Il Pil mondiale previsto nel 2025 o la decadenza dell'Occidente |
SUL DECLINO DEL CAPITALISMO CCIDENTALE E IL CONCETTO MARXIASTA DI "CRISI STRUTTURALE"
A forza di analizzare il decorso della malattia senile che affligge il capitalismo occidentale si rischia di dimenticarne la causa primaria, la crisi di sovrapproduzione. Essa non consiste, come a volte si sente dire, nel fatto che le capacità di consumo delle masse sono insufficienti.
A forza di analizzare il decorso della malattia senile che affligge il capitalismo occidentale si rischia di dimenticarne la causa primaria, la crisi di sovrapproduzione. Essa non consiste, come a volte si sente dire, nel fatto che le capacità di consumo delle masse sono insufficienti.
Se fosse così dovremmo infatti parlare di crisi da sottoconsumo e
allora il capitale potrebbe keynesianamente uscirne, ad esempio
aumentando il potere d’acquisto dei salariati, e facendo leva sulle
banche centrali spingendole a sfornare carta moneta a gogò.
La crisi di sovrapproduzione è un’altra cosa. E’ l’inevitabile, ed empiricamente sempre verificata, conseguenza di un periodo di espansione prolungata dell’economia capitalistica. Durante tale boom le aziende e i diversi settori produttivi, spinti dalla brama di cogliere le opportunità di guadagno, di occupare prima dei concorrenti ogni spazio di mercato, compiono investimenti ingenti per accrescere le loro capacità produttive. In tali periodi di slancio espansivo, la forza lavoro è spremuta al massimo, i tassi di plusvalore salgono verso l’alto e il capitale industriale registra elevati profitti. In questo contesto di vacche grasse affluiscono verso il capitale industriale un profluvio di quattrini—il danaro fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione.
Animata dal desiderio di accrescere il profitto ogni azienda, temendo di essere fatta fuori dalla concorrenza, manifesta la tendenza a produrre senza limiti, a gettare merci sul mercato quantità crescenti, mentre quest’ultimo non si allarga alla medesima velocità e può anzi opporre barriere insormontabili.
Ad un certo punto il meccanismo s’inceppa. Con l’accresciuta capacità produttiva le merci hanno perduto valore —a causa dell’aumento della composizione organica che riduce la quantità di lavoro vivo incorporato nelle merci— e, per essere spacciate, devono essere vendute a prezzi decrescenti con la conseguenza di abbassare i profitti, mentre, per tenere almeno stabile il saggio, ci sarebbe bisogno di un loro aumento visti i costi crescenti affrontati per le spese di ammodernamento degli impianti.
La crisi di sovrapproduzione è un’altra cosa. E’ l’inevitabile, ed empiricamente sempre verificata, conseguenza di un periodo di espansione prolungata dell’economia capitalistica. Durante tale boom le aziende e i diversi settori produttivi, spinti dalla brama di cogliere le opportunità di guadagno, di occupare prima dei concorrenti ogni spazio di mercato, compiono investimenti ingenti per accrescere le loro capacità produttive. In tali periodi di slancio espansivo, la forza lavoro è spremuta al massimo, i tassi di plusvalore salgono verso l’alto e il capitale industriale registra elevati profitti. In questo contesto di vacche grasse affluiscono verso il capitale industriale un profluvio di quattrini—il danaro fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione.
Animata dal desiderio di accrescere il profitto ogni azienda, temendo di essere fatta fuori dalla concorrenza, manifesta la tendenza a produrre senza limiti, a gettare merci sul mercato quantità crescenti, mentre quest’ultimo non si allarga alla medesima velocità e può anzi opporre barriere insormontabili.
Ad un certo punto il meccanismo s’inceppa. Con l’accresciuta capacità produttiva le merci hanno perduto valore —a causa dell’aumento della composizione organica che riduce la quantità di lavoro vivo incorporato nelle merci— e, per essere spacciate, devono essere vendute a prezzi decrescenti con la conseguenza di abbassare i profitti, mentre, per tenere almeno stabile il saggio, ci sarebbe bisogno di un loro aumento visti i costi crescenti affrontati per le spese di ammodernamento degli impianti.
Non
conta solo la massa del profitto, conta il suo saggio, ovvero il
rapporto tra tutto il capitale anticipato e il plusvalore prodotto. La
tabella n.1 mostra il contributo al Pil mondiale delle varie aree
macro-economiche. Risalta la decadenza delle tradizionali potenze
imperialiste.
Tab.n1. La curva della decadenza imperialista |
Alle
prese con la sovrapproduzione il capitale industriale non si limita a
ridurre gli investimenti, deve limitare la produzione, fermare in tutto o
in parte gli impianti, espellere forza lavoro. Un caso da manuale è
l’industria automobilistica mondiale, che ha una sovraccapacità
produttiva di circa il 40%. Non è che non si potrebbero vendere
automobili, è che il capitale preferisce tagliare la produzione
piuttosto che vendere a prezzi che non gli consegnano il profitto
atteso. La denuncia di Marchionne secondo cui i tedeschi stanno
vendendo le loro autovetture sottocosto è una evidente conferma che in
fasi di crisi di sovrapproduzione, pur di non perdere quote di mercato
e/o di chiudere impianti, chi può, ovvero chi ha solidità finanziaria,
vende a prezzi che a malapena coprono i costi di produzione.
Quando i profitti crollano i capitali si svalorizzano, le loro azioni perdono quota, e per trovare denaro fresco debbono pagare interessi negativi più alti. Nota è la legge per cui, quando il saggio di profitto scende sale il tasso d'interesse del capitale monetario.
Quando i profitti crollano i capitali si svalorizzano, le loro azioni perdono quota, e per trovare denaro fresco debbono pagare interessi negativi più alti. Nota è la legge per cui, quando il saggio di profitto scende sale il tasso d'interesse del capitale monetario.
Questa
è la crisi di sovrapproduzione, che definiamo generale, cronica e
sistemica dal momento che afferra non questo o quel settore ma l’insieme
della produzione capitalistica. Aggiungiamo quindi l’aggettivo
strutturale per indicare che essa riguarda i modus essendi e operandi stessi del sistema capitalistico.
Tab. 2. La curva dei tassi di profitto negli Usa e in Europa |
L’attuale crisi non è sorta ieri, con l'esplosione della bolla finanziaria dei sub prime.
Ha le sue radici più lontane nella fine degli anni ’60 del secolo
scorso, con il tramonto del lungo ciclo espansivo postbellico. Di lì
prese le mosse il neoliberismo, ovvero l'offensiva generale del
grande capitale, concertata coi governi, per dare l'assalto alle
conquiste operaie e sociali per rilanciare i tassi di profitto. Si
guardi alla Tabella n.2. la curva dei tassi di profitto dopo la crisi
degli anni '70 risale fino alla metà degli anni '90, quando la spinta si
esaurisce. e i profitti ricominciano a scendere. E' a questo punto che prende il sopravvento, in Occidente, la tendenza alla iper-finanziarizzazione.
Del resto questa iper-finanziarizzazione prese avvio nello stesso quindicennio di crescita dei tassi di profitto iniziatosi a partire dagli inizi degli anni '80. Esso non si accompagnò ad una crescita del benessere sociale complessivo. I profitti non vennero reinvestiti su larga scala nelle sfere produttive, bensì in quelle improduttive della finanza speculativa. Lo attesta il decrescente tasso di accumulazione (vedi Tabella. n.3).
Del resto questa iper-finanziarizzazione prese avvio nello stesso quindicennio di crescita dei tassi di profitto iniziatosi a partire dagli inizi degli anni '80. Esso non si accompagnò ad una crescita del benessere sociale complessivo. I profitti non vennero reinvestiti su larga scala nelle sfere produttive, bensì in quelle improduttive della finanza speculativa. Lo attesta il decrescente tasso di accumulazione (vedi Tabella. n.3).
Tab. 3. La forbice tra tassi di profitto e di accumulazione: 1961-2007 |
Non
c’è nessun arcano in questa metamorfosi. Abbiamo detto che la legge
suprema del capitalismo è che il danaro, capitale solo in potenza,
fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione. Il capitale
monetario dei paesi imperialisti e delle petromonarchie, che nel
frattempo si era accumulato copioso, non trovando lucrosi gli
investimenti nell’industria occidentale, doveva cercare altri approdi.
Con l’ausilio indispensabile delle politiche liberistiche avviate negli
anni ’80 dagli Usa e dal Regno Unito prima, e poi dal resto
dell’Occidente, l'enorme massa di capitale monetario imboccò due strade
complementari: (1) quella del capitalismo-casinò, dove
il danaro poteva fruttare profitti senza passare per il ciclo faticoso
della produzione di plusvalore, semplicemente captandolo, attraverso
l’uso massiccio del credito ad usura, da ogni poro dell’economia e della
società.; (2) quella di
finanziare l'esportazione di capitali in paesi semicoloniali dove
esistevano le condizioni affinché gli investimenti nel ciclo industriale
consegnassero un alto plusvalore.
La
restaurazione del capitalismo in Cina e il crollo dell’URSS da una
parte (che hanno aperto nuovi enormi spazi di razzia e investimento ai
capitali monetari occidentali) e dall’altra l’applicazione a scala
globale delle nuove tecnologie informatiche diedero ossigeno al processo
combinato di finanziarizzazione e delocalizzazione in Asia. Il
capitalismo occidentale, non senza scoppi di bolle e numerose crisi di default, riuscì così a cavarsela per un altro ventennio, fino a quando, anche per l’insorgenza di nuove potenze capitalistiche, il capitalismo-casinò farà fiasco, esplodendo proprio negli Stati Uniti con la crisi dei mutui sub-prime del 2007-8, presto estesasi a tutto l’Occidente.
Alla domanda se possono le classi dominanti possono venire a capo di questa crisi, la risposta è quindi un rotondo no. O meglio, non ne possono venire a capo con le mezze misure. Dalle crisi generali di sovrapproduzione se ne esce soltanto con distruzione su larga scala di capitale. Solo in questo modo può ripartire un ciclo virtuoso di accumulazione e di creazione massiva di plusvalore, che è la linfa vitale senza la quale il capitalismo semplicemente muore. Questa distruzione, lenta, inesorabile, pilotata, è in effetti già in atto in Occidente da almeno un ventennio. Quando anche in Asia il motore si pianterà, avremo il grande cataclisma, con l’insorgenza di enormi conflitti inter-capitalistici.
Alla domanda se possono le classi dominanti possono venire a capo di questa crisi, la risposta è quindi un rotondo no. O meglio, non ne possono venire a capo con le mezze misure. Dalle crisi generali di sovrapproduzione se ne esce soltanto con distruzione su larga scala di capitale. Solo in questo modo può ripartire un ciclo virtuoso di accumulazione e di creazione massiva di plusvalore, che è la linfa vitale senza la quale il capitalismo semplicemente muore. Questa distruzione, lenta, inesorabile, pilotata, è in effetti già in atto in Occidente da almeno un ventennio. Quando anche in Asia il motore si pianterà, avremo il grande cataclisma, con l’insorgenza di enormi conflitti inter-capitalistici.
Tab. n.4. Neoliberismo: mentre i profitti salivano, decrescevano salari e consumi. % del Pil in Usa, Ue e Giappone |
L’Occidente
imperialista, pur di sfuggire al suo destino di decadenza, sarà posto
davanti alla necessità di organizzarsi per una guerra su due fronti:
quella per piegare i nuovi nemici esterni e quella di rapina entro i
suoi propri confini. Una guerra di classe non solo contro il
proletariato, ma la grande maggioranza del popolo, che dovrà essere
gettato in condizioni di semi-schiavitù affinché sia obbligato
dissanguarsi per tenere in vita il vampiro capitale. Questa guerra
interna, a ben vedere è già in corso, è alle sue prime battute. I tempi
affinché si affacci, nella coscienza di grandi masse, la necessità di
fuoriuscire dal capitalismo (e senza questa coscienza non ci sarà alcun
rivolgimento sociale) non sono ancora maturi. Lo saranno prima o poi, ed
è a questa svolta storica che ci si deve preparare.
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