In concomitanza con gli episodi di violenza che hanno accompagnato l'imponente manifestazione di Roma del 14 dicembre si è verificato un ulteriore strappo nel fragile tessuto istituzionale del paese.
Non tanto per quegli episodi, certamente gravi ma analoghi a quelli che si sono verificati da sempre nei momenti di conflitto sociale e politico e che si stanno susseguendo in ogni parte d'Europa. Quei fatti sono sintomo di una rabbia, di una sfiducia, di una aggressività non esorcizzabili che solo la politica può affrontare e gestire (come, nel deserto di analisi del giorno dopo, ha dovuto segnalare nientemeno che il capo della polizia...).
Inutile dirlo: alle forze di polizia compete contrastare e impedire con intelligenza e prontezza gli atti di violenza (ed è sua responsabilità non esservi riuscita); alla magistratura compete accertare i fatti e punire i colpevoli. Ma la storia insegna che quando la violenza diventa fenomeno diffuso è la politica che deve entrare in campo. Così, ancora una volta, non è stato. Un quadro desolante, dunque, ma non nuovo.
La novità, lo «strappo» è intervenuto due giorni dopo quando il Tribunale di Roma è stato chiamato a pronunciarsi sulla posizione di 23 giovani arrestati nel corso della manifestazione, portati a giudizio direttissimo per resistenza a pubblico ufficiale (e imputazioni minori). I giudici (diversi giudici) hanno convalidato gli arresti ma hanno, contestualmente, disposto la scarcerazione di tutti gli imputati (in qualche caso con applicazione di misure cautelari più blande): per la necessità di approfondire la dinamica dei fatti e perché la mancanza di precedenti rendeva, comunque, prevedibile, anche in caso di condanna, l'applicazione della sospensione condizionale della pena (circostanza che, per espressa previsione di legge, osta alla applicazione della custodia cautelare in carcere).
Decisione prudente ed equilibrata, verrebbe da dire. E, invece, esponenti significativi del governo si sono imprudentemente esibiti in contestazioni durissime nei confronti dei giudici.
Ha cominciato il ministro MARONI criticando i provvedimenti del tribunale perché sarebbe stato opportuno «mantenere la custodia cautelare almeno fino all'approvazione dell'iter legislativo in corso» (sic!). Decodifichiamo: secondo il titolare del Viminale, le decisioni della magistratura vanno valutate in base alla convenienze e alla opportunità politica. Inutile sottolineare che in questo modo il criterio cardine della giurisdizione («assolvere, condannare, applicare misure cautelari, scarcerare sulla base di prove acquisite secondo le regole») viene sostituito da quello della utilità contingente, che nulla ha a che vedere con la giustizia. Non è certo la prima volta. La logica è speculare a quella che vorrebbe evitare la sottoposizione a processo del presidente del Consiglio e dei suoi sodali perché ciò indebolirebbe l'azione di governo.
A dar manforte al collega degli interni è, poi, sceso in campo il ministro della giustizia ALFANO che ha prontamente annunciato l'invio nel palazzo di giustizia romano dei propri ispettori per accertare «la conformità formale e sostanziale alle norme del provvedimento con cui l'autorità giudiziaria ha disposto la scarcerazione dei responsabili, appena poche ore prima, di gravi atti di guerriglia urbana e di violenta contestazione». Nella iniziativa di Alfano, lo stesso - è bene ricordarlo - del «lodo» teso ad evitare la sottoposizione a processo del presidente del Consiglio, c'è tutto: la sentenza definitiva («i responsabili», non gli imputati), la pretesa di controllare il merito delle decisioni dei giudici, l'intimidazione diretta a ottenere «maggiore responsabilità» nel seguito del processo.
E c'è il trionfo della cultura della disuguaglianza, di quel garantismo strumentale e selettivo che gradua le regole in base allo status dell'imputato e che ignora che le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio. I giudici - spero e credo - continueranno, nonostante le pressioni del ministro, a fare il loro mestiere valutando le prove e le persone e non l'utilità contingente o le aspettative del governo, ché - per usare le parole di Alessandro Manzoni nella introduzione alla Storia della Colonna infame - cedere alle aspettative del potere o della piazza è, per un giudice «non una scusa, ma una colpa». Ma resta una pagina degna - parafrasando Antonio Albanese - di un «ministro dell'ingiustizia».
Livio Pepino, Il Manifesto
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