeabile agli umori della piazza dai quali lo divide un baratro. Anche in questi giorni assistiamo a una sorta di rito interno alla classe politica che non intercetta gli umori del paese. Queste piazze servono più all’autorassicurazione, a una testimonianza identitaria che difficilmente può incidere come avvenne con gli studenti del ‘68, gli operai del ‘69 o nella primavera del 1973 quando con Mirafiori occupata è caduto il governo Andreotti, sostituito da Rumor. Allora c’era un movimento operaio capace di incidere sul piano della mobilitazione collettiva e un rapporto diretto tra la piazza e il sistema politico. Adesso questo circuito si è interrotto».
Quali piazze della storia recente sono state più incisive?
Ripercorrendo a spanne il ‘900 si può dire che c’è stata una piazza che ha cambiato la dimensione del parlamento: le “radiose giornate di maggio” impose la guerra a un parlamento neutralista giolittiano. Poi la piazza eversiva fascista che sul piano della contrapposizione al Parlamento ha giocato un ruolo molto forte, con la capacità di farne «un bivacco per i manipoli», tanto per usare un’espressione mussoliniana. Ci sono state poi piazze non di opposizione ma che stabiliscono un circuito virtuoso tra partecipazione e sistema politico: penso a quelle del ‘46, del referendum, al 96% di partecipazione alle elezioni, il voto alle donne, i comizi, i cortei: ecco c’era una febbre della politica che dopo 20 anni di dittatura fascista intercetta sia il sistema partitico nascente che le piazze che lo alimentano. Fino agli anni ‘60 e ‘70 le piazze incidono direttamente sui governi: il passaggio dal centrismo al centrosinistra nasce nelle giornate del luglio ‘60, a Genova e a Reggio Emilia.
Tutto cambia negli anni ‘80. Perché?
Da un lato è il segno della sconfitta delle istanze solidaristiche e di partecipazione che lascia il posto al crollo della militanza, alla sfiducia. E a una sorta di rassegnata condiscendenza alla politica che non sembrava più un territorio su cui investire sul piano morale, etico, del proprio progetto esistenziale. I partiti allora si specializzano nella promozione di un ceto politico più che di idee e di programmi, e si crea una divaricazione: a un sistema politico chiuso in se stesso corrisponde una società che si riorganizza spontaneamente e si dà altri strumenti, tipo le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi o le mamme napoletane contro la droga nell’83-’84.
In quegli anni nasce la Lega…
È una piazza di segno opposto: la Lega intercetta, nel vuoto del sistema politico, queste nuove esigenze sociali di rappresentatività e di identità.
Ma la Lega non ha l’obiettivo di consolidare lo status quo?
Alla fine sì. Magari l’obiettivo non era quello, ma resta il fatto che quelle manifestazioni non incidono sullo status quo. Anche se nelle piazze di destra del biennio ‘92-’94, la Lega che fa sventolare il cappio in Parlamento e che si propone come forza eversiva antisistema scardina la prima Repubblica. È la mobilitazione vittoriosa di ceti emergenti di destra: Di Pietro, che è l’eroe di quegli anni, non è certo un campione di sinistra, come nemmeno gli stessi Falcone e Borsellino. Quel tramestio non coinvolge il movimento operaio.
Anche gli operai si ripiegano in se stessi?
Se si confronta il modo con cui le piazze operaie incidevano negli anni ‘70 con la disperazione che emerge dagli operai sui tetti, dalla Thyssen dove solo il sacrificio estremo dei corpi bruciati vivi fa notizia. È il segno di una perdita di incisività.
Cos’è cambiato: il rapporto tra il dentro e il fuori del Palazzo oppure il rapporto tra segmenti di società?
La divaricazione degli anni ‘80 è diventata una voragine dentro la quale si sono inseriti vari imprenditori politici ma soprattutto la televisione, il cui ruolo è prima suppletivo e poi sostitutivo della classe politica.
La piazza virtuale sostituisce la piazza reale?
Il dilagare della piazza virtuale ha ammazzato l’incisività di quella reale. E qui si compie un ciclo ventennale. La famosa staffetta televisiva tra Samarcanda di Santoro e il Maurizio Costanzo Show contro la mafia fu una grande piazza mediatica dove la mobilitazione contro la mafia con le candele accese per la prima volta assunse i contorni di un impegno civile. Ma era una dimensione dell’effimero che non incise: oggi nessuno se ne ricorda più. Nel traslocare dalla piazza reale a quella virtuale le istanze hanno perso vigore: i 10 milioni di spettatori di Vieni via con me non hanno la stessa incisività di un corteo che bloccava Mirafiori.
Arriviamo alla piazza italiana di chi sente di pagare la crisi in prima persona. Che differenza c’è con i riot londinesi o con gli otto scioperi generali della Francia?
Non credo che lo scenario nato negli anni ‘80 duri all’infinito. Però per incidere sul sistema politico deve consumarsi una rottura pesante proprio nel meccanismo che governa l’economia. I riot londinesi o gli scioperi generali francesi sono già dentro questa nuova configurazione, in Italia invece siamo ancora in una dimensione rituale di testimonianza, non è ancora visibile la capacità di incidere sui meccanismi decisionali della politica. Ho l’impressione, però, che accadrà solo se si arriverà ad una spaccatura molto più grossa di quella vista finora.
C’è una differenza enorme tra la piazza di oggi e quella di sabato scorso.
Sì certo, se quella del Pd ha avuto una fortissima impronta di ritualità un po’ novecentesca, questa piazza è da guardare con attenzione, si propone di incidere di più.
In cosa differisce questo movimento studentesco rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto.
Siamo fuori dal ‘900: qui non c’è ideologia, non ci sono le stesse parole d’ordine e nemmeno la stesso sistema politico. C’è la concretezza delle condizioni materiali. Però non mi sento di dire che siamo all’alba di una nuova stagione di movimenti in radicale discontinuità col passato.
C’è anche un’altra novità: questi movimenti non hanno nessun referente dentro al Palazzo.
Sì, e questo non aiuta perché non ci sono cavalli di troia da portare nel Palazzo a cui fare riferimento. Quindi senza il terreno della mediazione, per riuscire a superare quel baratro si è obbligati a una radicalità molto più alta.
di Eleonora Martini, Il Manifesto
La piazza virtuale sostituisce la piazza reale?
Il dilagare della piazza virtuale ha ammazzato l’incisività di quella reale. E qui si compie un ciclo ventennale. La famosa staffetta televisiva tra Samarcanda di Santoro e il Maurizio Costanzo Show contro la mafia fu una grande piazza mediatica dove la mobilitazione contro la mafia con le candele accese per la prima volta assunse i contorni di un impegno civile. Ma era una dimensione dell’effimero che non incise: oggi nessuno se ne ricorda più. Nel traslocare dalla piazza reale a quella virtuale le istanze hanno perso vigore: i 10 milioni di spettatori di Vieni via con me non hanno la stessa incisività di un corteo che bloccava Mirafiori.
Arriviamo alla piazza italiana di chi sente di pagare la crisi in prima persona. Che differenza c’è con i riot londinesi o con gli otto scioperi generali della Francia?
Non credo che lo scenario nato negli anni ‘80 duri all’infinito. Però per incidere sul sistema politico deve consumarsi una rottura pesante proprio nel meccanismo che governa l’economia. I riot londinesi o gli scioperi generali francesi sono già dentro questa nuova configurazione, in Italia invece siamo ancora in una dimensione rituale di testimonianza, non è ancora visibile la capacità di incidere sui meccanismi decisionali della politica. Ho l’impressione, però, che accadrà solo se si arriverà ad una spaccatura molto più grossa di quella vista finora.
C’è una differenza enorme tra la piazza di oggi e quella di sabato scorso.
Sì certo, se quella del Pd ha avuto una fortissima impronta di ritualità un po’ novecentesca, questa piazza è da guardare con attenzione, si propone di incidere di più.
In cosa differisce questo movimento studentesco rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto.
Siamo fuori dal ‘900: qui non c’è ideologia, non ci sono le stesse parole d’ordine e nemmeno la stesso sistema politico. C’è la concretezza delle condizioni materiali. Però non mi sento di dire che siamo all’alba di una nuova stagione di movimenti in radicale discontinuità col passato.
C’è anche un’altra novità: questi movimenti non hanno nessun referente dentro al Palazzo.
Sì, e questo non aiuta perché non ci sono cavalli di troia da portare nel Palazzo a cui fare riferimento. Quindi senza il terreno della mediazione, per riuscire a superare quel baratro si è obbligati a una radicalità molto più alta.
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