La
vera domanda non è quando usciremo dalla crisi, ma come ne usciremo e,
soprattutto, in che mondo ci ritroveremo dopo. Già, perché comunque
vada, non sarà un ritorno al prima, come se si trattasse di guarire da
una febbre passeggera, e le attuali politiche di governi, banche
centrali e troike varie non servono tanto e soltanto per riattivare
un’economia depressa, ma anche per disegnare un altro e nuovo modello
sociale e politico, in dichiarata antitesi con quanto abbiamo conosciuto
nell’epoca post sessantottina e persino post Liberazione. Insomma, con
quello che a volte viene riassunto nel termine generico di modello sociale europeo.
Certo, lo so, detto così
suona un po’ astratto e soprattutto terribilmente lontano dai problemi
ben più impellenti che la maggior parte di noi deve affrontare nella
quotidianità, tipo come arrivare alla fine del mese, come trovare un
lavoro o un reddito o come immaginarsi un futuro. Siamo stufi,
sfiduciati, squattrinati, precari e disillusi, non abbiamo più tempo e
voglia di interrogarci sui grandi temi, desideriamo soltanto che finisca
e che torni il sole. E così, siamo anche disposti a cantare nel coro
delle Riforme, qualunque cosa vogliano dire, e persino a consegnare a Renzi il 40% dei voti.
Tutto comprensibile, per
carità, ma anche tutto sbagliato, perché di questo passo rischiamo una
fregatura grossa come una casa e potremmo ritrovarci con tante riforme
fatte, un Pil in crescita e un debito pubblico in calo, ma noi più
scemi di prima, con il conto da pagare in mano e sempre precari,
squattrinati e con un futuro incerto. Insomma, magari ci conviene
ricominciare ad occuparci dei grandi temi e leggere le famose riforme
alla luce del modello di società che indicano, cioè del futuro che ci
preparano. E questo vale anche –e forse soprattutto- per l’annosa
questione dell’articolo 18 e della riforma del mercato del lavoro, cioè uno di quei dibattiti con il maggior tasso di teatrini, ipocrisie e giochi pirotecnici che ci sia in giro.
Il teatrino
Correva l’anno 2001,
quello di Genova, e al governo c’era di nuovo Berlusconi. Nell’ottobre
di quell’anno l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il
leghista Roberto Maroni, pubblicò il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia,
con l’obiettivo di “una complessiva rivisitazione del nostro
ordinamento giuridico del lavoro”. Alla sua stesura aveva lavorato un
gruppo di lavoro coordinato dall’allora sottosegretario Maurizio Sacconi
e dal giuslavorista Marco Biagi. Quel libro bianco avrebbe poi
partorito il D.lgs. n 276/2003 (più conosciuto come legge Biagi),
cioè quella riforma del mercato del lavoro che diede una potentissima
spinta alla diffusione dei contratti precari, a cui erano già state
aperte le porte dal cosiddetto Pacchetto Treu nel 1997.
Con il libro bianco si
era anche aperto il fronte dell’articolo 18, che da allora in poi non si
sarebbe più chiuso. Ma a quel tempo il teatrino era ancora limitato e
lo scontro era più trasparente e vero. Infatti, le velleità di
modificare direttamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori
furono bloccate da una fortissimo mobilitazione sindacale, sfociata
nella famoso manifestazione dei 3 milioni del 23 marzo 2002. Ma erano
altri tempi, erano gli anni dei movimenti di Genova, che infatti avevano
sostenuto la mobilitazione della Cgil, e poi al governo c’era
Berlusconi e quindi anche dalle parti del centrosinistra si era più
radicali.
Ma appunto, i tempi
cambiano, e quando fu ripreso il tema dell’articolo 18 il teatrino non
aveva più freni. In questi anni l’articolo 18 è stato incolpato più o
meno di tutto, ma fondamentalmente le accuse sono di due tipi: primo,
sarebbe una roba vecchia, da privilegiati, anzi il pilastro di un
sistema di apartheid (copyright by Renzi) che discrimina i
giovani e, secondo, sarebbe uno dei responsabili del fatto che non si
facciano investimenti in Italia.
Nel merito queste accuse
sono piuttosto inconsistenti e persino ridicole. Infatti, è un po’
difficile sostenere seriamente che la precarietà sia colpa dei
lavoratori che hanno ancora un contratto a tempo indeterminato e non
delle leggi che hanno liberalizzato i contratti precari. E poi, cosa
vuol dire risolvere il dualismo del mercato del lavoro, togliendo i
diritti a chi ancora ce li ha e non riconoscendo i diritti a chi oggi ne
è privo? Per quanto riguarda gli investimenti, basterebbe leggersi le
valutazioni delle società specializzate in materia o sentire le
lamentele dei famosi investitori esteri, dove tra le ragioni di
criticità dell’Italia è molto difficile trovare l’articolo 18 e il
reintegro, se non nelle ultime posizioni. Infatti, ben altre sono
lamentele, dal costo dell’energia al peso degli adempimenti burocratici,
dai tempi lunghi della giustizia civile alla corruzione.
Ma, appunto, il merito
ha poco spazio in questo dibattito e nella sua dimensione pubblica e
propagandistica contano le percezioni e le sensazioni trasmesse. E così,
il teatrino va a gonfie vele, alfaniani contro bersaniani, forzitalioti
contro sindacalisti, camussiani contro governativi, Pd di minoranza
contro Pd di maggioranza eccetera eccetera. Ognuno con la sua bandiera e
ognuno interessato più agli affari suoi che al merito della questione.
Un teatrino utile, beninteso, anzitutto per chi vuole fare tabula rasa
di ogni tutela in materia di licenziamenti, perché rafforza la
sensazione che la contesa non riguardi i lavoratori, i precari e i
disoccupati, ma che sia soltanto una questione di litigio tra politici.
Infine, il meschino
gioco di dire al giovane precario che la sua situazione è dovuta a chi
ha il “privilegio” dell’articolo 18 fa leva su un dato materiale: oggi
soltanto una minoranza dei lavoratori e delle lavoratrici nel nostro
paese può usare a propria tutela l’articolo 18, poiché sono esclusi de iure tutti i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti e de facto
tutti i precari. Quindi è facile sparare sull’articolo 18, mentre è
molto più difficile che chi ne è escluso si mobiliti per difenderlo. A
questo punto sarebbe però anche lecito chiedere “ma allora come mai è
così importante eliminare questo articolo 18?”, ma questo, si sa, è un
altro discorso.
Le ipocrisie
Non c’è teatrino senza
ipocrisia e questo vale anche nel nostro caso. Anzi, le troppe ipocrisie
accentuano la sensazione di estraneità da parte di molti, specie dei
più giovani. Insomma, non si può gridare al colpo di stato e invitare
all’insurrezione popolare quando a toccare l’articolo 18 è un governo
Berlusconi e, poi, essere invece responsabilmente disponibili a
modificarlo quando al governo c’è il centrosinistra. E questo non
riguarda soltanto esponenti politici del Pd, ma anche –e questo è molto
peggio- dirigenti dei sindacati confederali.
Infatti, l’articolo 18
in quanto tale non è mai stato modificato da un governo di centrodestra.
Non ci sono mai riusciti. È stato modificato, invece, nel 2012 dalla
Riforma Fornero, cioè dal governo Monti e con i voti della grande
coalizione, compresi dunque quelli del Pd. Anzi, quella modifica fu
approvata con il consenso di fatto di Cgil, Cisl e Uil, che infatti si
astennero da qualsiasi forma di protesta o mobilitazione.
Con la riforma Fornero
la sfera di applicazione dell’articolo 18 è stata ulteriormente
ridimensionata, perché ora il reintegro nel posto di lavoro è
obbligatorio soltanto in caso di licenziamento discriminatorio, che però
è anche la fattispecie più difficile da provare in sede processuale, e
in alcuni casi ben circoscritti dell’illegittimo licenziamento
disciplinare. In tutto il resto dei casi, sebbene l’illegittimità del
licenziamento sia accertata, non c’è più il diritto al reintegro, ma
solo quello a un risarcimento economico.
Infine, arriviamo
all’oggi, al governo Renzi e al tentativo di dare l’ultima spallata
all’articolo 18. Allo stato, ovviamente, non si sa come sarà esattamente
la modifica finale, perché il Jobs Act (attualmente in discussione in
Parlamento) è una legge delega. Cioè il Parlamento voterà una sorta di
legge quadro, delegando così la formulazione della legge vera e propria
al Governo. E così, cosa già di per sé molto discutibile, il Governo
potrà ri-scrivere con ampia autonomia interi pezzi fondanti dello
Statuto dei Lavoratori.
Comunque, a giudicare dal testo dell’emendamento
presentato dal Governo e approvato ieri dalla Commissione Lavoro del
Senato, ci si dovrebbe orientare verso un “contratto a tempo
indeterminato a tutele crescenti”, il che vorrebbe dire che per un
neoassunto (di qualsiasi età) non varrà più l’articolo 18 e il reintegro
per i primi (3?) anni. Insomma, è un po’ come un periodo di prova lungo
anni.
Inoltre, tanto per non
lasciare dubbi sul senso dell’operazione, l’emendamento presentato ieri
prevede anche due altre modifiche allo Statuto dei Lavoratori. La prima
intende consentire alle aziende la pratica del demansionamento del
lavoratore e la seconda prevede l’attenuazione del divieto del controllo
a distanza del lavoratore.
La posta in gioco
Tra teatrini e ipocrisie
e un articolo 18 già oggi fortemente ridimensionato, si impone infine
la domanda sulla vera posta in gioco. O meglio, a questo punto c’è
ancora una posta in gioco? Ebbene, io credo che ci sia, eccome.
Molti, da destra a sinistra, in queste settimane hanno parlato di totem, simbolo e scalpo
a proposito dell’articolo 18. C’è una parte di verità in questo, anche
perché nella vita sociale e politica queste cose sono importanti, hanno
il loro peso. Ma c’è molto di più in questo accanimento contro un
articolo 18 ormai malconcio, manomesso e traballante: c’è la ricerca
deliberata di una rottura culturale, di un atto costituente di una nuova
epoca.
Lo Statuto dei
Lavoratori con il suo articolo 18, diventato legge il 20 maggio 1970, fu
una conseguenza diretta dei movimenti e delle lotte del 68 e
dell’autunno caldo del 69. Fu oggettivamente una conquista del movimento
operaio, anche se a sua tempo non fu riconosciuto e percepito come tale
dai protagonisti delle lotte. E non mi riferisco soltanto ai settori
più radicali in rapida crescita, ma allo stesso PCI, che in Parlamento
non votò a favore della legge, ma si astenne, perché la considerava
troppo favorevole alle imprese e agli interessi padronali.
Molto tempo è passato da
allora e i rapporti di forza sociali sono cambiati, parecchio. Quello
che allora si presentava come un’operazione democristiana per fermare
l’impeto delle lotte operaie, era nel frattempo diventato uno
preziosissimo strumento di difesa dei lavoratori, nonché una questione
di civiltà (perché è sempre bene ricordare che l’art. 18 non vieta
affatto i licenziamenti, ma si limita a sanzionare mediante il reintegro
il licenziamento illegittimo). Fare a pezzi lo Statuto dei Lavoratori e
il suo articolo più conosciuto e invocato, il numero 18, non servirà a
produrre nuovi posti di lavoro e nuovi investimenti e non aiuterà
nemmeno un precario a diventare meno precario. No, servirà a sancire la
fine di un’epoca, ad abbattere l’ultima barricata rimasta di un tempo
quando la classe operaia voleva andare in paradiso. Con un articolo 18
giustiziato sulla pubblica piazza non ci saranno più argini, barricate e
trincee. Non ci saranno più tabù. Questo è il senso dell’operazione.
E se mi chiedete come
sarà dopo, vi dico che non lo so, ma è sufficiente guardare a quelle
quote di futuro senza diritti già ben presenti oggi per aver un’idea di
che cosa si stia preparando. Guardate a quello che succede nelle
cooperative che lavorano per la grande distribuzione, nella raccolta dei
pomodori e degli agrumi o in uno dei tanti interstizi urbani dove
prolifera il precariato senza regole e sottopagato. Dietro i teatrini,
le ipocrisie e i fuochi pirotecnici c’è infatti questo, un ritorno al
passato.
Insomma, penso proprio che sia di nuovo tempo di pensare ai grandi temi e di lasciarci alle spalle la rassegnazione.
LUCIANO MUHLBAUER
da lucianomuhlbauer.it
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