La verità sul debito pubblico italiano (e la
“controrivoluzione” del 1981)
Francesco Petrini, Esseblog.it
“Sarebbe un grave pericolo, lo
confesso, se il Governo [….] avesse il potere di emettere moneta. Io, perciò,
propongo di attribuire questo compito a dei commissari inamovibili dal loro
incarico se non a seguito di una votazione di uno o entrambi i rami del
Parlamento. […] I commissari non dovrebbero mai, sotto nessun pretesto,
finanziare il Governo, né essere in alcun modo sotto il suo controllo o la sua
influenza”
“La Banca di Francia è stata creata nel
1801 e nel 1974 finanziava lo Stato senza interessi. Se fosse rimasto così oggi
[…] il debito pubblico francese sarebbe del 16 o 17 per cento del PIL. Ma nel
1974 si è approvata una legge incredibile, che si chiama legge bancaria, che ha
impedito allo Stato di finanziarsi senza interessi presso la Banca di Francia e
ha obbligato (come i tedeschi secondo la moda dell’epoca) lo Stato e
finanziarsi sul mercato finanziario privato”
Come
ci ripetono quotidianamente i media, il debito pubblico italiano è uno dei più elevati al mondo,
sia in assoluto (2068 miliardi di euro)
che in rapporto al PIL (134%). Come abbiamo
fatto ad accumulare una tale massa di debiti? Le spiegazioni che vanno per la
maggiore puntano il dito contro un eccesso di Stato sociale, la “casta”, il
malcostume di un popolo mediterraneo, micacomequellidelnord, signora mia, e,
ovviamente, il
‘68. In
realtà, non molti sanno che lo Stato scialacquatore da più di venti anni
incassa più di quello che spende, al netto del pagamento degli interessi sull’enorme massa di debito
accumulato. Per dirla in maniera più forbita, dal 1992 il bilancio dello Stato
italiano consegue un avanzo primario,
ininterrottamente con la sola eccezione del 2009.
Dunque
il disavanzo deriva dal pagamento degli interessi. Come si vede qua e qua, la spesa per
interessi in rapporto al PIL decollò negli anni Ottanta. Fino allora era
rimasta a livelli contenuti, grazie soprattutto all’elevata inflazione che nel
corso degli anni Settanta aveva contribuito a contenere il costo del debito.
Dal 1981 in poi la spesa per interessi si impenna fino a quasi triplicare nei
primi anni Novanta. Nel frattempo il debito passa da meno del 60% del PIL del
1980 al 120% dei primi anni Novanta.
Fonte:
per i dati fino al 1979: Mario Arcelli, Stefano Micossi, “La politica economica
negli anni Ottanta (e nei primi anni Novanta)”, in Mario Arcelli (a cura di), Storia,
economia e società in Italia 1947-1997, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp.
263-322, Tab. 3 La sostenibilità del debito pubblico, pp. 310-311. Dal
1984: dati Istat, Conti economici nazionali, http://seriestoriche.istat.it/.
Cosa è successo? Tante cose, tra cui anche il “Volcker shock” cioè la decisione della Banca
centrale statunitense di alzare i tassi di interesse ai livelli più alti “dai
tempi Gesù Cristo” (come disse il cancelliere tedesco Helmut Schmidt), ma cruciale fu uno
scambio epistolare nella primavera del 1981 tra il governatore della Banca
d’Italia, Carlo
A. Ciampi, e il
ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, con cui si
sanciva il cosiddetto “divorzio”
tra il Tesoro e la Banca centrale. In pratica, si poneva termine all’obbligo di acquisto dei titoli pubblici
da parte dell’istituto di emissione, rafforzandone l’indipendenza dalla
politica. Nelle intenzioni originarie ciò avrebbe dovuto condurre ad una
moderazione della spesa pubblica.
In
realtà, avendo deciso di privatizzare il proprio debito, lo Stato si trovò a
pagare prezzi (interessi) sempre maggiori: da un lato perché costretto a
cercare acquirenti sui mercati finanziari, in competizione con altri enti di
emissione; dall’altro perché una politica di alti tassi di interesse era
dettata dalla difesa del tasso di cambio della lira all’interno del Sistema
Monetario Europeo.
Il
risultato di queste scelte fu l’esplosione del debito pubblico, la
creazione di un vasto mercato finanziario prima praticamente inesistente nel
nostro Paese, nonché, ma questo è un altro discorso, l’avvio della
dismissione della grande industria in Italia.
Fonte:
per i dati fino al 1979: Mario Arcelli, Stefano Micossi, “La politica economica
negli anni Ottanta (e nei primi anni Novanta)”, in Mario Arcelli (a cura di), Storia,
economia e società in Italia 1947-1997, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp.
263-322, Tab. 3 La sostenibilità del debito pubblico, pp. 310-311. Dal
1980: dati Istat, Conti economici nazionali, http://seriestoriche.istat.it/.
Perché tali scelte in gran parte autodistruttive? In parte si è
trattato di un errore di calcolo delle classi dirigenti del Belpaese, che
speravano nella disciplina imposta da un cambio forte e da una banca centrale
indipendente per avviare le riforme necessarie, secondo loro, al Paese. Ma, in
parte ancor più grande, è stata una scelta diretta a contenere la spinta
democratica generata dal protagonismo dei lavoratori durante gli anni Settanta.
Proprio nel 1975 era stato celebrato il “matrimonio” poi sciolto
consensualmente sei anni più tardi, con una delibera che stabiliva l’obbligo di
acquisto da parte della Banca dei titoli del Tesoro rimasti invenduti alle aste
pubbliche. Si trattava della formalizzazione di un’unione di fatto che nel
clima politico di quegli anni appariva del tutto scontata. Fare diversamente
appariva “un atto sedizioso”, come affermò nelle Considerazioni
Finali (p. 563) del 1974 il governatore della Banca di allora, Guido Carli, uomo non certo
sospettabile di simpatie per la sinistra:
“Ci siamo posti e ci poniamo
l’interrogativo se la Banca d’Italia avrebbe potuto o potrebbe rifiutare il
finanziamento del disavanzo del settore pubblico astenendosi dall’esercitare
la facoltà attribuita dalla legge di acquistare titoli di Stato. Il rifiuto
porrebbe lo Stato nella impossibilità di pagare stipendi ai pubblici dipendenti
dell’ordine militare, dell’ordine giudiziario, dell’ordine civile e pensioni
alla generalità dei cittadini. Avrebbe l’apparenza di un atto di politica
monetaria; nella sostanza sarebbe un atto sedizioso, al quale seguirebbe
la paralisi delle istituzioni”
Pochi
anni dopo, il governatore Ciampi definiva
invece “urgente” cessare
“l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei BOT non aggiudicati alle aste”
(p. 867). Il “divorzio” nacque – nelle parole
dello stesso Andreatta – come “rottura con il passato, quando poteva apparire ‘sedizioso’ un
comportamento della Banca che rifiutasse il finanziamento del fabbisogno
pubblico per non creare base monetaria in eccesso”. Inoltre, aggiungeva
Andreatta nel passaggio che meglio esprime la filosofia che stava dietro quella
decisione, “Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe
avuto negli anni seguenti; nato come ‘congiura aperta’ tra il ministro e
il governatore divenne, prima che la coalizione di interessi contrari potesse
organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso […]
abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato”.
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