martedì 14 dicembre 2010

Dove si gioca la partita vera

Il solido possesso dei fondamentali (leggi: la capacità di distinguere i fenomeni profondi, i mutamenti reali nei rapporti sociali dai sommovimenti di superficie) fa scorgere all’Elefantino del Foglio, al secolo Giuliano Ferrara, quello che lo strabismo politico imperante impedisce di cogliere alla maggior parte dei commentatori politici.
Mi riferisco alla spasmodica attenzione con la quale si attende il responso del voto del Parlamento che deciderà la sorte del Governo e del suo padrone, rispetto al vago, distratto interesse suscitato dall’autentica rivoluzione che Marchionne sta provocando nei rapporti fra le classi in Italia.
Beninteso: non c’è chi non veda come il nostro bistrattato Paese abbia solo da guadagnare dall’uscita di scena del caudillo, dalla crisi del bipolarismo, dalla fine di una stagione politica dominata dal potere cripto-dittatoriale, corrotto e corruttore, di un egoarca. Purché non si prendano lucciole per lanterne e si abbia ben chiaro che la partita di gran lunga decisiva, quella il cui esito condizionerà la politica di ogni governo futuro, si sta giocando sull’asse Detroit-Torino.
Scriveva ieri Ferrara che «in politica si decide pochissimo delle questioni di potere, giusto la politica estera e in parte, ma solo in parte, la grande questione energetica e quella della sicurezza. Non è poco - aggiungeva - ma nel nostro quotidiano e nella produzione della ricchezza di cui alla fine ci nutriamo, noi viviamo legati a regole che ormai si stabiliscono in altro modo che non con voti legislativi e gestioni pubbliche.
Il caso Marchionne insegna: un imprenditore, da capo della più forte e vecchia impresa manufatturiera italiana, diventa padrone dei due mondi, e in quanto tale decide come si organizzerà il lavoro secondo una logica che ci sfugge completamente, e che travolge Confindustria, sindacati confederali e concertazioni governative di vecchia scuola». Naturalmente, l’Elefantino saluta con entusiasmo l’avvento del potere assoluto e incondizionato del capitale sul lavoro, una volta reso quest’ultimo docile strumento della competitività d’impresa. Ma indiscutibile è la lucidità del ragionamento proposto, come lo sono le conclusioni cui egli perviene: «questa è politica, queste sono le rivoluzioni di cui abbiamo bisogno». E potete essere certi che quando il regimento di un futuro governo toccasse ad un Fini, piuttosto che ad un Casini, o ad un esecutivo di transizione/emergenziale/tecnico/o di solidarietà che dir si voglia, sarebbe la stella polare di corso Marconi a brillare su di esso. E su tutti noi.
Qualche settimana fa, Oskar Lafontaine, ospite di un dibattito promosso dalla Federazione della Sinistra, ci metteva a parte della lezione imparata nel corso della sua lunga esperienza politica nella Spd e a capo della Repubblica Federale Tedesca. Il cofondatore della Linke ci raccontava di essersi più volte chiesto perché, pur governando la “locomotiva d’Europa”, pur operando da posizioni di potere non riuscisse a superare certi limiti, ingessati nei rapporti sociali dati. E confessò di essere pervenuto alla convinzione, semplice e radicale insieme, che quei limiti sono insuperabili finché la politica non potrà decidere cosa, come e per chi produrre, finché non si afferri per le corna il problema dei problemi, quello del modo di produzione, vale a dire il tema cruciale della proprietà, dell’autogoverno dei produttori associati. «Si eredita il potere politico, non si eredita il potere economico» osservava, lapidario, Lafontaine.
E’ il potere economico che sovradetermina le scelte politiche, che fissa le coordinate, il perimetro dentro cui la politica può variare le proprie opzioni, dettando i ritmi e i modi della vita, il destino degli esseri umani.
Marchionne incarna una semplificazione assoluta: antica e moderna insieme. Ci dice che nel mondo globalizzato, la competizione, variante neppure troppo edulcorata della legge della giungla, deve fare premio su tutto: capire o perire. Un punto di vista diverso da quello dell’impresa, autonomo e conflittuale, è un lusso che non ci si può permettere, un retaggio ideologico figlio di stagioni da consegnare ad una storia trapassata.
Va da sé che è difficile immaginare come la democrazia, travolta nei luoghi di lavoro, possa floridamente sopravvivere nelle istituzioni. E infatti non vi sopravvive affatto, se non in forme sempre più autoritarie, presidenzialistiche e plebiscitarie, sempre più avulse dalla partecipazione attiva dei cittadini, rassegnati a tifare per questo o quel tenutario di questo o quel partito personale.
Dino Greco, Liberazione

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