La
locuzione latina “divide et impera” è stata per lungo tempo alla base
delle politiche di indebolimento degli avversari da parte degli imperi e
dei regimi di classe.
Gli Stati Uniti, per tutta la durata della loro storia politica, coloniale e imperiale l’hanno tenuta in gran conto, non soltanto per dividere tra di loro i proletari divisi per identità nazionale, colore della pelle e religione sul suolo americano, ma anche per trarre vantaggio dall’indebolimento dei concorrenti europei oppure in America latina, in Medio Oriente, nei confronti dei paesi satelliti dell’ex-Unione sovietica e nelle aree ex-coloniali.
Gli Stati Uniti, per tutta la durata della loro storia politica, coloniale e imperiale l’hanno tenuta in gran conto, non soltanto per dividere tra di loro i proletari divisi per identità nazionale, colore della pelle e religione sul suolo americano, ma anche per trarre vantaggio dall’indebolimento dei concorrenti europei oppure in America latina, in Medio Oriente, nei confronti dei paesi satelliti dell’ex-Unione sovietica e nelle aree ex-coloniali.
Ma
tale politica, che funziona particolarmente bene soltanto quando gli
imperi sono giovani oppure all’apice della loro potenza, sembra aver
oggi raggiunto i suoi limiti di reale efficacia poiché le perplessità e
le rivalità che l’attuale debolezza dell’impero americano fa sorgere,
tra suoi alleati, ex-alleati e potenziali rivali, sembrano condurre
sempre di più verso una catastrofe in direzione della quale le
incertezze statunitensi sembrano, allo stesso tempo, spingere sia sul
pedale dell’acceleratore che su quello del freno.
Mickey Mouse
Obama si è trovato a dover gestire, con il ritiro delle truppe dall’Iraq
e dall’Afghanistan, quella che agli occhi di gran parte del mondo,
soprattutto musulmano, ha avuto tutto il sapore di una sconfitta e,
contemporaneamente, iniziative di carattere politico, economico e
militare di alcuni alleati che, pur parzialmente concordate, hanno
scatenato fattori di rischio che hanno incrinato ancora di più
l’effettiva capacità di governance planetaria da parte di Washington.
Tutto
ciò che da parte degli infaticabili “democratici” occidentali era stato
esaltato nelle azioni e parole del leader americano (ritiro delle
truppe, promessa di difesa e sviluppo della democrazia in Medio Oriente)
è stato pertanto rapidamente e drasticamente modificato dalla crisi
politica ed economica in atto e si è rivelato per quello che realmente
era: un pensiero piuttosto vacuo, le cui affermazioni erano dettate
soltanto dalla debolezza in cui si trovavano (e tuttora si trovano) il
governo della superpotenza wasp (nonostante il presidente di colore) e
la sua diplomazia che, nella dinamica della crisi attuale difficilmente
riesce a far convivere bastone e carota.
Infatti il bastone non può essere troppo grande e la carota risulta di dimensioni troppo poco appetibili per molti degli attori chiamati in scena.
Infatti il bastone non può essere troppo grande e la carota risulta di dimensioni troppo poco appetibili per molti degli attori chiamati in scena.
Le guerre, come ha ben dimostrato Paul Kennedy in un suo importante saggio (Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze,
Garzanti 1989), costano, soprattutto per le potenze il cui corso sta
volgendo verso il tramonto. Costano in termini politici, economici,
militari e, soprattutto, di immagine. In particolare se non sono vinte
rapidamente. E negli annali recenti della storia americana nessuna
guerra è stata vinta brillantemente e, ancora meno, in tempi rapidi.
D’altra
parte per un colosso come quello statunitense, da anni foraggiato da un
sistema di dominio e sfruttamento basato sia sulla potenza finanziaria
che su quella del proprio apparato militar-industriale, anche la pace ha
un costo. Occorrerebbe, almeno ogni tanto, “saper perdere”. Ma Shel Shapiro e i Rokes non sono certo annoverati tra i consiglieri politici della Casa Bianca.
Anzi, sembra che ad ogni sconfitta segua un periodo di ulteriori involuzioni destinate soltanto a cercare un’ipotetica rivincita militare in altre aree.
Anzi, sembra che ad ogni sconfitta segua un periodo di ulteriori involuzioni destinate soltanto a cercare un’ipotetica rivincita militare in altre aree.
Una logica politica più vicina alla mentalità del
giocatore accanito che ad ogni perdita è costretto a chiedere prestiti
sempre più difficili da rimborsare e destinati ad ingrandirne
ulteriormente il debito.
Indirizzandolo verso puntate e giocate sempre più azzardate e rischiose.
E oggi, intorno allo stesso tavolo di casinò, si sono ammassati non solo gli Stati Uniti e il loro sistema economico ed imperiale, ma alcuni dei giocatori più azzardati e “indebitati” (politicamente, economicamente e diplomaticamente alias militarmente) del pianeta.
Indirizzandolo verso puntate e giocate sempre più azzardate e rischiose.
E oggi, intorno allo stesso tavolo di casinò, si sono ammassati non solo gli Stati Uniti e il loro sistema economico ed imperiale, ma alcuni dei giocatori più azzardati e “indebitati” (politicamente, economicamente e diplomaticamente alias militarmente) del pianeta.
Pensare
che tutto oggi stia seguendo una certa inderogabile logica oppure che
tutti gli avvenimenti drammatici che stanno avvenendo tra la Siria,
l’Iraq, la Libia e l’Ucraina, passando per quella macelleria a cielo
aperto costituita ormai da anni dai Territori palestinesi occupati o
stretti d’assedio dagli israeliani, siano ferreamente governati dalla
volontà statunitense è un grave errore. Perché non ci permette di
cogliere la gravità e le possibili conseguenze dell’attuale momento
dell’imperialismo mondiale.
Un’Europa in crisi economica, sociale
politica ed identitaria; paesi del Golfo timorosi di finire le riserve
petrolifere e di vedere modificati i propri arcaici assetti
istituzionali; la Russia di Putin stretta tra delirio di grandezza
imperiale e limiti di sviluppo ereditati dal passato; una Turchia
avvolta in una spirale di ammodernamento economico e sociale e
conservazione politica e religiosa tesi entrambi a garantire l’ordine
interno e allo stesso tempo un diverso ruolo degli eredi dell’impero
ottomano nella geopolitica planetaria; Israele sempre più schiacciata
tra il desiderio di ampliare i propri confini all’infinito e la paura di
perdere l’alleato americano: tutti questi fattori concorrono, insieme
all’incertezza americana, a creare una miscela fortemente instabile ed
altamente esplosiva. Cui, per paradosso attuale, non può nemmeno opporsi
una significativa forza antagonista ancora troppo debole e divisa dal
trionfo dei nazionalismi e delle identità etniche e religiose e dalle
preoccupazioni di carattere economico ed occupazionale.
Lo Stato
Islamico ed integralista installatosi a cavallo di Siria ed Iraq sembra,
nonostante le atrocità ivi perpetrate, sempre più una parodia di regime
del terrore; in cui le immagini delle azioni diffuse attraverso la rete
e i network televisivi sembrano rispondere più a logiche dello
spettacolo che politiche. E’ però proprio, e sempre di più, la regia di
questo teatro del Grand Guignol ad essere nebulosa, evanescente e
confusa.
Logiche che sì rispondono alla necessità americana di
riaprire un fronte là dove si era appena chiuso, ma, allo stesso tempo,
rischiano di riaprire anche questioni delicate ed indesiderate. Come
quella curda (che vedrebbe Turchia ed Iran uniti dal comune rigetto di
uno stato curdo indipendente), tanto per dirne una. Insieme alla
questione dei finanziatori “occulti” del nuovo terrorismo “globale”.
Iniziamo
dallo spettacolo in sé. Le immagini delle decapitazioni sono
accompagnate, come risposta, dall’uso di aggettivi e sostantivi,
indirizzati al fantomatico nemico o a “John l’Inglese”, come mostri, belve, tagliagole,
etc. Oppure, ancora una volta, da dichiarazioni sulla nuova minaccia
globale che, come ai bei tempi di Saddam, potrebbe ricorrere a terribili
armi di distruzione di massa. Ovvero da tutta quella terminologia che
serve, in questi casi, a riscaldare gli animi dei benpensanti e i motori
dei caccia-bombardieri e dei carri armati.
In compenso le scene
di guerra, viste in Tv, non sono adeguate allo sforzo: gente che spara
per aria, qualche cadavere qua e là, qualche testimonianza tradotta
direttamente nella lingua delle nazioni occidentali, qualche mezzo
lanciato in corsa in aree desertiche, qualche altra di mezzi fatti
esplodere dai droni o dai missili americani ( che potrebbe provenire da
qualsiasi conflitto degli ultimi anni), qualche funerale. Poco, troppo
poco per essere un vero kolossal come quello che media e governi ci
vorrebbero propinare.
Sia ben chiaro: non si può provare alcuna
simpatia o empatia con i militanti delle varie formazioni che si
riuniscono intorno allo Stato islamico. Anche se è chiaro che quei
militanti, pochi o tanti che siano (volontari delle mille guerre
iniziate da quelle balcaniche in poi, sottoproletari delle periferie
occidentali stufi della condizione di disagio in cui si trovano a vivere
milioni di immigrati di prima, seconda o terza generazione, soldati del
disciolto esercito irakeno, sunniti infiammati dalla predicazione di
imām radicali in Europa e in Africa) provengono in gran parte da
situazioni di disagio e disperazione che sono il risultato delle guerre
degli ultimi vent’anni e il prodotto della spartizione imperialistica e
capitalistica del globo e del prodotto sociale.
Obama ha chiamato
alla mobilitazione generale gli alleati e il dado sarebbe tratto se non
che gli alleati, come molti commentatori tendono a sottolineare, sono
piuttosto refrattari e recalcitranti ad assumersi decisamente i costi di
una guerra che gli Stati Uniti, mai come questa volta, non vogliono
affrontare da soli.
“Durante il periplo mediorientale il
segretario di Stato, John Kerry, ha raccolto l’aperta adesione di dieci
paesi arabi favorevoli all’operazione tesa a “distruggere” lo Stato
islamico. Questo non significa che siano tutti pronti a mandare la
propria fanteria o a bombardare le province siriane e irachene
controllate dai jihadisti del califfato autoproclamato da Al-Baghdadi” così scrive Bernardo Valli su La Repubblica del 15 settembre.1
Così alla conferenza di Parigi tenutasi il 15 settembre, dove dei 40
possibili alleati annunciati ne sono intervenuti 30 circa, la
disponibilità dei vari governi a condividere i rischi del conflitto
contro lo Stato islamico è stata diversa, ed incerta, da caso a caso.
“Rischi
che non sono soltanto di natura militare. Sul piano religioso o
semplicemente emotivo l’alleanza con l’Occidente contro il califfato,
sia pur poco credibile secondo le grandi istituzioni islamiche, può
urtare la sensibilità di parte della popolazione araba”2
In quanto ai dubbi, poi, la stessa Francia, così come altri paesi
europei, si è dimostrata incerta sulla possibilità di estendere le
incursioni aeree sulla Siria. Più prudenti altri europei che hanno
studiato partecipazioni non troppo compromettenti, come il governo di
Berlino che ha escluso ogni partecipazione diretta. Mentre la stessa
Gran Bretagna ha visto, nei giorni precedenti la conferenza, il governo
dividersi tra chi escludeva i bombardamenti in Siria e chi li
appoggiava.
Eh sì, perché, guarda caso, un importante pomo della
discordia continua ad essere costituito proprio dalla Siria e dal
destino futuro del regime di Assad.3
Che, a quanto pare, gli Stati Uniti preferiscono ancora indebolire ed
aggredire per fare un piacere all’Arabia Saudita e ad Israele per
cercare di indebolire, allo stesso tempo, la presenza russa nel
Mediterraneo.
Provare, anche qui, qualsiasi empatia con le politiche di Assad o di
Putin è assolutamente fuori luogo, ma, allo stesso tempo, è chiaro che
l’ostinazione americana a voler colpire in Siria rivela una parte del
gioco mediatico, militare e diplomatico attuale. Alla faccia degli
ostaggi, dei cristiani perseguitati, delle minoranze etniche e
religiose, delle violenze sulle donne e della salvaguardia della
democrazia e della libertà. Ciò che conta continua ad essere contenere
la Russia e prepararsi a fronteggiare l’Iran.
Già…gli ostaggi,
verso cui sembra volersi estendere il divieto americano ed inglese di
trattativa. Anche per quelli europei, francesi ed italiani. Così il
sottosegretario agli Esteri Mario Giro, dopo aver dichiarato in
un’intervista a Sky Tg24, che “riporteremo a casa gli ostaggi, non importa come“, che qualche sito ha sintetizzato usando il termine “trattare”, ha dovuto immediata precisare che: “Non
ho mai detto ‘non importa come’ a riguardo del modo di riportare a casa
i nostri rapiti, né ho utilizzato il termine ‘trattare’. Ho detto
invece che l’Italia farà di tutto per riportare a casa i 6 rapiti,
perché la nostra politica è di non abbandonare nessuno e per raggiungere
questo obiettivo studiamo tutti i mezzi possibili e leciti”.4
Gli
ostaggi servono alla causa della guerra, soprattutto se morti o uccisi
barbaramente, e questi distinguo non sono che la prova della tensione e
dell’indecisione che si vive negli uffici dell’intelligence e nei
palazzi del governo di fronte alla drastica richiesta di Obama.
Purtroppo l’uccisione ad opera di “fuoco amico” di Nicola Calipari, il
numero uno dell’antiterrorismo dell’allora SISMI, avvenuto a Baghdad nel
2005 in occasione della liberazione di Giuliana Sgrena ancora insegna.
L’Italia,
persa ormai qualsiasi autonomia politica, incapace persino di dar
seguito a quella strategia politica che uno dei maggiori rappresentanti
della Democrazia Cristiana, Paolo Emilio Taviani, aveva sintetizzo nella
formula “la moglie americana e l’amante libica”, finge di tenersi ai margini del conflitto fornendo soltanto armi ai Curdi, addestratori per gli eserciti mediorientali coinvolti e rifornimenti in volo per i cacciabombardieri alleati.
Mettendo
così definitivamente a rischio le vite degli ostaggi e i fragili
equilibri mediterranei un tempo raggiunti ed oggi denunciati come errori
o peggio. Mentre il direttore del quotidiano “democratico” per
eccellenza chiama alla difesa dell’Occidente e dei suoi “sacri” valori e
alla vera e propria guerra, contro Putin e contro l’Is, con un
linguaggio che non si vedeva dai tempi della guerra, almeno allora, fredda.5
Nel
frattempo, però, non è escluso che la Russia possa porre un veto al
Consiglio di Sicurezza sull’estensione del conflitto alla Siria. Mosca è
alleata del regime siriano di Bashar Al Assad e quindi si oppone allo
Stato islamico suo nemico, non esitando a offrire aiuti al governo di
Bagdad. Ma il presidente russo è pronto, come dimostra l’ordine di
mobilitazione e di “pronti al combattimento” dato alle truppe stanziate
sul fronte orientale nei giorni scorsi,6
ad opporsi anche muscolarmente a qualsiasi ingerenza americana sul
territorio siriano. In un confronto che dall’Ucraina al Mediterraneo si
va facendo sempre meno “freddo”.
Che per alcuni “alleati” il vero
obiettivo, poi, sia l’Iran non vi possono più essere dubbi. Israele e
Arabia Saudita, in particolare, spingono con forza in quella direzione
da tempo. Da quando, cioè, la disastrosa campagna irachena condotta
dagli Stati Uniti ha rafforzato i governi di Teheran, regalando di fatto
agli sciiti il controllo di una vasta parte dell’Iraq medesimo. Ed una
delle “colpe” principali del governo di Al Maliki, sciita, è stata forse
quella di favorire un riavvicinamento del paese a Russia e Cina ed un
allontanamento dagli USA. Mentre il governo di Obama si trova in una
posizione altalenante in cui, da una parte chiede alle milizie sciite
presenti sul territorio iracheno di collaborare alla guerra contro lo
Stato islamico e, dall’altra, rifiuta di far sedere l’Iran allo stesso
tavolo di trattative militari e politiche cui siedono anche i suoi due
principali nemici (ed alleati degli USA).
Un altro paese che ha
opposto un netto rifiuto all’uso delle proprie basi per operazioni di
ordine militare in Siria è la Turchia di Erdogan. La scusa ufficialmente
addotta è, in questo caso, quella dei 46 ostaggi turchi in mano alle
milizie integraliste, ma è chiaro che l’opposizione all’intervento
militare nell’area è dettato dal timore della realizzazione di uno stato
autonomo curdo in Iraq, che potrebbe portare ad una richiesta di
distacco della regione curda dalla Turchia stessa, alla fine o durante
il conflitto stesso. In questo Ankara si trova a condividere gli stessi
timori regionali di Siria, Iran e Iraq e quindi a propendere più in
direzione di accordi con due nazioni (Siria e Iran) che attualmente la
politica americana vorrebbe escludere, forse definitivamente, dai giochi
politico-economici dell’area.
In tutto questo c’è da chiedersi
come il popolo curdo non si sia ancora stancato di dipendere dalle
decisioni dei principali clan famigliari (ad esempio il clan Barzani)
che si spartiscono il potere nella regione e che, negli ultimi decenni,
hanno contribuito a coinvolgerlo in tutti i conflitti dell’area, solo e
sempre a vantaggio dell’imperialismo statunitense e delle speranze di
arricchimento di alcuni leader attraverso lo sfruttamento delle aree
petrolifere presenti sul territorio kurdo. Così come c’è da chiedersi
come dopo il tradimento di Abdullah Öcalan, messo in atto dal governo
D’Alema nel 1999, il PKK possa ancor a sperare di raggiungere qualche
soluzione vantaggiosa attraverso la collaborazione con gli imperi
d’Occidente. Una situazione di confusione politica, religiosa e clanica
che ha portato anche diversi giovani curdi ad arruolarsi nelle file
dell’Isis in Siria fin dal 2012.7
Se
il Kurdistan, a differenza di quanto affermano i media occidentali, non è
solo abitato da peshmerga è altresì vero che dei circa 30 paesi
intervenuti alla conferenza di Parigi quasi il 20% di questi ( Arabia
Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Oman, Qatar) non
possono essere considerati pienamente affidabili, poiché tutte le
indagini volte ad individuare i possibili finanziatori dell’Isis portano
nella direzione degli stati del Golfo e dell’Arabia Saudita in
particolare.
Già, perché gli eserciti del califfato islamico si
muovono non solo sotto la bandiera nera che tutti abbiamo visto
sventolare nelle immagini televisive. Soprattutto dal punto di vista
finanziario.
La frottola che tali gruppi si finanzino principalmente con il “contrabbando” di petrolio, i rapimenti e le trattative per la liberazione degli ostaggi alla lunga non regge. Infatti il pagamento di 20 milioni di dollari al Fronte al-Nusra da parte del Qatar per il rilascio dei 45 caschi blu originari delle Isole Fiji rapiti sulle alture del Golan, puzza di bruciato lontano un miglio e ha tutta l’aria di un finanziamento diretto travestito da intervento umanitario. Nei confronti, oltre tutto, di un gruppo da sempre vicino ad Al Qaeda e all’Isis ed oggi ben accetto a Washington per la sua partecipazione al fronte anti-Assad.8
La frottola che tali gruppi si finanzino principalmente con il “contrabbando” di petrolio, i rapimenti e le trattative per la liberazione degli ostaggi alla lunga non regge. Infatti il pagamento di 20 milioni di dollari al Fronte al-Nusra da parte del Qatar per il rilascio dei 45 caschi blu originari delle Isole Fiji rapiti sulle alture del Golan, puzza di bruciato lontano un miglio e ha tutta l’aria di un finanziamento diretto travestito da intervento umanitario. Nei confronti, oltre tutto, di un gruppo da sempre vicino ad Al Qaeda e all’Isis ed oggi ben accetto a Washington per la sua partecipazione al fronte anti-Assad.8
Un
funzionario dell’intelligence degli Stati Uniti sostiene che le risorse
dell’Is superano quelle di qualsiasi altro gruppo terroristico della
storia.9
Ma tale ipotesi si accompagna al tentativo di negare che tali gruppi
non si servano più dei finanziamenti dei ricchi sceiccati arabi. Ora,
però, se anche tale ipotesi fosse vera, vorrebbe dire che in passato
tali formazioni terroristiche sono state coltivate e cresciute dalle
ricche casate petrolifere arabe ovvero dai “fedeli alleati degli USA”.
Torniamo dunque in quel teatro di ombre che sempre di più assomiglia
alla nota caverna di Platone in cui le ombre proiettate dall’esterno
sulle pareti confondono le idee degli uomini. In particolare del bue
borghese, come avrebbe detto Marx, ma, troppo spesso, anche di quello
pseudo-antagonista.
In un recente articolo, pubblicato
sull’Huffington Post, Alastair Crooke , agente ed esperto di cose
mediorientali per conto del britannico M-6, ha affermato: ” Con l’avvento della manna petrolifera gli obiettivi dei sauditi erano diventati quelli di “espandersi, diffondendo il wahhabismo10 in
tutto il mondo musulmano”… di ‘wahhabizzare’ l’Islam, riducendo così
“la pluralità delle voci all’interno di questa religione” in un “unico
credo” — un movimento che avrebbe trasceso le divisioni nazionali.
Miliardi di dollari furono – e continuano tutt’ora – ad essere investiti
in questa manifestazione di soft power.Fu quest’esaltante combinazione
di miliardi di dollari d’investimento nell’esercizio di soft power – e
la disponibilità manifestata dai sauditi a orientare l’Islam sunnita
secondo gli interessi americani, pur innestandovi il Wahhabismo
attraverso le istituzioni scolastiche, la società e la cultura in tutti i
paesi musulmani – che generò la politica occidentale di dipendenza
dall’Arabia Saudita, una dipendenza che dura già dall’incontro di Abd-al
Aziz con Roosevelt a bordo di una nave da guerra statunitense (di
ritorno dalla Conferenza di Yalta) fino ad oggi [...]Dopotutto, i
movimenti islamisti più radicali venivano visti dai servizi segreti
occidentali come strumenti utili per abbattere l’URSS in Afghanistan – e
combattere leader e stati mediorientali che non godevano più del loro
favore.
Perché sentirsi così sorpresi, allora, se dal mandato
saudita-occidentale del Principe Bandar di gestire l’insorgenza siriana
contro il Presidente Assad sia poi emerso un tipo movimento
d’avanguardia neo-Ikhwan, violento e spaventoso: l’ISIS? E perché mai
dovremmo sentirci tanto sorpresi – sapendone un po’ sul Wahhabismo – del
fatto che gli insorgenti siriani “moderati” siano finiti col diventare
più rari del mitico unicorno? Perché mai avremmo dovuto immaginare che
il wahhabismo avrebbe generato dei moderati? Oppure, perché mai avremmo
dovuto immaginare che la dottrina di “Un Leader, Un’Autorità, Una
Moschea: sottomettetevi o morirete” potesse mai in ultima istanza
condurre alla moderazione o alla tolleranza?
Oppure, forse, non ci siamo mai sforzati d’immaginare”11 Ma qui occorre per ora fermarsi.
Oppure, forse, non ci siamo mai sforzati d’immaginare”11 Ma qui occorre per ora fermarsi.
L’Is o, meglio, le varie milizie jihadiste costituiscono, inoltre, un
mosaico molto composito in cui si manifestano anche i differenti
interessi dei vari paesi del Golfo che, in alcuni, casi (Arabia Saudita e
Qatar) hanno spesso interessi contrapposti in Siria e in Egitto.
Quando, addirittura, non arrivano ad avere posizioni differenti a
seconda che agiscano in Siria o in Iraq. Come il già citato Fronte
al-Nusra.
L’unica cosa certa per ora è che si sta andando verso
una guerra, i cui contorni, obiettivi e limiti, se ne avrà, non sono
ancora ben definiti. Obama non sembra avere una road map che vada oltre
il momento12
e la necessità di mantenere in vita lo sfiancatissimo cavallo imperiale
statunitense. A qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Per ora con
scarso impegno militare sul terreno, qualche bombardamento e il
tentativo di costringere tutti gli attori regionali e occidentali a
dichiararsi o a stringersi in un blocco sostanzialmente anti-russo ( a
partire dalle sparate retoriche sull’indipendenza ucraina) e
anti-iraniano. Tutto ciò mentre gli europei sono scoordinati, divisi e
confusi e una parte significativa dei giocatori seduti al tavolo sta
evidentemente barando.
Per di più, all’ombra di questo gioco e
sulla pelle di centinaia di migliaia di civili, Israele sta
tranquillamente preparando un’ennesima aggressione al Libano, paventando
la pericolosità di Hezbollah (che in realtà ha sempre combattuto contro
le forze integraliste sunnite); l’Egitto può continuare nella sua
politica di normalizzazione dei beduini del Sinai, accampando la scusa
di una presenza tra le varie tribù di una componente jihadista, e di
messa al bando dei Fratelli Musulmani e gli Stati Uniti arrivano a
lanciare l’allarme per una pericolosa presenza dell’Is anche in Estremo
Oriente, preparandosi ad ammassare truppe in quel quadrante in funzione
anti-cinese. Cosa cui non è rimasta indifferente la Cina che si è
schierata con la Russia sulla questione dei possibili bombardamenti
americani in Siria.
Ma la cosa più grave, da un punto di vista anti-imperialista e
anti-militarista, non è nemmeno costituita tanto dall’assenza di un
qualsiasi movimento contrario alla guerra di qualche peso, quanto
piuttosto dal fatto che, nel disastro generale, i disperati, i giovani
proletari e i sotto proletari delle aree coinvolte dai massacri e delle
periferie dell’impero siano diventati succubi dei nazionalismi e del
fanatismo religioso oppure dei vacui discorsi democratici e
progressisti; insomma di tutte le trappole ideologiche di cui si sono
serviti gli imperialismi, potenti o straccioni non importa che siano,
per affermare le loro logiche di dominio a partire dai due conflitti
mondiali. Tutto ciò grazie anche al totale abbandono di qualsiasi
riferimento alla lotta di classe da parte delle sedicenti sinistre
occidentali. Che, in ultima istanza, nascoste dietro alla fasulla
maschera dell’umanitarismo e della non violenza hanno abbandonato al
proprio destino proprio coloro che tale stato di cose (i lavoratori, i
giovani, gli sfruttati di ogni sesso e nazionalità) avrebbero potuto
rovesciare, tanto in Occidente quanto in Oriente.
- Bernardo Valli, Raid contro l’Is, sì dei paesi arabi. A Obama l’appoggio degli “alleati riluttanti” ↩
- Bernardo Valli, art. cit. ↩
- Definito, ancora su La Stampa, “macellaio”. Domenico Quirico, Fra i tagliagole e il macellaio Assad in Siria non c’è più posto per i buoni, 15 settembre 2014 ↩
- Claudia Fusani, Terrorismo, l’Italia ha ancora sei ostaggi. Barack Obama chiede agli alleati di non trattare, L’Huffington Post 14 settembre 2014 ↩
- “Ma
nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente
come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e
una coscienza di sé all’altezza della sfida? Ha almeno la
consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola,
mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi
l’America, delimiti l’Europa e blocchi la libertà di destino dei
popoli?[...]Per tutto il breve spazio “di pace” che va dalla caduta del
Muro all’11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani
il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come
bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra
fredda e non come un elemento della nostra identità culturale,
istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto
dall’avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua
durata.[...]Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l’11
settembre) che non è l’America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro
insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di
istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E
contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori,
abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è
l’abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l’oggetto
dell’attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza
che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il
suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta
che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri
rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi
dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere – sia pur riconoscendo
la sua legittimità – e coltiviamo la libertà del dubbio.
Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l’Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?” in Ezio Mauro, L’Occidente da difendere, La Repubblica 5 settembre 2014 ↩ - “L’ordine di verificare le capacità combattive delle truppe russe sembrerebbe essere legato all’imminente avvio della campagna americana contro l’Is in Iraq e in Siria. Il ministero della Difesa russo, infatti, ha ribadito oggi che qualunque azione aerea delle forze armate americane sul territorio siriano senza un preciso mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sarà interpretato dalla Russia come un atto di aggressione unilaterale” in Putin ordina alle Forze armate russe: “Pronti al combattimento in Oriente”, La Repubblica 13 settembre 2014 ↩
- “i
focolai jihadisti non sono una realtà nuova per il Kurdistan iracheno.
Basti pensare che il 23 maggio scorso è stato sventato un attacco
terroristico a Suleimani ordito ai danni di esponenti governativi
dell’Unione patriottica del Kurdistan da parte di Aram Ozair, ventenne
originario di Halabja che era tornato in Kurdistan dopo aver combattuto
per 8 mesi tra le file dell’Isis in Siria. Originari di Halabja erano
pure i 9 ragazzi curdi che nel novembre 2013 sono morti in Siria durante
feroci scontri tra i miliziani dell’Isis e l’esercito di Asad. I
giovani, tutti di età compresa tra i 17 e i 24 anni, erano stati
assoldati dalle milizie dell’Isis nel 2011 e si erano uniti alla
guerriglia jihadista in Siria. [...]Secondo Mariwan Naqshbandi, ministro
degli Affari religiosi del Kurdistan iracheno, molti uomini che si sono
uniti all’Isis e combattono oggi in Siria sono stati membri attivi
dell’organizzazione salafita curda Ansar al Islam. Questo gruppo
terroristico ha cominciato a operare in tutto il Kurdistan iracheno a
partire dal 2001; tra le azioni più note, si ricorda l’assassinio nel
febbraio 2002 di Franso Hariri, governatore di Erbil. Nel 2003, Ansar
al-Islam fu bombardata durante un’azione militare congiunta tra
peshmerga e Forze speciali americane. L’organizzazione si è sfaldata in
più fazioni, la principale delle quali è Ansar al-Sunna, autrice di
decine di attacchi suicidi, di cui il più clamoroso è stato quello
all’interno della mensa di una base americana a Mosul il 21 dicembre
2004 che causò la morte di 14 militari americani.
Alcuni giovani curdi di Halabja si sono arruolati tra le file dell’Isisper via dell’alto tasso di disoccupazione giovanile (7,7% nel 2012) e dell’analfabetismo (20,8% dei residenti sopra i 10 anni). Anche l’eredità ideologica di Ansar al-Islam e la glorificazione del jihad da parte di mullah curdi che avverrebbe tramite i canali televisivi locali sono ottimi volani per il reclutamento. Non vi è competizione con altre ideologie, perché non convincono in un Kurdistan in cui la tradizione curda, per certi versi più secolare rispetto all’islam saudita, resta comunque ancorata a valori predefiniti che lasciano poco spazio a iniziative autonome individuali.
La pressione ideologica nelle scuole e nelle università è forte e volta alla formazione di personalità standardizzate. Per questo i non pochi religiosi curdi che incoraggiano il jihad in Siria presentandolo come un valore coranico raccolgono proseliti. Salim Shushkay, esponente di spicco dell’islam curdo, è stato recentemente accusato dai servizi segreti del Kurdistan di aver spinto ragazzi curdi ad arruolarsi tra le fila dell’Isis in Siria, accuse respinte fermamente. L’intelligence curda continua a indagare tra le moschee soprattutto della provincia di Halabja, che è considerata l’hub principale del fondamentalismo religioso in Kurdistan. È vero però che, tra i rifugiati siriani, alcuni giovani uomini che si sono trasferiti nel Kurdistan iracheno perché disertori o obiettori di coscienza vengono reclutati e addestrati in campi militari nella regione già dal 2012. La differenza sta non nella finalità ma nella mentalità”, in Emanuela C. Del Re, Guerra a Isis, tregua con Baghdad: la strategia dei curdi d’Iraq, Limes Oggi on Line del 24 giugno 2014 ↩ - “Opposizione siriana, Qatar ha pagato riscatto di 20 milioni di dollari per rilascio caschi blu da al-Nusra”, La Repubblica 13 settembre 2014 ↩
- “Petrolio, tratta, rapimenti: Is è il gruppo terroristico più ricco della storia”, La Repubblica 14 settembre 2014 ↩
- una forma di puritanesimo islamico radicale ed esclusionista – N.d. A. ↩
- Alastair Crooke, Non si può capire l’ISIS senza conoscere la storia del Wahhabismo in Arabia Saudita, traduzione di Stefano Pitrelli, Huffington Post 3 settembre 2014 ↩
- Massimo Gaggi, “Ma Obama non ha una road map per quando il Califfato sarà sconfitto”, Corriere della sera 15 settembre 2015 ↩
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