Parla
Riccardo Bellofiore: "Marx ha costruito un’analisi sociale all’altezza
del suo tempo: capace di rispondere, criticare, incorporare e superare
la scienza sociale del suo tempo, allora i Classici dell’economia
politica, Smith e soprattutto Ricardo. Oggi dovremmo fare come Marx,
dopo Marx, non semplicemente ripeterlo, o ritrovarne la purezza
originaria"
di Roberto Ciccarelli
Riccardo Bellofiore è ordinario di
Economia monetaria presso l’Università degli studi di Bergamo. Di Marx
ha scritto molto, in Italia e all’estero. Autore di numerosi libri e
articoli su riviste italiane e straniere, relativi a temi di economia
monetaria, teoria del valore e della distribuzione, storia dell'analisi
economica, economia internazionale, Bellofiore preferisce trattare Marx
“non come un classico”, ma come lo strumento teorico privilegiato, non
esaustivo, per comprendere le trasformazioni del capitalismo
contemporaneo e le possibili risposte politiche.
In un recente articolo pubblicato
su “Liberazione” lei ha scritto che capita sempre più spesso di trovare
in libreria tutto di Toni Negri e quasi nulla di Marx. Come mai?
Le posso dire come l’ho scoperto. Un anno
fa un gruppo di giovani, stanchi del modo mordi e fuggi con cui
l'Università propone la formazione, mi ha chiesto di fare una lettura
lenta e attenta, senza alcuna finalità ortodossa, del primo libro del
Capitale di Marx (al gruppo partecipano amici e compagni di lunga data,
come Edoarda Masi, Maria Grazia Meriggi, e Vittorio Rieser). Ma questo
libro in libreria non c’era. L’edizione Utet ha un costo improponibile,
quella degli Editori Riuniti è esaurita e ne ho trovato alcune copie
solo un anno dopo nei reminders. La Newton Compton ne ha ristampato
recentemente un’edizione in paperback, dalla traduzione poco accurata.
Allora mi sono chiesto, anzi se lo sono chiesto per primi i giovani
partecipanti: perché di Hegel o di Kant, ma che so anche di Schelling,
Schopenhauer, Heidegger e così via, ormai in libreria si trovano le
traduzioni, spesso con il testo a fronte, e di Marx no, e anzi di
quest’ultimo i classici della critica dell’economia politica non si
trovano proprio? Fate una prova, entrate alla Feltrinelli di Roma, o di
Milano, e così via. Se vi va bene, trovate i Grundrisse della Nuova
Italia. Non il Capitale, non le Teorie del Plusvalore, non il Capitolo
VI inedito.
E la risposta qual è stata?
Che in Italia Marx è quasi sparito del
tutto. Questo per una serie di ragioni. Per motivi di età ho ancora
memoria del fatto che fino alla fine degli anni Settanta in Italia la
letteratura marxiana veniva tradotta da un pò tutte le lingue. Adesso
quasi nulla, e quel poco è schiacciato dalle mode e dalla attualità.
Anche dal punto di vista della riflessione filosofica ed economica di
Marx all’estero esiste molto materiale prodotto negli ultimi tre decenni
che qui da noi non è stato digerito: anzi, proprio non se ne sa nulla, o
molto poco. In Italia permane ancora l’idea volgare che Marx sia stato
sconfitto sul terreno della scientificità della sua teoria dopo il
crollo del socialismo reale. Poi c’è anche il fatto che la collana delle
Opere Complete di Marx ed Engels (Meoc), prevista in 50 volumi, si è
bloccata all’inizio degli anni Novanta, quando gli Editori Riuniti ne
hanno interrotto la pubblicazione, ed è rimasta incompleta: almeno in
Inghilterra l’edizione della Lawrence § Wishart è giunto al termine nel
2005.
Negli anni Novanta è stato
progettata la ripubblicazione dell’opera completa di Marx ed Engels
seguendo nuovi criteri filologici. Si può parlare di una riscoperta a
livello internazionale?
Si tratta della ripresa della cosiddetta
“Mega2”, che aveva visto la luce alla metà degli anni Settanta. Negli
ultimi anni anche in Italia ci si è cominciati a rendere conto che
questa edizione critica creerà un vero surplus di conoscenza. Si
organizzano convegni, e anche con riferimento alla MEGA 2 si è
costituito un gruppo “Prin” che riprende la pubblicazione della “Meoc”
italiana: il gruppo fa capo a Mario Cingoli, che ne sta curando un
volume, e ne fa parte Roberto Fineschi, che sta curando una preziosa
edizione critica, con tutte le varianti, del primo libro del Capitale.
Entro il 2010 saremo in grado di accedere a tutti i suoi scritti
sull’economia politica, visto che sarà completata la seconda sezione
della “Mega2”: ma in tedesco. Il crollo dell’Urss ha sicuramente avuto
un effetto liberante sulla rinascita degli studi su Marx. Per
l’interesse filologico di questa edizione, che per la prima volta ci
squaderna davanti il vero Marx, distinguendolo completamente da Engels.
Ma anche perché ha sganciato la figura di Marx da un’esperienza storica
determinata, che è quella del comunismo novecentesco, che si ispira alla
linea che parte da Lenin e, attraverso il leninismo e mille rotture,
arriva a Stalin e al socialismo reale come lo abbiamo conosciuto. Ma
questa rinascita va presa con un grano di sale. Abbondante.
Perché?
Ho l’impressione che oggi esista,
soprattutto (anche se non solo) da parte dei più giovani studiosi, la
tentazione di vedere in Marx un pensatore incorrotto dalla storia e
della politica. Ma Marx non può essere affrontato come oggi trattiamo,
che so, Platone e Aristotele. Dopo il crollo del socialismo reale molti
hanno creduto che Marx sia stato liberato da ogni commistione con quel
che è successo nell’ultimo secolo e mezzo: ma se c’è una cosa
completamente non marxiana è questa, così Marx muore. Altri invece
sostengono una ripresa iper-ortodossa di Marx, non problematizzante. Sul
terreno dell’analisi economica, o si nega la presenza di qualsiasi
contraddizione in Marx, o lo si vede come un profeta, oggi più vero di
ieri, o le due cose insieme. Io credo invece che non ci si possa lavare
le mani dalle vicende accadute nei 150 anni trascorsi dalla stesura del
Manifesto del partito comunista. Né che basti leggere Marx così com’è
Sarebbe un modo di sprecare un’occasione. Marx non può essere trattato
come un classico, ne´come un profeta.
In che modo allora si può misurare l’attualità di Marx?
Marx ha costruito un’analisi sociale
all’altezza del suo tempo: capace di rispondere, criticare, incorporare e
superare la scienza sociale del suo tempo, allora i Classici
dell’economia politica, Smith e soprattutto Ricardo. Oggi dovremmo fare
come Marx, dopo Marx, non semplicemente ripeterlo, o ritrovarne la
purezza originaria. Mettere al centro dell’analisi i rapporti sociali di
produzione, ma non pensare che basti il lascito marxiano così com’è. La
sua teoria del valore – che invece gli economisti considerano il suo
fallimento più grande - è per me un ottimo punto di partenza, perché
Marx è l’unico a mettere insieme il fenomeno del valore e quello della
moneta dentro un discorso sui rapporti sociali di produzione: dove è il
rapporto tra capitale e lavoro nel mercato e nel processo di lavoro a
essere centrale. A me sembra che questo Marx sia necessario: senza di
lui non si capisce letteralmente niente, non solo del capitalismo, ma
anche del capitalismo contemporaneo, e delle sue profonde novità. Ma mi è
chiaro che non è sufficiente. Va ricostruito a partire da una riduzione
a coerenza della sua teoria del valore, ma anche questo non basta. La
stessa analisi filologica e scientifica ci fa vedere infatti – almeno,
questa è la mia opinione - dei limiti del suo pensiero. Badi, proprio
nei suoi punti più alti: nei territori che ha aperto solo lui, e che ne
segnano la grandezza e superiorità sul resto della teoria sociale.
Quello che è interessante è che questi problemi impattano proprio sui
nodi dove la nostra capacità di comprendere le trasformazioni del
capitalismo, e del lavoro in esso, è stata debolissima dal lato della
nostra parte teorica e politica. È qui che si misura principalmente,
anche se certo non esclusivamente, la caduta di egemonia del marxismo
italiano, e non solo.
Di quali limiti sta parlando?
Parto da un esempio che riguarda appunto
uno degli aspetti più interessanti e unici della sua riflessione. In
Marx esiste un’idea in qualche modo semplicistica del come la dinamica
'spontanea' del capitalismo porta al di là di esso. Il capitale si
sarebbe progressivamente concentrato in unità produttive sempre più
grandi e avrebbe allargato sempre più l'occupazione, con una crescita
discontinua ma nel lungo periodo sicura del proletariato, quale soggetto
sempre più massificato e omogeneo, facendone il proprio becchino. In
tal modo, il capitale avrebbe così incorporato nel sistema di macchine
non solo le forze produttive, ma anche la forza sociale del lavoro, sino
al general intellect, dentro rapporti sociali e di potere che sarebbe
stato relativamente facile rompere e superare. Per il lavoratore
collettivo non solo sarebbe possibile ma semplice la riappropriazione
della ricchezza sociale e del sapere che il capitale gli ha espropriato.
A me pare invece che di Marx vada mantenuta semmai ferma un’altra tesi,
relativa alla comprensione scientifica del capitale, sganciandola dalla
dubbia commistione con una teoria della transizione del tipo che ho
detto. Quest’altra dimensione mi sembra sottovalutata nella riflessione
di chi sottolinea, a ragione, che il capitale ha la maiuscola, che è
cioè un Soggetto che tende ineluttabilmente a porre integralmente i
propri presupposti, a includere tutto senza margini. Costoro vedono la
tendenza totalitaria del capitale, e hanno ragione. Ma non vedono la
contraddizione dentro questo capitale, cancellano il possibile
antagonismo, perché non vedono che quella pretesa è a rigore
impossibile, e che la totalità può essere aperta e rotta dall’interno:
scambiano la tendenza per la realtà, il Capitale per l’Idea Assoluta,
Marx per Hegel (o meglio, per quello che Marx credeva fosse Hegel). Marx
infatti si rende conto di qualcosa che forse nemmeno più i marxisti
vedono più, se mai lo hanno visto davvero: il lavoro è forza lavoro più
lavoro vivo, e queste due cose sono legate internamente nella figura dei
lavoratori, come soggetti storicamente e socialmente determinati. Il
capitale ha bisogno della forza lavoro, e se la compra sul mercato, ma
dopo ha bisogno che questa forza lavoro, che è attaccata ai lavoratori
in carne ed ossa, eroghi lavoro vivo, e di nuovo questa attività la
possono erogare soltanto i lavoratori. Nel processo di produzione
immediato questo passaggio della capacità di lavoro in lavoro in atto
(che è ad un tempo il lavoro astratto in divenire, e ad un tempo lavoro
con sue proprietà concrete) è, a rigore, indeterminato a priori. Dipende
dalla cooperazione e dal conflitto, e talora dall’antagonismo. Il
lavoro vivo è una alterità che deve essere incorporata dal capitale come
lavoro morto, ad ogni ciclo capitalistico, e questo richiede di passare
attraverso la materialità sociale dei lavoratori. I capitalisti questo
lo sanno benissimo: non c’è capitale senza che il comando sul lavoro,
cioè sui lavoratori, sia periodo dopo periodo affermato, riconquistato,
garantito. Questa riproduzione del rapporto di capitale non avviene,
insomma, in modo automatico: non può e non deve essere data per
scontata, come invece pensa la maggior parte dei marxisti. Costoro fanno
del lavoro un epifenomeno del capitale, vedono il lavoro solo come
parte del capitale: il marxismo della forza-lavoro. Non è vero neanche
il contrario, la tesi dell’operaismo dopo Panzieri, secondo cui il
capitale è un mero epifenomeno delle lotte emananti da un lavoro puro e
incorrotto, rude razza pagana, giù giù sino alle mille incarnazioni
successive all'operaio massa, l'operaio sociale, il cyborg e così via.
Semmai, è bella e giusta l’altra espressione dell’operaismo che
individua però, sia chiaro, un compito, non un destino naturale: “dentro
e contro”. Il capitale dipende dal lavoro e viceversa, ed è chiaro che
il capitale è il soggetto dominante: ha bisogno di includere i
lavoratori dopo avere acquistato la loro forza lavoro. Ma ha bisogno di
riuscire a subordinarlo e a estrarre lavoro nella quantità e qualità
richiesta. L’antagonismo che si crea tra questi lavoratori e il capitale
però non è un dato immediato: va costruito, da una mediazione sociale e
politica, senza garanzie e senza filosofie della storia.
Qual è dunque la sua tesi?
Io credo che sul terreno della teoria del
valore si sia ormai persa questa dimensione conflittuale. Cioè
l'indeterminazione ex ante, all'atto della compera-vendita della
forza-lavoro, dell'estrazione di lavoro vivo, la sua potenziale
incertezza, sino alla possibilità di un antagonismo nel centro della
valorizzazione, nel processo immediato di lavoro. La prima ad avere
perso questa consapevolezza è stata la sinistra. I capitalisti, loro,
dalla crisi del “fordismo” ad oggi, hanno dimostrato di avere una
memoria storica incredibile, non si lasciano confondere dalla loro
ideologia, e hanno costruito un sistema articolato e complesso che
impedisce che l’antagonismo che si era prodotto nel momento del lavoro
come attività si riproponga di nuovo. La questione era allora non il
quanto del salario o dell’occupazione. Certo, anche quello: ma,
soprattutto, era il quale del come si lavora e del cosa si produce. E in
che relazioni si trovano a vivere gli esseri umani dentro la
produzione, perché anche questo è il tempo del loro vivere insieme, una
loro dimensione essenziale che non può essere separata dal resto. Così
quelle lotte aprivano, per quanto parzialmente e in modo insufficiente,
ma al cuore delle lotte operaie, alle questioni del genere e della
natura. Un dialogo con il femminismo e il pensiero verde che si è
interrotto ai suoi inizi, prima di incominciare sul serio. Un dialogo
che è difficilissimo tanto incrostati sono gli equivoci sul presunto
industrialismo e produttivismo di Marx. E però, forse per la prima volta
nella storia, quelle lotte mettevano davvero in discussione la natura
del lavoro salariato, e dunque il capitale in quanto tale. Una critica,
questa, ben più radicale di quella che va di moda oggi sotto la sigla
della “fine del lavoro salariato”, dell’“uscita dal lavoro”, dell’
“esodo”. Certo, bisognerebbe interrogarsi su cosa è diventato il lavoro
nel frattempo, e come riprendere quella sfida senza la quale per me non
c'è né sinistra né movimento operaio, vecchio o nuovo che sia.
E allora proviamo a vedere cosa è diventato il lavoro negli ultimi vent’anni…
Quella attuale non è una situazione che
segni una rottura nelle condizioni del lavoro eterodiretto, da nessuna
parte e in nessun luogo. La presunta autonomia sui luoghi di lavoro che
oggi il capitale concede, e le parziali ondate di riqualificazione,
vengono sistematicamente limitate da un processo di sussunzione del
lavoro al capitale che non ha più bisogno del controllo di tipo
personale, come accadeva con la catena di montaggio, ma che è sempre più
impersonale, e però anche sempre più efficace. Nella riproduzione di
questa subordinazione giocano, innanzi tutto, dinamiche macroeconomiche,
prodotte politicamente, nella gestione della domanda globale e della
finanza, con le ricadute sull'occupazione e sullo stato sociale. Sono i
“mercati” a regolare il lavoro, non il singolo padrone. Dall’inizio
degli anni Ottanta il capitalismo è sempre più instabile, con
all'interno una tendenza – che non si è mai dispiegata pienamente, ma
che è assolutamente reale – alla stagnazione della domanda, che dà tra
l'altro luogo alla crescita di una concorrenza sempre più aggressiva e
distruttiva tra le imprese capitalistiche, quelle produttive, ma anche
tra quelle che producono dei servizi, sul mercato globale. Una
concorrenza che accresce l'offerta per spiazzare i competitori anche
quando c'è poca domanda, in un circolo vizioso. Anche per questo i
capitalisti hanno bisogno davvero, non è solo ideologia, di un prodotto
lavorativamente più ricco di “qualità”, di proprietà concrete. Per fare
questo concedono più autonomia, più partecipazione, più qualità, ma
hanno bisogno di non correre grandi rischi. Così il lavoro diventa
sempre più simile al lavoro formalmente autonomo, e quest'ultimo è
sempre più lavoro eterodiretto. Il lavoro non segue più un piano pensato
e definito a monte, è una performance su un compito che viene valutato
ex post, come su un “mercato”, sicché la supposta autonomia non è altro,
alla fine, che sfruttamento autoimposto, e dove i lavoratori si
controllano l'un l'altro, strumento di una efficace subalternità al
capitale di tutti.
Questo avviene perché i capitalisti sanno che la conflittualità potenziale non minaccia la produzione di valore?
Il punto è che si costruisce un sistema in
cui il conflitto, figuriamoci l’antagonismo, è molto difficile, se non
impossibile. Sul versante macro ci sono altre dinamiche oltre a quella
che ho richiamato che congiurano allo stesso esito. Una è il rinnovato
primato della finanza, e la rinuncia a controllare i capitali. Un altro è
il ‘vincolo esterno’ o l'appello alla ‘finanza sana’ come paraventi per
attaccare il Welfare, e il salario indiretto. Il lavoro, tutto il
lavoro, quale che sia la sua forma contrattuale, addirittura quale che
sia la sua qualificazione e il suo salario, diviene di fatto precario.
Sul versante micro, la dinamica è questa: l’organizzazione delle imprese
tende ad aumentare la creazione del valore facendo entrare il mercato
dentro l’organizzazione, il che non tanto paradossalmente fa sì che il
primato della produzione divenga massimo. Pensa alle imprese che
pretendono che le singole unità produttive al suo interno siano centri
indipendenti di profitto, o al decentramento delle attività produttive, o
alla delocalizzazione, o a quell’outsourcing interno che è la
“terzizzazione”: in cui gli impiegati e i mezzi di produzione rimangono
fisicamente dov'erano, e così i lavoratori, ma gli uni e gli altri
diventano di proprietà di imprese diverse, arruolati in contratti
diversi, sempre più separati e isolati anche quando sono fisicamente
vicini e si trovano nelle medesime condizioni. Sono tutti elementi che
contribuiscono a formare una situazione in la centralizzazione del
capitale è massima. Ma senza più la concentrazione: il lavoro viene
frantumato, destrutturato, mentre la dimensione dell'unità produttiva
non necessariamente cresce, e anzi tende a diminuire. A queste due
sequenze se ne aggiunge una terza.
Quale?
Quella dell’inclusione finanziaria dei
lavoratori dentro il capitale attraverso due meccanismi. Il primo è
quello dei fondi pensione, il terrorismo finanziario, cui segue
l'obbligo o l'incentivo o l’illusione che spingono ad affidare il
risparmio delle famiglie dei lavoratori, quando c'è, alla roulette della
borsa. Il secondo è che i lavoratori, per mantenere i loro consumi al
livello ritenuto normale, si devono indebitare sempre più con il sistema
bancario. Queste dinamiche finanziarie ricadono sulla produzione di
valore e di plusvalore in senso stretto, perché legano i lavoratori
sempre più alle esigenze della valorizzazione del capitale. È dallo
sfruttamento di loro stessi, ma anche degli altri lavoratori per il
tramite dei fondi istituzionali che gestiscono il proprio risparmio, che
ci si aspetta la sicurezza del consumo e del reddito vitale. È quella
che altrove ho chiamato la terna lavoratore spaventato, risparmiatore
terrorizzato, consumatore indebitato, e che regge, nota bene, anche il
capitalismo avanzato e dinamico, oggi. Il capitale non ha superato la
sua tendenza deflazionistica con il neo-liberismo – come invece crede
buona parte della sinistra italiana - ma con una gestione politica
centrata paradossalmente su un keynesismo finanziario, almeno nel
capitalismo anglosassone. Il che però si accompagna alla frammentazione
del lavoro, all'attacco permanente al lavoro. È per questo che in Europa
non ci salveranno le buone intenzioni: che so, un pò più di keynesismo,
o di sensibilità sociale, o la flexsicurity, o il reddito di esistenza,
incapaci di affrontare alle radici questi problemi. Anche perché questa
centralizzazione senza concentrazione non supera affatto la crisi, ma
la riproduce al suo interno, e ne fa il meccanismo principale di
regolazione geopolitica e del lavoro. Tutto ciò configura, per
parafrasare la formula di E.P. Thompson, una gigantesca “riformazione”
di una classe “operaia” subalterna. Un processo lungo, cui seguirà una
nuova regolazione dall'alto di cui già si vedono i cenni.
Un’altra conseguenza di questo
paradosso potrebbe essere quella per cui, pur in presenza di una forza
lavoro potenzialmente più autonoma dell’operaio massa, ci sono poche
possibilità per la formazione di un soggetto sociale, come lo è stato un
tempo il movimento operaio, capace di opporsi alla sussunzione del
lavoro al capitale…
Non so se questa forza-lavoro sia più
autonoma dell'operaio massa, certo l'autonomia l'operaio massa se la è
conquistata, e poi se ne è fatto un mito. Agli inizi del taylorismo e
del fordismo, peraltro, quello che è stato poi chiamato l'operaio massa
era rappresentato come una figura totalmente inclusa dentro il capitale,
totalmente subalterna. Non credo comunque abbia molto senso fare
paragoni tra fasi diverse su un asse quantitativo, del più e del meno.
Conviene lavorare dentro e contro, nelle contraddizioni che si vivono.
Per me, questo significa riproporre, ostinatamente, una sfida
anticapitalistica, ma dunque anche di sbocco politico e progetto, sulla
base di una riunificazione sociale: che è l'unico modo per ottenere
davvero riforme degne di questo nome, a giudicare dalle esperienze
passate. Come, lei mi domanderà? Ma la mancanza dell’antagonismo oggi
non esclude la sua possibilità in futuro. Richiede di lavorarci sopra:
tutti coloro che cancellano questo discorso dal proprio orizzonte, fuori
dal proprio linguaggio e dai propri ragionamenti, e magari stanno molto
a sinistra, creano la realtà che io combatto, nel mio piccolo: una
tragica deriva performativa. Credo che sia importante ripartire
dall’idea che un soggetto di questo tipo non è un dato di natura (ovvero
qualcosa che il capitale gentilmente ci consegna bello e fatto), né che
quando si costituisce dura per sempre. E neanche scompaiono le sue
condizioni di possibilità: finché c’è il capitale, c'è la sua dipendenza
dal lavoro, se la si fa valere. Quel soggetto lo si deve ricostruire
costantemente, all’altezza delle trasformazioni del capitale. Marx lo
aveva capito a suo tempo, noi dovremmo fare la stessa cosa oggi.
Che c'entra questo con Marx?
Se ci pensa bene, i punti che ho sollevato
parlando del capitalismo contemporaneo incrociano ciò in cui Marx è
necessario, ma non è sufficiente. Prendi l'analisi del processo di
lavoro. In Marx troppo spesso prevale l’idea che lavoro senza qualità
significa, se non lavoro dequalificato, lavoro sempre più privo di
determinazioni concrete. Questo è proprio un punto dove la sua
esemplificazione non è all'altezza delle categorie che lui stesso
fornisce. Il lavoro astratto è infatti il lavoro in quanto produce
denaro e più denaro, e che a questo fine sussume le proprietà concrete,
che ci sono sempre. E quando al capitale conviene, vada per la
riqualificazione e per l'autonomia del lavoro, purché si speri di
poterle controllare. O pensi alla incapacità di Marx di pensare fino in
fondo che il valore, che si costituisce all’incrocio di produzione e
circolazione, presuppone una antevalidazione monetaria da parte della
banca, e come questi aspetti siano in lui ancora troppo legati a filo
doppio ad una teoria della moneta come merce, piena di spunti
interessanti, ma non accettabile. Di qui la necessità di una analisi più
ricca degli aspetti monetari e finanziari, di un autentico
rinnovamento, ma anche estensione creativa, dell'analisi di Marx. Pensi
alla sua difficoltà di concepire che la regolazione politica della
domanda possa risolvere, temporaneamente, la tendenza alla crisi da
realizzo, e come la sua teoria della crisi abbia talora aspetti
meccanicistici. Tutti e tre questi nodi sono quelli su cui la nostra
analisi del capitalismo degli ultimi trent'anni si è rivelata fragile:
l'analisi delle trasformazioni del lavoro, le dinamiche finanziarie, i
mutamenti della politica economica, la dimensione geopolitica. Con le
illusioni sul postfordismo, sulla globalizzazione, sulla nuova economia,
sulla fine del lavoro. Fare come Marx dopo Marx significa non ripeterlo
e basta, significa prendere l'economia politica del Novecento
(Schumpeter, Keynes, giù giù sino a Minsky e persino aspetti di
Stiglitz), imparare da loro, criticarli e superarli in avanti. Significa
capire come si evolve il capitalismo, e come la sua critica, nella
teoria e nella pratica, non sia mai fatta una volta per tutte. Non credo
che questo mi porti fuori dalla teoria del valore: anzi, ogni volta mi
ci riporta. Ma solo capendo come cambia il nesso
(plus)valore-moneta-lavoro. Per questo a me interessa un Marx eterodosso
e non imbalsamato. Un Marx non, innanzi tutto, filosofo o antropologo.
Un economista politico critico, o meglio uno scienziato sociale a tutto
tondo. Il suo oggetto è il capitalismo come società di classe. Mi
interessa condurre una critica all’economia politica che ci aiuti a
capire la doppia dannazione del capitale: la sua tendenza
all’instabilità e alla crisi e la sua necessità di uscire da sé e
incorporare l’attività umana.
Quali sono le conseguenze politiche di questo suo ragionamento?
Il problema vero è che non esiste oggi un
discorso politico che contrasti queste dinamiche, e neanche che le
comprenda. Né la sinistra comunista né quella socialdemocratica sembrano
esserci più davvero, se non come simulacri. Nessuno mette il proprio
destino in una sfida che ricollochi al centro il lavoro: al centro della
propria interpretazione della realtà sociale, al centro dello scontro
politico, al centro del proprio intervento. Mettere il lavoro al centro
non è una vuota formula: significa impegnarsi a mantenere una gerarchia
forte, nell'analisi e nelle lotte. Peraltro, l'unico gioco in città oggi
sembra quello tra neo-liberisti e social-liberisti, e nessuno a
sinistra pare rendersene conto. I neo-liberisti vogliono liberalizzare
pienamente il mercato del lavoro e distruggere il Welfare: ma al di là
di questo tutto sono meno che veri liberisti, difendono i monopoli,
creano disavanzi e debito pubblico, salvo comprimere la spesa sociale
comunque. Bastino i nomi di Bush e Berlusconi che tutto è chiaro. I
social-liberisti sono un'altra cosa, non sono liberisti temperati, la
versione meno selvaggia del neoliberismo. I social-liberisti pensano
davvero che il ‘lavoro’ non sia una merce come tutte le altre, vogliono
mantenere alcune tutele, creare un Welfare universalistico, creare una
rete di sicurezza. Che so, sono contro la precarietà, che distinguono
rigorosamente dalla flessibilità, che però richiede che i lavoratori si
adattino a variabile dipendente, fattore di produzione. In cambio
verranno offerte forme limitate di sostegno monetario al reddito, la
versione povera della flexsecurity e del basic income. Siamo però in un
orizzonte comune, tra questi social-liberisti e la sinistra radicale che
si raccoglie sotto quelle bandiere (d'altra parte, i referenti teorici
sono proprio gli stessi). C'é però, di nuovo, un paradosso, messo in
evidenza dal nuovo ciclo economico-politico, che si chiarisce subito se
pensi all'alternanza Reagan/Bush sr., poi Clinton, poi Bush jr: o, da
noi, centro sinistra del risanamento, poi Berlusconi, poi si spera
vittoria del nuovo centro-sinistra. I neoliberisti vanno al governo,
attaccano il lavoro e il Welfare, intanto spendono e spandono, creando
voragini nel bilancio pubblico. Da noi, con il centro-sinistra, non ce
la fanno però più di tanto a liberalizzare fino in fondo il mondo del
lavoro, a distruggere lo stato sociale. Dopo di loro arrivano i
social-liberisti. Vogliono davvero redistribuire, e un pò lo fanno: ma
con moderazione, sono gente seria, gente per bene, deve coprire i buchi
di bilancio, bisogna riparare ai danni alla finanza pubblica. La loro
liberalizzazione, accompagnata ad una pallida riregolazione e a un vago
orientamento dell'economia per incentivi e disincentivi, rimetterà in
moto lo sviluppo, no? Allargando la torta, così poi ce n'è per tutti.
Intanto, introducendo i fondi pensione. Non si devono mettere i bastoni
tra le ruote a questo progetto di nuovo sviluppo, è chiaro: se non sarà
un attentato alla Patria, poco ci mancherà. Così, mentre il mondo del
lavoro e le lotte sociali hanno più spazio e radicalità quando il
centro-destra è al governo, con il centro-sinistra aumenta la divisione e
la repressione: non si devono mettere i bastoni tra le ruote alle
riforme nel mercato del lavoro, alla flessibilità, e così via
modernizzando. Ovviamente, l'analisi del nuovo capitalismo dei
social-liberisti non sconta la sua insostenibilità e la sua instabilità.
Sicché crisi e disillusione sociale aumentano lo scontento, aprono
vistose falle per una deriva di massa a destra, e il gioco riparte in
condizioni peggiori. Magari risbattendo il centro sinistra
all'opposizione, ma sicuramente con più macerie per quel che riguarda il
lavoro e la società. Non sarebbe male ci fosse una sinistra 'marxiana'
in campo, capace di capire cosa succede, e almeno in grado di dire la
verità. Se non di rompere questo gioco, almeno provarci. Non ci conto.
Fonte: www.centroriformastato.it
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