mercoledì 10 settembre 2014

"Marx non è mai stato un ortodosso"

Parla Riccardo Bellofiore: "Marx ha costruito un’analisi sociale all’altezza del suo tempo: capace di rispondere, criticare, incorporare e superare la scienza sociale del suo tempo, allora i Classici dell’economia politica, Smith e soprattutto Ricardo. Oggi dovremmo fare come Marx, dopo Marx, non semplicemente ripeterlo, o ritrovarne la purezza originaria"
 
di Roberto Ciccarelli
 
Riccardo Bellofiore è ordinario di Economia monetaria presso l’Università degli studi di Bergamo. Di Marx ha scritto molto, in Italia e all’estero. Autore di numerosi libri e articoli su riviste italiane e straniere, relativi a temi di economia monetaria, teoria del valore e della distribuzione, storia dell'analisi economica, economia internazionale, Bellofiore preferisce trattare Marx “non come un classico”, ma come lo strumento teorico privilegiato, non esaustivo, per comprendere le trasformazioni del capitalismo contemporaneo e le possibili risposte politiche.
In un recente articolo pubblicato su “Liberazione” lei ha scritto che capita sempre più spesso di trovare in libreria tutto di Toni Negri e quasi nulla di Marx. Come mai?
Le posso dire come l’ho scoperto. Un anno fa un gruppo di giovani, stanchi del modo mordi e fuggi con cui l'Università propone la formazione, mi ha chiesto di fare una lettura lenta e attenta, senza alcuna finalità ortodossa, del primo libro del Capitale di Marx (al gruppo partecipano amici e compagni di lunga data, come Edoarda Masi, Maria Grazia Meriggi, e Vittorio Rieser). Ma questo libro in libreria non c’era. L’edizione Utet ha un costo improponibile, quella degli Editori Riuniti è esaurita e ne ho trovato alcune copie solo un anno dopo nei reminders. La Newton Compton ne ha ristampato recentemente un’edizione in paperback, dalla traduzione poco accurata. Allora mi sono chiesto, anzi se lo sono chiesto per primi i giovani partecipanti: perché di Hegel o di Kant, ma che so anche di Schelling, Schopenhauer, Heidegger e così via, ormai in libreria si trovano le traduzioni, spesso con il testo a fronte, e di Marx no, e anzi di quest’ultimo i classici della critica dell’economia politica non si trovano proprio? Fate una prova, entrate alla Feltrinelli di Roma, o di Milano, e così via. Se vi va bene, trovate i Grundrisse della Nuova Italia. Non il Capitale, non le Teorie del Plusvalore, non il Capitolo VI inedito.
E la risposta qual è stata?
Che in Italia Marx è quasi sparito del tutto. Questo per una serie di ragioni. Per motivi di età ho ancora memoria del fatto che fino alla fine degli anni Settanta in Italia la letteratura marxiana veniva tradotta da un pò tutte le lingue. Adesso quasi nulla, e quel poco è schiacciato dalle mode e dalla attualità. Anche dal punto di vista della riflessione filosofica ed economica di Marx all’estero esiste molto materiale prodotto negli ultimi tre decenni che qui da noi non è stato digerito: anzi, proprio non se ne sa nulla, o molto poco. In Italia permane ancora l’idea volgare che Marx sia stato sconfitto sul terreno della scientificità della sua teoria dopo il crollo del socialismo reale. Poi c’è anche il fatto che la collana delle Opere Complete di Marx ed Engels (Meoc), prevista in 50 volumi, si è bloccata all’inizio degli anni Novanta, quando gli Editori Riuniti ne hanno interrotto la pubblicazione, ed è rimasta incompleta: almeno in Inghilterra l’edizione della Lawrence § Wishart è giunto al termine nel 2005.
Negli anni Novanta è stato progettata la ripubblicazione dell’opera completa di Marx ed Engels seguendo nuovi criteri filologici. Si può parlare di una riscoperta a livello internazionale?
Si tratta della ripresa della cosiddetta “Mega2”, che aveva visto la luce alla metà degli anni Settanta. Negli ultimi anni anche in Italia ci si è cominciati a rendere conto che questa edizione critica creerà un vero surplus di conoscenza. Si organizzano convegni, e anche con riferimento alla MEGA 2 si è costituito un gruppo “Prin” che riprende la pubblicazione della “Meoc” italiana: il gruppo fa capo a Mario Cingoli, che ne sta curando un volume, e ne fa parte Roberto Fineschi, che sta curando una preziosa edizione critica, con tutte le varianti, del primo libro del Capitale. Entro il 2010 saremo in grado di accedere a tutti i suoi scritti sull’economia politica, visto che sarà completata la seconda sezione della “Mega2”: ma in tedesco. Il crollo dell’Urss ha sicuramente avuto un effetto liberante sulla rinascita degli studi su Marx. Per l’interesse filologico di questa edizione, che per la prima volta ci squaderna davanti il vero Marx, distinguendolo completamente da Engels. Ma anche perché ha sganciato la figura di Marx da un’esperienza storica determinata, che è quella del comunismo novecentesco, che si ispira alla linea che parte da Lenin e, attraverso il leninismo e mille rotture, arriva a Stalin e al socialismo reale come lo abbiamo conosciuto. Ma questa rinascita va presa con un grano di sale. Abbondante.
Perché?
Ho l’impressione che oggi esista, soprattutto (anche se non solo) da parte dei più giovani studiosi, la tentazione di vedere in Marx un pensatore incorrotto dalla storia e della politica. Ma Marx non può essere affrontato come oggi trattiamo, che so, Platone e Aristotele. Dopo il crollo del socialismo reale molti hanno creduto che Marx sia stato liberato da ogni commistione con quel che è successo nell’ultimo secolo e mezzo: ma se c’è una cosa completamente non marxiana è questa, così Marx muore. Altri invece sostengono una ripresa iper-ortodossa di Marx, non problematizzante. Sul terreno dell’analisi economica, o si nega la presenza di qualsiasi contraddizione in Marx, o lo si vede come un profeta, oggi più vero di ieri, o le due cose insieme. Io credo invece che non ci si possa lavare le mani dalle vicende accadute nei 150 anni trascorsi dalla stesura del Manifesto del partito comunista. Né che basti leggere Marx così com’è Sarebbe un modo di sprecare un’occasione. Marx non può essere trattato come un classico, ne´come un profeta.
In che modo allora si può misurare l’attualità di Marx?
Marx ha costruito un’analisi sociale all’altezza del suo tempo: capace di rispondere, criticare, incorporare e superare la scienza sociale del suo tempo, allora i Classici dell’economia politica, Smith e soprattutto Ricardo. Oggi dovremmo fare come Marx, dopo Marx, non semplicemente ripeterlo, o ritrovarne la purezza originaria. Mettere al centro dell’analisi i rapporti sociali di produzione, ma non pensare che basti il lascito marxiano così com’è. La sua teoria del valore – che invece gli economisti considerano il suo fallimento più grande - è per me un ottimo punto di partenza, perché Marx è l’unico a mettere insieme il fenomeno del valore e quello della moneta dentro un discorso sui rapporti sociali di produzione: dove è il rapporto tra capitale e lavoro nel mercato e nel processo di lavoro a essere centrale. A me sembra che questo Marx sia necessario: senza di lui non si capisce letteralmente niente, non solo del capitalismo, ma anche del capitalismo contemporaneo, e delle sue profonde novità. Ma mi è chiaro che non è sufficiente. Va ricostruito a partire da una riduzione a coerenza della sua teoria del valore, ma anche questo non basta. La stessa analisi filologica e scientifica ci fa vedere infatti – almeno, questa è la mia opinione - dei limiti del suo pensiero. Badi, proprio nei suoi punti più alti: nei territori che ha aperto solo lui, e che ne segnano la grandezza e superiorità sul resto della teoria sociale. Quello che è interessante è che questi problemi impattano proprio sui nodi dove la nostra capacità di comprendere le trasformazioni del capitalismo, e del lavoro in esso, è stata debolissima dal lato della nostra parte teorica e politica. È qui che si misura principalmente, anche se certo non esclusivamente, la caduta di egemonia del marxismo italiano, e non solo.
Di quali limiti sta parlando?
Parto da un esempio che riguarda appunto uno degli aspetti più interessanti e unici della sua riflessione. In Marx esiste un’idea in qualche modo semplicistica del come la dinamica 'spontanea' del capitalismo porta al di là di esso. Il capitale si sarebbe progressivamente concentrato in unità produttive sempre più grandi e avrebbe allargato sempre più l'occupazione, con una crescita discontinua ma nel lungo periodo sicura del proletariato, quale soggetto sempre più massificato e omogeneo, facendone il proprio becchino. In tal modo, il capitale avrebbe così incorporato nel sistema di macchine non solo le forze produttive, ma anche la forza sociale del lavoro, sino al general intellect, dentro rapporti sociali e di potere che sarebbe stato relativamente facile rompere e superare. Per il lavoratore collettivo non solo sarebbe possibile ma semplice la riappropriazione della ricchezza sociale e del sapere che il capitale gli ha espropriato. A me pare invece che di Marx vada mantenuta semmai ferma un’altra tesi, relativa alla comprensione scientifica del capitale, sganciandola dalla dubbia commistione con una teoria della transizione del tipo che ho detto. Quest’altra dimensione mi sembra sottovalutata nella riflessione di chi sottolinea, a ragione, che il capitale ha la maiuscola, che è cioè un Soggetto che tende ineluttabilmente a porre integralmente i propri presupposti, a includere tutto senza margini. Costoro vedono la tendenza totalitaria del capitale, e hanno ragione. Ma non vedono la contraddizione dentro questo capitale, cancellano il possibile antagonismo, perché non vedono che quella pretesa è a rigore impossibile, e che la totalità può essere aperta e rotta dall’interno: scambiano la tendenza per la realtà, il Capitale per l’Idea Assoluta, Marx per Hegel (o meglio, per quello che Marx credeva fosse Hegel). Marx infatti si rende conto di qualcosa che forse nemmeno più i marxisti vedono più, se mai lo hanno visto davvero: il lavoro è forza lavoro più lavoro vivo, e queste due cose sono legate internamente nella figura dei lavoratori, come soggetti storicamente e socialmente determinati. Il capitale ha bisogno della forza lavoro, e se la compra sul mercato, ma dopo ha bisogno che questa forza lavoro, che è attaccata ai lavoratori in carne ed ossa, eroghi lavoro vivo, e di nuovo questa attività la possono erogare soltanto i lavoratori. Nel processo di produzione immediato questo passaggio della capacità di lavoro in lavoro in atto (che è ad un tempo il lavoro astratto in divenire, e ad un tempo lavoro con sue proprietà concrete) è, a rigore, indeterminato a priori. Dipende dalla cooperazione e dal conflitto, e talora dall’antagonismo. Il lavoro vivo è una alterità che deve essere incorporata dal capitale come lavoro morto, ad ogni ciclo capitalistico, e questo richiede di passare attraverso la materialità sociale dei lavoratori. I capitalisti questo lo sanno benissimo: non c’è capitale senza che il comando sul lavoro, cioè sui lavoratori, sia periodo dopo periodo affermato, riconquistato, garantito. Questa riproduzione del rapporto di capitale non avviene, insomma, in modo automatico: non può e non deve essere data per scontata, come invece pensa la maggior parte dei marxisti. Costoro fanno del lavoro un epifenomeno del capitale, vedono il lavoro solo come parte del capitale: il marxismo della forza-lavoro. Non è vero neanche il contrario, la tesi dell’operaismo dopo Panzieri, secondo cui il capitale è un mero epifenomeno delle lotte emananti da un lavoro puro e incorrotto, rude razza pagana, giù giù sino alle mille incarnazioni successive all'operaio massa, l'operaio sociale, il cyborg e così via. Semmai, è bella e giusta l’altra espressione dell’operaismo che individua però, sia chiaro, un compito, non un destino naturale: “dentro e contro”. Il capitale dipende dal lavoro e viceversa, ed è chiaro che il capitale è il soggetto dominante: ha bisogno di includere i lavoratori dopo avere acquistato la loro forza lavoro. Ma ha bisogno di riuscire a subordinarlo e a estrarre lavoro nella quantità e qualità richiesta. L’antagonismo che si crea tra questi lavoratori e il capitale però non è un dato immediato: va costruito, da una mediazione sociale e politica, senza garanzie e senza filosofie della storia.
Qual è dunque la sua tesi?
Io credo che sul terreno della teoria del valore si sia ormai persa questa dimensione conflittuale. Cioè l'indeterminazione ex ante, all'atto della compera-vendita della forza-lavoro, dell'estrazione di lavoro vivo, la sua potenziale incertezza, sino alla possibilità di un antagonismo nel centro della valorizzazione, nel processo immediato di lavoro. La prima ad avere perso questa consapevolezza è stata la sinistra. I capitalisti, loro, dalla crisi del “fordismo” ad oggi, hanno dimostrato di avere una memoria storica incredibile, non si lasciano confondere dalla loro ideologia, e hanno costruito un sistema articolato e complesso che impedisce che l’antagonismo che si era prodotto nel momento del lavoro come attività si riproponga di nuovo. La questione era allora non il quanto del salario o dell’occupazione. Certo, anche quello: ma, soprattutto, era il quale del come si lavora e del cosa si produce. E in che relazioni si trovano a vivere gli esseri umani dentro la produzione, perché anche questo è il tempo del loro vivere insieme, una loro dimensione essenziale che non può essere separata dal resto. Così quelle lotte aprivano, per quanto parzialmente e in modo insufficiente, ma al cuore delle lotte operaie, alle questioni del genere e della natura. Un dialogo con il femminismo e il pensiero verde che si è interrotto ai suoi inizi, prima di incominciare sul serio. Un dialogo che è difficilissimo tanto incrostati sono gli equivoci sul presunto industrialismo e produttivismo di Marx. E però, forse per la prima volta nella storia, quelle lotte mettevano davvero in discussione la natura del lavoro salariato, e dunque il capitale in quanto tale. Una critica, questa, ben più radicale di quella che va di moda oggi sotto la sigla della “fine del lavoro salariato”, dell’“uscita dal lavoro”, dell’ “esodo”. Certo, bisognerebbe interrogarsi su cosa è diventato il lavoro nel frattempo, e come riprendere quella sfida senza la quale per me non c'è né sinistra né movimento operaio, vecchio o nuovo che sia.
E allora proviamo a vedere cosa è diventato il lavoro negli ultimi vent’anni…
Quella attuale non è una situazione che segni una rottura nelle condizioni del lavoro eterodiretto, da nessuna parte e in nessun luogo. La presunta autonomia sui luoghi di lavoro che oggi il capitale concede, e le parziali ondate di riqualificazione, vengono sistematicamente limitate da un processo di sussunzione del lavoro al capitale che non ha più bisogno del controllo di tipo personale, come accadeva con la catena di montaggio, ma che è sempre più impersonale, e però anche sempre più efficace. Nella riproduzione di questa subordinazione giocano, innanzi tutto, dinamiche macroeconomiche, prodotte politicamente, nella gestione della domanda globale e della finanza, con le ricadute sull'occupazione e sullo stato sociale. Sono i “mercati” a regolare il lavoro, non il singolo padrone. Dall’inizio degli anni Ottanta il capitalismo è sempre più instabile, con all'interno una tendenza – che non si è mai dispiegata pienamente, ma che è assolutamente reale – alla stagnazione della domanda, che dà tra l'altro luogo alla crescita di una concorrenza sempre più aggressiva e distruttiva tra le imprese capitalistiche, quelle produttive, ma anche tra quelle che producono dei servizi, sul mercato globale. Una concorrenza che accresce l'offerta per spiazzare i competitori anche quando c'è poca domanda, in un circolo vizioso. Anche per questo i capitalisti hanno bisogno davvero, non è solo ideologia, di un prodotto lavorativamente più ricco di “qualità”, di proprietà concrete. Per fare questo concedono più autonomia, più partecipazione, più qualità, ma hanno bisogno di non correre grandi rischi. Così il lavoro diventa sempre più simile al lavoro formalmente autonomo, e quest'ultimo è sempre più lavoro eterodiretto. Il lavoro non segue più un piano pensato e definito a monte, è una performance su un compito che viene valutato ex post, come su un “mercato”, sicché la supposta autonomia non è altro, alla fine, che sfruttamento autoimposto, e dove i lavoratori si controllano l'un l'altro, strumento di una efficace subalternità al capitale di tutti.
Questo avviene perché i capitalisti sanno che la conflittualità potenziale non minaccia la produzione di valore?
Il punto è che si costruisce un sistema in cui il conflitto, figuriamoci l’antagonismo, è molto difficile, se non impossibile. Sul versante macro ci sono altre dinamiche oltre a quella che ho richiamato che congiurano allo stesso esito. Una è il rinnovato primato della finanza, e la rinuncia a controllare i capitali. Un altro è il ‘vincolo esterno’ o l'appello alla ‘finanza sana’ come paraventi per attaccare il Welfare, e il salario indiretto. Il lavoro, tutto il lavoro, quale che sia la sua forma contrattuale, addirittura quale che sia la sua qualificazione e il suo salario, diviene di fatto precario. Sul versante micro, la dinamica è questa: l’organizzazione delle imprese tende ad aumentare la creazione del valore facendo entrare il mercato dentro l’organizzazione, il che non tanto paradossalmente fa sì che il primato della produzione divenga massimo. Pensa alle imprese che pretendono che le singole unità produttive al suo interno siano centri indipendenti di profitto, o al decentramento delle attività produttive, o alla delocalizzazione, o a quell’outsourcing interno che è la “terzizzazione”: in cui gli impiegati e i mezzi di produzione rimangono fisicamente dov'erano, e così i lavoratori, ma gli uni e gli altri diventano di proprietà di imprese diverse, arruolati in contratti diversi, sempre più separati e isolati anche quando sono fisicamente vicini e si trovano nelle medesime condizioni. Sono tutti elementi che contribuiscono a formare una situazione in la centralizzazione del capitale è massima. Ma senza più la concentrazione: il lavoro viene frantumato, destrutturato, mentre la dimensione dell'unità produttiva non necessariamente cresce, e anzi tende a diminuire. A queste due sequenze se ne aggiunge una terza.
Quale?
Quella dell’inclusione finanziaria dei lavoratori dentro il capitale attraverso due meccanismi. Il primo è quello dei fondi pensione, il terrorismo finanziario, cui segue l'obbligo o l'incentivo o l’illusione che spingono ad affidare il risparmio delle famiglie dei lavoratori, quando c'è, alla roulette della borsa. Il secondo è che i lavoratori, per mantenere i loro consumi al livello ritenuto normale, si devono indebitare sempre più con il sistema bancario. Queste dinamiche finanziarie ricadono sulla produzione di valore e di plusvalore in senso stretto, perché legano i lavoratori sempre più alle esigenze della valorizzazione del capitale. È dallo sfruttamento di loro stessi, ma anche degli altri lavoratori per il tramite dei fondi istituzionali che gestiscono il proprio risparmio, che ci si aspetta la sicurezza del consumo e del reddito vitale. È quella che altrove ho chiamato la terna lavoratore spaventato, risparmiatore terrorizzato, consumatore indebitato, e che regge, nota bene, anche il capitalismo avanzato e dinamico, oggi. Il capitale non ha superato la sua tendenza deflazionistica con il neo-liberismo – come invece crede buona parte della sinistra italiana - ma con una gestione politica centrata paradossalmente su un keynesismo finanziario, almeno nel capitalismo anglosassone. Il che però si accompagna alla frammentazione del lavoro, all'attacco permanente al lavoro. È per questo che in Europa non ci salveranno le buone intenzioni: che so, un pò più di keynesismo, o di sensibilità sociale, o la flexsicurity, o il reddito di esistenza, incapaci di affrontare alle radici questi problemi. Anche perché questa centralizzazione senza concentrazione non supera affatto la crisi, ma la riproduce al suo interno, e ne fa il meccanismo principale di regolazione geopolitica e del lavoro. Tutto ciò configura, per parafrasare la formula di E.P. Thompson, una gigantesca “riformazione” di una classe “operaia” subalterna. Un processo lungo, cui seguirà una nuova regolazione dall'alto di cui già si vedono i cenni.
Un’altra conseguenza di questo paradosso potrebbe essere quella per cui, pur in presenza di una forza lavoro potenzialmente più autonoma dell’operaio massa, ci sono poche possibilità per la formazione di un soggetto sociale, come lo è stato un tempo il movimento operaio, capace di opporsi alla sussunzione del lavoro al capitale…
Non so se questa forza-lavoro sia più autonoma dell'operaio massa, certo l'autonomia l'operaio massa se la è conquistata, e poi se ne è fatto un mito. Agli inizi del taylorismo e del fordismo, peraltro, quello che è stato poi chiamato l'operaio massa era rappresentato come una figura totalmente inclusa dentro il capitale, totalmente subalterna. Non credo comunque abbia molto senso fare paragoni tra fasi diverse su un asse quantitativo, del più e del meno. Conviene lavorare dentro e contro, nelle contraddizioni che si vivono. Per me, questo significa riproporre, ostinatamente, una sfida anticapitalistica, ma dunque anche di sbocco politico e progetto, sulla base di una riunificazione sociale: che è l'unico modo per ottenere davvero riforme degne di questo nome, a giudicare dalle esperienze passate. Come, lei mi domanderà? Ma la mancanza dell’antagonismo oggi non esclude la sua possibilità in futuro. Richiede di lavorarci sopra: tutti coloro che cancellano questo discorso dal proprio orizzonte, fuori dal proprio linguaggio e dai propri ragionamenti, e magari stanno molto a sinistra, creano la realtà che io combatto, nel mio piccolo: una tragica deriva performativa. Credo che sia importante ripartire dall’idea che un soggetto di questo tipo non è un dato di natura (ovvero qualcosa che il capitale gentilmente ci consegna bello e fatto), né che quando si costituisce dura per sempre. E neanche scompaiono le sue condizioni di possibilità: finché c’è il capitale, c'è la sua dipendenza dal lavoro, se la si fa valere. Quel soggetto lo si deve ricostruire costantemente, all’altezza delle trasformazioni del capitale. Marx lo aveva capito a suo tempo, noi dovremmo fare la stessa cosa oggi.
Che c'entra questo con Marx?
Se ci pensa bene, i punti che ho sollevato parlando del capitalismo contemporaneo incrociano ciò in cui Marx è necessario, ma non è sufficiente. Prendi l'analisi del processo di lavoro. In Marx troppo spesso prevale l’idea che lavoro senza qualità significa, se non lavoro dequalificato, lavoro sempre più privo di determinazioni concrete. Questo è proprio un punto dove la sua esemplificazione non è all'altezza delle categorie che lui stesso fornisce. Il lavoro astratto è infatti il lavoro in quanto produce denaro e più denaro, e che a questo fine sussume le proprietà concrete, che ci sono sempre. E quando al capitale conviene, vada per la riqualificazione e per l'autonomia del lavoro, purché si speri di poterle controllare. O pensi alla incapacità di Marx di pensare fino in fondo che il valore, che si costituisce all’incrocio di produzione e circolazione, presuppone una antevalidazione monetaria da parte della banca, e come questi aspetti siano in lui ancora troppo legati a filo doppio ad una teoria della moneta come merce, piena di spunti interessanti, ma non accettabile. Di qui la necessità di una analisi più ricca degli aspetti monetari e finanziari, di un autentico rinnovamento, ma anche estensione creativa, dell'analisi di Marx. Pensi alla sua difficoltà di concepire che la regolazione politica della domanda possa risolvere, temporaneamente, la tendenza alla crisi da realizzo, e come la sua teoria della crisi abbia talora aspetti meccanicistici. Tutti e tre questi nodi sono quelli su cui la nostra analisi del capitalismo degli ultimi trent'anni si è rivelata fragile: l'analisi delle trasformazioni del lavoro, le dinamiche finanziarie, i mutamenti della politica economica, la dimensione geopolitica. Con le illusioni sul postfordismo, sulla globalizzazione, sulla nuova economia, sulla fine del lavoro. Fare come Marx dopo Marx significa non ripeterlo e basta, significa prendere l'economia politica del Novecento (Schumpeter, Keynes, giù giù sino a Minsky e persino aspetti di Stiglitz), imparare da loro, criticarli e superarli in avanti. Significa capire come si evolve il capitalismo, e come la sua critica, nella teoria e nella pratica, non sia mai fatta una volta per tutte. Non credo che questo mi porti fuori dalla teoria del valore: anzi, ogni volta mi ci riporta. Ma solo capendo come cambia il nesso (plus)valore-moneta-lavoro. Per questo a me interessa un Marx eterodosso e non imbalsamato. Un Marx non, innanzi tutto, filosofo o antropologo. Un economista politico critico, o meglio uno scienziato sociale a tutto tondo. Il suo oggetto è il capitalismo come società di classe. Mi interessa condurre una critica all’economia politica che ci aiuti a capire la doppia dannazione del capitale: la sua tendenza all’instabilità e alla crisi e la sua necessità di uscire da sé e incorporare l’attività umana.
Quali sono le conseguenze politiche di questo suo ragionamento?
Il problema vero è che non esiste oggi un discorso politico che contrasti queste dinamiche, e neanche che le comprenda. Né la sinistra comunista né quella socialdemocratica sembrano esserci più davvero, se non come simulacri. Nessuno mette il proprio destino in una sfida che ricollochi al centro il lavoro: al centro della propria interpretazione della realtà sociale, al centro dello scontro politico, al centro del proprio intervento. Mettere il lavoro al centro non è una vuota formula: significa impegnarsi a mantenere una gerarchia forte, nell'analisi e nelle lotte. Peraltro, l'unico gioco in città oggi sembra quello tra neo-liberisti e social-liberisti, e nessuno a sinistra pare rendersene conto. I neo-liberisti vogliono liberalizzare pienamente il mercato del lavoro e distruggere il Welfare: ma al di là di questo tutto sono meno che veri liberisti, difendono i monopoli, creano disavanzi e debito pubblico, salvo comprimere la spesa sociale comunque. Bastino i nomi di Bush e Berlusconi che tutto è chiaro. I social-liberisti sono un'altra cosa, non sono liberisti temperati, la versione meno selvaggia del neoliberismo. I social-liberisti pensano davvero che il ‘lavoro’ non sia una merce come tutte le altre, vogliono mantenere alcune tutele, creare un Welfare universalistico, creare una rete di sicurezza. Che so, sono contro la precarietà, che distinguono rigorosamente dalla flessibilità, che però richiede che i lavoratori si adattino a variabile dipendente, fattore di produzione. In cambio verranno offerte forme limitate di sostegno monetario al reddito, la versione povera della flexsecurity e del basic income. Siamo però in un orizzonte comune, tra questi social-liberisti e la sinistra radicale che si raccoglie sotto quelle bandiere (d'altra parte, i referenti teorici sono proprio gli stessi). C'é però, di nuovo, un paradosso, messo in evidenza dal nuovo ciclo economico-politico, che si chiarisce subito se pensi all'alternanza Reagan/Bush sr., poi Clinton, poi Bush jr: o, da noi, centro sinistra del risanamento, poi Berlusconi, poi si spera vittoria del nuovo centro-sinistra. I neoliberisti vanno al governo, attaccano il lavoro e il Welfare, intanto spendono e spandono, creando voragini nel bilancio pubblico. Da noi, con il centro-sinistra, non ce la fanno però più di tanto a liberalizzare fino in fondo il mondo del lavoro, a distruggere lo stato sociale. Dopo di loro arrivano i social-liberisti. Vogliono davvero redistribuire, e un pò lo fanno: ma con moderazione, sono gente seria, gente per bene, deve coprire i buchi di bilancio, bisogna riparare ai danni alla finanza pubblica. La loro liberalizzazione, accompagnata ad una pallida riregolazione e a un vago orientamento dell'economia per incentivi e disincentivi, rimetterà in moto lo sviluppo, no? Allargando la torta, così poi ce n'è per tutti. Intanto, introducendo i fondi pensione. Non si devono mettere i bastoni tra le ruote a questo progetto di nuovo sviluppo, è chiaro: se non sarà un attentato alla Patria, poco ci mancherà. Così, mentre il mondo del lavoro e le lotte sociali hanno più spazio e radicalità quando il centro-destra è al governo, con il centro-sinistra aumenta la divisione e la repressione: non si devono mettere i bastoni tra le ruote alle riforme nel mercato del lavoro, alla flessibilità, e così via modernizzando. Ovviamente, l'analisi del nuovo capitalismo dei social-liberisti non sconta la sua insostenibilità e la sua instabilità. Sicché crisi e disillusione sociale aumentano lo scontento, aprono vistose falle per una deriva di massa a destra, e il gioco riparte in condizioni peggiori. Magari risbattendo il centro sinistra all'opposizione, ma sicuramente con più macerie per quel che riguarda il lavoro e la società. Non sarebbe male ci fosse una sinistra 'marxiana' in campo, capace di capire cosa succede, e almeno in grado di dire la verità. Se non di rompere questo gioco, almeno provarci. Non ci conto.
Fonte: www.centroriformastato.it

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